La liturgia di questa domenica, ci aiuta a comprendere e a vivere il tempo e la storia nelle tre dimensioni della vita cristiana, che sono il passato accolto nella fede, il futuro proiettato nella speranza e il presente vissuto nella carità.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, vediamo come mediante le norme della legge mosaica, Dio educava il suo popolo al rispetto verso il forestiero, l’orfano e la vedova. Nessuno che si trovi nel bisogno deve essere escluso dall'amore vero, anche perché Dio stesso si è messo dalla loro parte
Nella seconda lettura, Paolo ricorda ai cristiani di Tessalonica, e a noi oggi, che i doni ricevuti da Dio devono essere resi visibili attraverso la testimonianza della nostra vita, perché solo chi pone Dio al centro della propria esistenza può abbandonare la via del male.
Nel Vangelo di Matteo, ritroviamo ancora Gesù alle prese con i farisei, che vivevano nella tentazione di ridurre la morale a una serie di norme esteriori preoccupandosi solo dell'apparenza. La risposta di Gesù è semplice ed efficace. Egli cita due versetti della Torah che racchiudono l'esperienza di Israele, e ci ricorda che solo amando Dio con tutto noi stessi saremo in grado di amare veramente il prossimo, perché l’amore per Dio e l’amore per il prossimo sono connessi strettamente: la dimensione verticale e quella orizzontale si incrociano e si alimentano a vicenda.
Dal libro dell’Esodo
Così dice il Signore: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.
Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani.
Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
Es 22,20-26
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica) ed è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la straordinaria liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, concludendosi con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
In questo brano viene evidenziato come concretizzare l'amore verso il prossimo: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto. Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani”. Chi ama aiuta lo straniero, l'orfano, la vedova, il forestiero, cioè le categorie di persone che, nell'Antico Testamento, rappresentano coloro che non hanno alcuna protezione. Ma non solo, la stessa cura deve essere anche rivolta a chi è in difficoltà, soprattutto economiche: “Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?” Viene condannata chiaramente l'usura e sottolineato il rispetto per chi lascia in pegno il proprio mantello (sinonimo della vita nella tradizione ebraica).
Tutte queste sono le situazioni di debolezza che possono indurre, in chi vive nelle agiatezze, ad approfittarne per opprimere, sfruttare e maltrattare. Nessuno che si trovi nel bisogno o nella normale condizione esistenziale deve essere escluso dall'amore vero, anche perché Dio stesso si è messo dalla loro parte. Egli ascolta il loro grido di dolore e farà giustizia, infatti anche Israele era oppresso in Egitto e Dio ha ascoltato le sue preghiere ed è intervenuto a liberarlo. L'amore quindi si trasforma in accoglienza, solidarietà e giustizia.
Si dice a ragione, che Dio ha dato un solo comandamento: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze” (Dt6,5). Tutti gli altri precetti o comandamenti sono una conseguenza del primo: amando Dio non si può fare a meno di amare e rispettare tutto ciò che da Lui proviene.
Salmo 18 (17 ) Ti amo, Signore, mia forza.
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.
Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato.
La tradizione più autentica (2Sam 22,1) riferisce che questo salmo venne scritto da Davide quando si trovò liberato da molte peripezie, specialmente quelle causategli da Saul. Il salmo nel Breviario viene diviso in due parti per ragioni di lunghezza.
L’orante celebra la liberazione da situazioni drammatiche con immagini efficaci: “Mi circondavano flutti di morte, mi travolgevano torrenti infernali; già mi avvolgevano i lacci degli inferi, già mi stringevano agguati mortali”. La liberazione da tante insidie gli ha comunicato una grande fede nell’aiuto di Dio, e per questo ha grande certezza di vittoria anche per il futuro: “Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici”.
L’orante presenta la descrizione dell’intervento di Dio usando le immagini di uno sconvolgimento cosmico: il cielo, la terra, il mare, il fuoco, la grandine, entrano in gioco ad esprimere l’ardente e terrorifica ira di Dio contro i suoi nemici, gli empi, i quali, infatti, non hanno solo cercato di colpire Israele, ma innanzitutto lui, il Re d’Israele, il Signore dell’universo. Gli empi sono coloro che hanno varcato quella misura di peccato, che genera l’ira assoluta di Dio, che pur manda il sole sui buoni e sui cattivi.
