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S.Messe (settimana)
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Lug 5, 2020

XIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno A - "Amore per gli altri" - 5 luglio 2020

Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, si può dire che sono un concentrato di paradossi e il paradosso più grande lo incontriamo
nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Zaccaria, in cui il re messianico appare in atteggiamento mite ed umile, evidenziato dal fatto che cavalca un asinello e non un cavallo da guerra. Egli è re di pace che spezza i simboli e gli strumenti di guerra. E’ il paradosso di un re umile eppure dominatore del mondo.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo sottolinea come la libertà ottenuta in Cristo fa sì che il principio di azione dominante in noi non sia più il peccato, ma lo spirito che dà vita.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù benedice e ringrazia il Padre che ha scelto di rivelare ai piccoli e agli umili i segreti dei suo cuore, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e agli intelligenti. Poi fa un invito che è un vero e proprio programma di vita per ogni cristiano: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Gesù chiama alla sua libertà, ad un incondizionato attaccamento a lui, al suo giogo, che è il solo a poter rendere tutto leggero, perché si presenta umile davanti a Dio e mite con gli uomini.

Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».
Za 9, 9-10

Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute. Il libro, che porta il suo nome, si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta.
La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, attribuita ad un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno, a sua volta si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (cc.11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (cc-11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (cc.12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (cc.14,1-21).
Il brano che abbiamo si apre con un invito alla gioia: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!” rivolto agli abitanti di Gerusalemme. L’espressione “figlia di Sion” come la successiva “figlia di Gerusalemme” è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme.
Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
La particella “Ecco” indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente e l’espressione “a te viene il tuo re” indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Il Messia non sarà solo giusto, ma anche “vittorioso” ed umile. Egli “cavalca un asino”: mentre guerrieri forti e valorosi manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello!
A questo re, che entra trionfalmente in Gerusalemme, vengono attribuite due azioni: prima di tutto egli “Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme”. Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme.
Sia in Israele che in Giuda egli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. . Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele.
Questo Messia dunque eliminerà la guerra per sempre! Si afferma ancora che il Messia “annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”.
La missione principale del Messia sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (Is 11,6) e Osea (Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Salmo 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.
In questo brano si preannunzia in calde note la venuta del “Re Messia“ che è presentato come una persona giusta e mite. Ciò che lo caratterizza non è tanto la vittoria sui nemici, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste, non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta, elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Mediante la sua umiltà, e non violenza, il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la Sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma toccando il cuore delle persone.

Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.

O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.

Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano in questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C. .Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re:
“O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo. Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".
Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.
Rm 8, 9. 11-13

Continuando la sua lettera ai Romani, Paolo affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato precedentemente.
In questo brano invita i Romani allora, e anche noi oggi, a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano: “voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo, perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro appartengono a Cristo.
Poi prosegue: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare.
L’apostolo poi conclude il suo pensiero: “Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”
Egli ricorda così che, se si vive secondo la carne,(ossia secondo la mentalità del mondo) si andrà incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito si fanno morire le opere del mondo, si vivrà.
Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne (ossia del mondo) cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.
Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana.
All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, da una legge dettata da un relativismo sempre più pressante. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà.
Lo Spirito dunque è una forza piena di dinamismo, che fa tendere alla piena partecipazione alla vita di Cristo, alla resurrezione, dato che la risurrezione di Cristo è strettamente legata alla nostra. Ma questa realtà , che è operata in noi dallo dono dello Spirito, rimane sempre una nostra scelta libera che si ripropone ogni giorno.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Mt 11, 25-30

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte della “sezione narrativa” che si era aperta con le domande fatte a Gesù da parte di due discepoli di Giovanni il Battista, poi c’è l’elogio che Gesù fa del Battista a cui segue un giudizio di Gesù sul Battista: “… tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista…” ; .
L’inno che Gesù proclama in questo brano è stato definito “una gemma giovannea” incastonata nel Vangelo di Matteo. Lo stile solenne, la tonalità intensa, la ricchezza teologica accostano infatti questa “benedizione” alla grandiosa preghiera sacerdotale con cui Gesù chiude nel Vangelo di Giovanni il testamento dedicato ai suoi discepoli nell’ultima sera della Sua vita terrena.
Per comprendere meglio questo inno è importante capire in quale contesto è stato pronunciato.
Nel paragrafo precedente Matteo ha descritto il rifiuto che Gesù subisce da parte delle autorità delle città di Tiberiade, Corazin, Betsàida., Cafarnao, indifferenti alla Sua parola e alla Sua azione.
Gesù qui dichiara “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”
Gesù ringrazia il Padre perché dal mistero del regno di Dio, cioè dal progetto di salvezza che Dio sta attuando attraverso di Lui, Suo figlio, è caduto il velo, e gli occhi non altezzosi, non pieni di sé dei poveri e degli umili, possono contemplare il “Signore del cielo e della terra”. I sapienti, gli intelligenti orgogliosi hanno invece occhi spenti, offuscati dai loro pregiudizi, che vedono in Gesù solo un modesto predicatore di Nazareth, figlio di un carpentiere, degno solo di ironia.
Poi Gesù fa l’invito consolante: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”.
Gesù così invita tutti coloro che si sentono affaticati e gravati dalle prescrizioni giudaiche, a mettersi alla sua sequela, E’ interessante notare che l’immagine del “giogo” era usata nella tradizione giudaica per indicare la Legge e le sue esigenze, imposte dal Signore ad Israele. Gesù ripropone questo simbolo ma lo spoglia del suo aspetto di imposizione e lo presenta con una dimensione più “dolce” , ma non per questo meno esigente. Infatti la totalità degli molteplici impegni della religione e della morale è sintetizzata in un unico totalizzante impegno, il “giogo” dell’amore.
La relazione con Dio non è più regolata da un freddo dovere o dalla paura del giudizio, è invece fondata sull’amore filiale e spontaneo ed è per questo molto più esigente e piena . La comunità dei “piccoli” che ha scoperto i misteri del Regno deve allora avviarsi su questa strada di luce e come dice il profeta Geremia, “strada buona e prendendola troveremo pace per le nostre anime”.Ger 6,16

 

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“Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro»
Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro.
Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con se stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” – “Chi?” - “Tu, tu, tu…”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero.
Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto… È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate… Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”.
Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo.
Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze.
Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui.È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me […] e troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù. ..”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 luglio 2017

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(Papa Giovanni XXIII)

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