Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore il seme della parola di Dio – il suo potere e il terreno adatto per meglio accoglierla.
Nella prima lettura, Il profeta Isaia paragona la parola di Dio alla pioggia e la neve che scendono dal cielo per irrorare il terreno e non tornano a Lui senza aver compiuto loro missione. La parola uscita dalla bocca e dal cuore di Dio realizza sempre quello che annuncia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Gesù ha portato nel mondo la salvezza, non solo agli uomini , ma a tutta la creazione. Anch’essa perciò attende con ansia il compimento finale della salvezza.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù racconta la parabola del seminatore. Il seme è la parola di Dio che viene predicata con abbondanza, per poter raggiungere ogni tipo di terreno. Ci vogliono però delle particolari condizioni per poter far crescere questo seme e garantirne il frutto.
Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore:
«Come la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Is 55,10-11
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.
Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, (590-530 a.C.) in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo.
Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro con un editto autorizzò gli Israeliti, nel 538 non solo di fare ritorno in patria, ma di ricostruire il tempio di Gerusalemme. In questo modo il sovrano ottenne anche il controllo dell'area fenicio-palestinese. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano c’è un’unica frase che contiene un paragone tra ciò che avviene nella natura e l’attuazione della Parola divina: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia”
In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.
“così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata.
Si può notare che al delicato paragone della Parola con la pioggia ristoratrice, in Geremia (23,29) il paragone si sostituisce con il fuoco e il martello “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?” mentre nella lettera agli Ebrei (4,12) si ha una metafora ancora più forte “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.”
Salmo 64 Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge
e benedici i suoi germogli.
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia!
Il salmo è un inno di lode e di ringraziamento a Dio composto in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per l’annuale celebrazione della Pasqua Cf. Lv 23,5s). Il tempio è la meta di arrivo: “Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacre del tuo tempio”.
Il salmo ha un grande respiro universalistico presentando Dio non solo quale salvezza di Israele, ma quale fiducia di tutte le genti, poiché gli uomini tendono nella preghiera al “Dio ignoto” (At 17,23), di cui ne colgono l'esistenza e la bontà: “Fiducia degli estremi confini della terra e dei mari lontani”. “I mari lontani” non sono solo distese di acqua, ma sono mari con isole (Cf. Ps 96,1).
Il salmista conosce il valore di incontro con Dio che il tempio offre, perciò prova una santa invidia per coloro che hanno un’opportunità costante di frequentarlo; cioè coloro che sono diventati gli abitanti di Gerusalemme: “Beato chi hai scelto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri”. Il tempio è quello eretto da Salomone poiché il salmo dice come Dio abbia fermato e fermi il tumulto dei popoli: è tempo di pace, di libertà, il momento del massimo splendore di Israele. Dio è in pace col suo popolo: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini”. “Il fiume di Dio” è, con immagine poetica, il calare dell’acqua dal cielo; è la pioggia (Cf. Ps 103,3).
Questo salmo noi lo recitiamo in Cristo, così la casa del Signore è la chiesa dove è presente l’Eucaristia. Ed è beato chi ha lasciato tutto per seguire più da vicino il Signore poiché può “abitare nei suoi atrii”.
“In Sion”, nelle chiese, deve sempre innalzarsi la lode e i ringraziamento per la salvezza ricevuta in Cristo, per la sua presenza sull’altare. I voti, che uno puo’ aver fatto, di maggior partecipazione alla vita ecclesiale, apostolica, trovano il momento del loro scioglimento, o meglio la forza per essere adempiuti, nella partecipazione viva all’Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,18-23
Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente, mostrando anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato. Qui afferma che : “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi.“
L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”
L’apostolo intravede quindi per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. La liberazione delle creature infatti è orientata verso la “libertà della gloria” (che sarà propria) “dei figli di Dio”. Paolo qui sembra che pensi a un nuovo Eden nel quale l’universo, completamente rinnovato, sarà in piena sintonia con l’uomo glorificato.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
L’attesa del creato viene paragonata da Paolo a quella di una donna incinta che geme e soffre le doglie del parto “fino ad oggi” Si tratta quindi di un’attesa molto lunga, che è già cominciata nel momento della prima caduta.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Insieme alla creazione anche noi credenti “gemiamo interiormente “(in noi stessi), aspettando ancora “l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. In altre parole noi possiedono già lo Spirito, ma in modo ancora parziale e provvisorio, e attendiamo con impazienza ciò che si manifesterà in tutte le sue potenzialità (V. 1Gv 3,2) mediante la risurrezione dei corpi.
Nei successivi vv. 24-25 (non riportati nel brano liturgico), Paolo conclude che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.
Dal vangelo secondo Matteo
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole.
E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Mt 13, 1-23
L’Evangelista Matteo ci riporta in questo brano la prima di una serie di parabole raccolte in un intero capitolo e tutte queste parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli. Quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della mietitura. Un'altra caratteristica di questo capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli. Le ultime cinque parabole invece non hanno alcuna spiegazione.
Il brano inizia riportando che Gesù uscì di casa, in cui aveva ricevuto poco prima la visita di sua madre e dei suoi fratelli, e si reca presso il lago di Genesaret, o lago di Tiberiade. e sedette in riva al mare.