Si ha un crescendo nell’imponente descrizione dell’intervento di Dio. L’inizio dell’intervento di Dio è un terremoto: “La terra tremò e si scosse; vacillarono le fondamenta dei monti”: è il primo segno dello sfogo dell’ira di Dio sui suoi nemici. Dio viene presentato come una fornace di fuoco in cielo: “Dalle sue narici saliva fumo, dalla sua bocca un fuoco divorante, da lui sprizzavano carboni ardenti”. Il cielo viene abbassato con una nuvolaglia nera e Dio scende in combattimento cavalcando un cherubino, che vola in mezzo alle nubi nere e basse. Il guerriero squarcia al suo passaggio le nubi che riversano grandine in un immane bombardamento della terra e carboni di fuoco (i fulmini) che la incendiano. Infine il mare si riversa sulla terra in un immane diluvio che spazza via quanto è rimasto dei nemici di Dio: “Allora apparve il fondo del mare, si scoprirono le fondamenta del mondo”. Il popolo di Dio invece rimane indenne, come nel passaggio nel mar Rosso, poiché il Signore lo sottrae alla furia delle acque: “Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque”.
L’orante che ha visto evolvere una situazione nella quale era impossibile che ne uscisse vivo in situazione di vittoria, ritornando al suo esordio orante celebra la bontà di Dio, la giustizia di Dio; e divenuto capo forte di un popolo compatto, si propone di non temere mai delle armate dei nemici né delle loro fortezze: “Con te mi getterò nella mischia, con il mio Dio scavalcherò le mura”.
Davide continua le sue lodi a Dio e presenta, non più in termini apocalittici, le imprese che ha potuto compiere.
Davide, grazie a Dio che lo ha guidato e sostenuto, ha visto rendersi concrete le prospettive della missione regale affidatagli; ma il disegno di Dio non si esaurisce con lui.
Davide è certo di Dio. Certo della sua fedeltà. La sua discendenza rimarrà.
Il suo trono sarà di uno che verrà dalla sua stirpe, ma che sarà superiore a lui, come presentò lui stesso nel salmo 109,1; 110: “Oracolo del Signore al mio signore” (Cf. Mt 22,4). Sarà il futuro Re, il Messia (Cf. 1Sam 2,10), che inaugurerà un regno che sarà eterno (2Sam 7,12) e che abbraccerà tutte le genti (Ps 71,8; 72). Così tutta la missione di Davide e le grazie date a Davide sono in funzione del Messia e provengono dal futuro Messia
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Tessalonicesi
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della Macedònia e dell’Acàia. Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
1Ts 1,5c-10
Paolo continuando la sua lettera ai Tessalonicesi in questo brano. che segue quello di domenica scorsa, continua ad elencare i motivi della sua gioia e del ringraziamento a Dio per ciò che ha saputo della comunità di Tessalonica. Essi nonostante le prove hanno perseverato nella fede e questo è diventato motivo di ulteriore diffusione del Vangelo nelle regioni circostanti.
Egli comincia dicendo:”ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene”.
Paolo qui ricorda lo stile con cui lui e Sila si sono comportati, cioè in piena consonanza con il Vangelo stesso (forse è possibile notare un piccolo riferimento alle accuse dei giudei che hanno ostacolato la sua missione e lo hanno costretto a lasciare in fretta la città).
“E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo,”
E come gli apostoli sono divenuti testimoni del Vangelo, anche i tessalonicesi sono divenuti imitatori di loro e del Signore. Questa imitazione si è realizzata in pieno, visto che, come Cristo, sia gli apostoli che i nuovi credenti hanno dovuto subire delle dure prove che sono però state vissute "con la gioia dello Spirito Santo". La presenza dello Spirito ha dato ai cristiani di Tessalonica la serenità necessaria per poter sostenere queste inevitabili conseguenze della loro scelta di fede.
“così da diventare modello per tutti i credenti della Macedonia e dell'Acaia”
I tessalonicesi grazie alla loro convinta adesione a Cristo sono diventati un modello per gli altri, realizzando un processo a catena: Cristo - gli apostoli - i tessalonicesi - le altre comunità fondate nella zona. L'esempio della loro fede diventa un ulteriore annuncio del Vangelo. La parola di Dio non può essere rinchiusa egoisticamente in un gruppo di pochi eletti. La fede si propaga ad altri attraverso il contagio dell'esempio.
“Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne”.
Questa diffusione della notizia fa sì che Paolo e Sila non abbiano nemmeno più bisogno di parlare dell'esempio dei cristiani di Tessalonica.
“Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero”
I tessalonicesi hanno accolto con gioia i missionari e si sono convertiti, nel vero senso della parola. Hanno abbandonato gli idoli, che avevano venerato fino ad allora e si sono rivolti al Dio vivo e vero, per obbedire e servire solo Lui. E' il passaggio obbligato dal politeismo al monoteismo.
“e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene”.
C'è naturalmente ancora un passo da fare perché Unico Dio è anche quello degli ebrei, ma il Dio vivo e vero che Paolo ha mostrato ai tessalonicesi ha un Figlio, che Dio ha risuscitato dai morti.
Paolo non parla qui dell'incarnazione, né della predicazione di Cristo. Si attiene all'essenziale ed è proiettato verso il futuro. Gesù è stato risuscitato dai morti, ci ha dato un motivo di speranza, la morte non è l'ultima parola. Gesù ritornerà e sarà per noi motivo di salvezza.
L’espressione sicuramente può risultare non sufficiente ma c’è da tener conto che si tratta della testimonianza della fede delle prime comunità che vedremo maturare nel corso delle altre lettere di Paolo.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».
Mt 22, 34-40
Matteo, nel riportare il vissuto di Gesù a Gerusalemme nella sua ultima settimana di vita, segue il resoconto di Marco che, dopo l’ingresso di Gesù nella città santa, presenta due serie di scontri con le autorità giudaiche e controversie con i capi religiosi. Nella controversia sul comandamento più grande i due evangelisti procedono in modo uniforme con alcune importanti differenze. Anche Luca riporta questa controversia, ma la colloca nella sezione del viaggio verso Gerusalemme (Lc 10,25-28), unendola alla parabola del buon Samaritano.
Diversamente da Marco, che sovrappone la nuova controversia alla precedente, Matteo la introduce riferendosi ad una notizia secondo cui i “farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». ”.
La risposta data da Gesù ai sadducei circa la risurrezione dei morti certamente era piaciuta ai farisei, che a differenza dei sadducei, credevano nella risurrezione dei morti, i quali si radunano per concordare la loro linea di azione. Allora uno di loro, probabilmente uno scriba si fa avanti e interroga Gesù “per metterlo alla prova”. Mentre in Marco lo scriba chiede “Qual è il primo di tutti i comandamenti?” (Mc 12,28) , Matteo trasforma così la domanda: “Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?”.
La domanda è pertinente, perché nel giudaismo rabbinico la Legge aveva assunto un posto centrale all’interno della rivelazione scritta, e così i primi cinque libri biblici erano i più studiati e meditati, con un primato su tutti gli altri, quelli dei profeti e dei sapienti. In questo studio della Torah i rabbini avevano individuato, oltre alle dieci parole date da Dio a Mosè (cf. Es 20,2-17; Dt 5,6-22), 613 precetti, come spiega un testo della tradizione ebraica che Rabbi Simlaj presenta così:
“Sul monte Sinai a Mosè sono stati enunciati 613 comandamenti: 365 negativi, corrispondenti al numero dei giorni dell’anno solare, e 248 positivi, corrispondenti al numero degli organi del corpo umano … Poi venne David, che ridusse questi comandamenti a 11, come sta scritto [nel Sal 15] … Poi venne Isaia che li ridusse a 6, come sta scritto [in Is 33,15-16] … Poi venne Michea che li ridusse a 3, come sta scritto: ‘Che cosa ti chiede il Signore, se di non praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio?’ (Mi 6,8) … Poi venne ancora Isaia e li ridusse a 2, come sta scritto: ‘Così dice il Signore: Osservate il diritto e praticate la giustizia’ (Is 56,1) … Infine venne Abacuc e ridusse i comandamenti a uno solo, come sta scritto: ‘Il giusto vivrà per la sua fede’ (Ab 2,4; cf. Rm 1,17; Gal 3,11)” (Talmud babilonese, Makkot 24a).