E' la prima volta che Matteo parla in modo chiaro della casa abitata da Gesù (si tratta in effetti della casa di Pietro a Cafarnao). Tutto questo capitolo si muove tra la casa e il mare. Gesù, uscito dalla casa si siede lungo il mare, si siede per insegnare come un Rabbi. Ma il discorso che egli fa, non è un insegnamento tipico, ma piuttosto un annuncio, una predicazione.
“Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia”.Dalla spiaggia Gesù si trasferisce sulla barca, dalla quale poteva essere ascoltato e visto meglio dalla folla che si era radunata.
“Egli parlò loro di molte cose con parabole.” Con il termine "molte cose" si può anche intendere che parlò loro a lungo. La parabola indica normalmente un paragone, una similitudine, qualche volta un po' enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo velato, un po' misterioso, una realtà che non è dell'ordine naturale, come appunto il regno di Dio.
“E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare”.
Nonostante lo spreco e l'insuccesso possiamo constatare che questo seminatore riesce comunque a ottenere un raccolto straordinario. Non viene spiegato chi sia, ma la circostanza lascia facilmente pensare che Gesù stia parlando proprio di se stesso, è Lui che semina la "parola del regno". In un certo senso è una parabola in via di realizzazione e si può dire dire che Gesù spiega quello che succede nel momento stesso in cui sta parlando.
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Ci può sembrare un po’ strano questo modo di seminare, ma è da tener presente che in Palestina la semina precede l'aratura: si poteva seminare un po' dovunque, tanto poi si sarebbe passati con l'aratro! Ma la parabola però non parla di nessuna aratura! Gli elementi ricordati nella parabola sono tipici dell'agricoltura palestinese: il terreno è sempre più sassoso del nostro, le spine servivano da siepi di recinzione, i sentieri dei campi venivano arati. Però non ci si può fermare troppo ai particolari della parabola, ciò che conta è il suo significato E’ evidente anche che una spiga che produce cento grani è una vera e propria esagerazione.
“Chi ha orecchi, ascolti”.
Ossia chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
Qui come si è visto precedentemente (Mt 12,46-50), vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. Alle folle Gesù parla in parabole, mentre ai discepoli, in disparte, spiega i misteri del regno dei cieli.
Il termine ”misteri” non si trova nei vangeli, eccetto che in questa occasione e qui sta a significare ‘segreto', qualcosa che viene svelato ad alcuni e che essi possono rivelare ad altri. Per Matteo invece vi sono più "segreti" legati al regno: il regno è fatto di un insieme di cose misteriose e umanamente inspiegabili.
“Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
Uno di questi segreti è il fatto che ad alcuni sia dato conoscere e ad altri invece sia negato: agli uni il regno si rivela, agli altri invece si nasconde. “A chi ha sarà dato..." è un principio tratto dalla vita economica: il capitale dell'uomo ricco produce interessi, mentre il povero che non ha da investire, impoverisce sempre di più. Le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere.
“Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”.
Nelle folle c’è già di per sé una certa incomprensione e non è originata dal linguaggio parabolico di Gesù, che non fa altro che renderla più evidente. Comunque sia dobbiamo ammettere che c’è un paradosso in questa affermazione.
“Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.
Il testo di Isaia, che è uno dei più citati nel Nuovo Testamento, serve a spiegare l'insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella di Isaia stesso: non si tratta di un giudizio di condanna.
“Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” Dopo le enigmatiche parole di Isaia, Matteo riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli. La comprensione è un dono gratuito, tanti uomini giusti del passato non hanno potuto vedere e ascoltare quello che invece oggi i discepoli possono vedere e udire.
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”.
Voi dunque che potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della parabola. Essa viene chiamata la parabola del seminatore, ma la si può chiamare anche "dei quattro terreni".
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno”.
Il secondo terreno corrisponde al seme gettato sui terreni pietrosi, che lasciano spuntare solo qualche germoglio debole, rivelano gli incostanti, i fragili, i deboli, che nel momento della prova non sono in grado di superarla.
“Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”
Il terzo terreno è quello infestato da spine, che sono l’emblema dei superficiali, degli instabili legati ai miti del facile benessere e dell’orgoglio.
“Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”
Il quarto terreno è quello che dà frutto, ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato questi tre rendimenti con l'osservanza del triplice comandamento che gli ebrei ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: “Ascolta Israele, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza”. Nella comune interpretazione rabbinica "con tutta l'anima" significa "perfino se egli ti strappa l'anima", cioè fino al martirio; mentre "con tutta la forza" significa "con tutte le tue ricchezze“.
Quelli che producono il cento sono coloro che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro proprietà , ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita, cioè i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell'occasione di dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell'occasione di offrire, per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Gesù, spiegando la parabola ai suoi discepoli non dice chi sia il seminatore, ma chiarisce solo come l’accoglienza della sua “Parola” (il seme) possa cambiare il cuore di chi l’ascolta. È il cuore il luogo dove viene accettata o rifiutata la salvezza, che dipende solo dalla libera responsabilità umana. Auguriamoci di essere terreni fertili e fruttuosi per la parola di Dio che riceviamo così saremo tra coloro che il Signore Gesù ha detto: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”.
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“Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio; non era una teologia complicata. E un esempio è quello che oggi porta il Vangelo: la parabola del seminatore.
Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» , per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza», così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.
La Madre di Dio, che oggi ricordiamo col titolo di Beata Vergine del monte Carmelo, insuperabile nell’accogliere la Parola di Dio e nel metterla in pratica (cfr Lc 8,21), ci aiuti a purificare il cuore e a custodirvi la presenza del Signore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 luglio 2017