Gesù non si pone all’interno di questa casistica, ma va al fondamento della vita del credente. Innanzitutto cita lo Shema‘ Jisra’el, il comandamento che il pio ebreo ripeteva e ripete tre volte al giorno: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua vita e con tutta la tua mente” (Dt 6,4-5). Poi continua affermando: Questo è il grande e primo comandamento. Ma poi continua: “Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”, accostando così al comandamento dell’amore per Dio quello dell’amore per il prossimo,
Per Gesù la dimensione verticale (amore per Dio) e quella orizzontale (amore per il prossimo) sono inscindibili, si incrociano e si vivificano reciprocamente e costruiscono “l’essere cristiano” totale e genuino. L’amore per Dio e per il prossimo non è, quindi, una generica e nebulosa semplificazione dell’impegno molteplice quotidiano, ma ne è l’anima, la chiave di volta di “tutta la Legge e i Profeti”.
Gesù compie una determinante innovazione, e lo fa con l’autorità di chi sa che non si può amare Dio senza amare il fratello, la sorella. Lo esprimerà molto bene il discepolo, Giovanni, riprendendo l’insegnamento di Gesù: “Se uno dice: «Io amo Dio»e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello” ” (1Gv 4,20-21).
Ecco come si può rispondere all’amore di Dio per noi, al “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16) e che “ci ha amati per primo” (1Gv 4,19): credendo a questo amore e di conseguenza amando Dio e gli altri.
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“In questa domenica la liturgia ci presenta un brano evangelico breve, ma molto importante. L’evangelista Matteo racconta che i farisei si riuniscono per mettere alla prova Gesù. Uno di loro, un dottore della Legge, gli rivolge questa domanda: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» . È una domanda insidiosa, perché nella Legge di Mosè sono menzionati oltre seicento precetti. Come distinguere, tra tutti questi, il grande comandamento? Ma Gesù non ha alcuna esitazione e risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». E aggiunge: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Questa risposta di Gesù non è scontata, perché, tra i molteplici precetti della legge ebraica, i più importanti erano i dieci Comandamenti, comunicati direttamente da Dio a Mosè, come condizioni del patto di alleanza con il popolo.
Ma Gesù vuole far capire che senza l’amore per Dio e per il prossimo non c’è vera fedeltà a questa alleanza con il Signore. Tu puoi fare tante cose buone, compiere tanti precetti, tante cose buone, ma se tu non hai amore, questo non serve.
Lo conferma un altro testo del Libro dell’Esodo, detto “codice dell’alleanza”, dove si dice che non si può stare nell’Alleanza con il Signore e maltrattare quelli che godono della sua protezione. E chi sono questi che godono della sua protezione? Dice la Bibbia: la vedova, l’orfano e lo straniero, il migrante, cioè le persone più sole e indifese (cfr Es 22,20-21). Rispondendo a quei farisei che lo avevano interrogato, Gesù cerca anche di aiutarli a mettere ordine nella loro religiosità, a ristabilire ciò che veramente conta e ciò che è meno importante. Dice Gesù: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» . Sono i più importanti, e gli altri dipendono da questi due. E Gesù ha vissuto proprio così la sua vita: predicando e operando ciò che veramente conta ed è essenziale, cioè l’amore. L’amore dà slancio e fecondità alla vita e al cammino di fede: senza l’amore, sia la vita sia la fede rimangono sterili.
Quello che Gesù propone in questa pagina evangelica è un ideale stupendo, che corrisponde al desiderio più autentico del nostro cuore. Infatti, noi siamo stati creati per amare ed essere amati. Dio, che è Amore, ci ha creati per renderci partecipi della sua vita, per essere amati da Lui e per amarlo, e per amare con Lui tutte le altre persone. Questo è il “sogno” di Dio per l’uomo. E per realizzarlo abbiamo bisogno della sua grazia, abbiamo bisogno di ricevere in noi la capacità di amare che proviene da Dio stesso. Gesù si offre a noi nell’Eucaristia proprio per questo. In essa noi riceviamo Gesù nell’espressione massima del suo amore, quando Egli ha offerto sé stesso al Padre per la nostra salvezza.
La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere nella nostra vita il “grande comandamento” dell’amore di Dio e del prossimo. Infatti, se anche lo conosciamo fin da quando eravamo bambini, non finiremo mai di convertirci ad esso e di metterlo in pratica nelle diverse situazioni in cui ci troviamo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 29 ottobre 2017