Le letture liturgiche di questa V domenica di quaresima spesso vengono considerate come il grande momento penitenziale dell’anno cristiano, ma non sono solo pentimento per un peccato che incombe e umilia l’umanità, sono soprattutto speranza gioiosa di liberazione, di perdono e soprattutto di pace interiore.
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Isaia, agli ebrei provati dall’esilio di Babilonia, il profeta ricorda la liberazione dall’Egitto e promette, da parte di Dio, un nuovo intervento liberatore.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Filippesi, Paolo usa un linguaggio sportivo per indicare il suo impegno per il Vangelo. La vita dell’Apostolo è come una corsa verso una meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
L’evangelista Giovanni ci propone il brano che riporta l’incontro di Gesù con l’adultera, rea per la legge ebraica di lapidazione. Gesù alla domanda trabocchetto che gli pongono i farisei, risponde sfidandoli: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra”. Il messaggio che Gesù ci dà consiste nel riconoscere che nessuno davanti a Dio è senza peccato e che ognuno può non peccare più se lascia nel passato i propri errori per seguire la luce che l’amore di Dio gli dona in Cristo Gesù.
Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Is 43;16-21
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Infatti a partire dal 550 a.C. compare un nuovo popolo non semitico, sono i Persiani sotto il comando del loro re: Ciro. In 10 anni egli sottomette l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, egli appare come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si vedono apparire racconti, oracoli, canti che esaltano l’opera di Dio nella storia del mondo.
E’ finito il tempo in cui dominano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio appare loro il padrone degli avvenimenti che agisce per la liberazione e la salvezza del suo popolo. Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro autorizza gli Israeliti a ritornare in patria e a praticare il loro culto. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano il profeta Isaia ci parla di novità di vita e la esprime in un modo splendido con delle metafore molto suggestive: i sentieri nel deserto, i fiumi nella steppa. E’ come se il Signore dicesse anche a noi: "ci sono cose nuove che stanno fiorendo, non ve ne accorgete?"
“Così dice il Signore, che aprì una strada nel mare e un sentiero in mezzo ad acque possenti, che fece uscire carri e cavalli, esercito ed eroi a un tempo;essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,si spensero come un lucignolo, sono estinti:
Il brano inizia con una formula profetica “Così dice il Signore” che ricorre molte volte in Isaia (42-50) e per introdurre il messaggio ci sono due verbi (che aprì), (che fece uscire) che annunciano l'azione di Dio, quella che sta all'origine della storia d'Israele: il passaggio del mare. La “strada nel mare” è un'immagine classica del racconto di Pasqua, per ricordarci che Dio si apre un varco nelle situazioni impossibili per aiutare i suoi figli sottomessi dai poteri forti del mondo.
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche!”
C’è un incoraggiamento a dimenticare persino l'azione salvifica dell'esodo, “il passato” che va dimenticato, tanto è potente e straordinario l'evento nuovo che il Signore sta per compiere
La memoria è una legge fondamentale per Israele, dalla memoria nasce il senso della storia, ma la memoria non deve però essere una fuga nostalgica nel passato, il ricordo è valido quando prepara un futuro migliore.
“Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada,immetterò fiumi nella steppa.”
“una cosa nuova” o “una novità” è un termine che si trova soltanto in questo passo e in Geremia (31,22), cioè nel capitolo sulla nuova alleanza. La novità ricorda e supera il primo esodo!
Anche questa nuova azione consiste nel realizzare una strada, simile all'antica, stabilendo così un’analogia con l'esodo classico. Il profeta non vuol dire che le antiche tradizioni non valgono più perché ora siamo di fronte ad una nuova azione di Dio che incoraggia a non lamentarsi più guardando al passato, ma piuttosto a comprendere che si è in presenza di un nuovo straordinario evento. Pertanto l'invito del profeta è in piena armonia con la missione di testimone che egli conferisce al resto del popolo. La novità che Dio dice di creare è quell’avvenimento che Israele non si aspettava più, in cui non sperava e non credeva più, poiché, come mostrano le sue lamentazioni, esso pensava che l'azione salvifica di Dio fosse ormai un capitolo chiuso, relegato nel passato. Si tratta invece di una novità che sta già germogliando; ciò significa che tra breve essa potrà essere vista da tutto Israele.
“Mi glorificheranno le bestie selvatiche,sciacalli e struzzi,perché avrò fornito acqua al deserto,fiumi alla steppa,per dissetare il mio popolo, il mio eletto. Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi”.
La somiglianza tra l'esodo nuovo e quello che sta per iniziare è reso possibile da Dio che fornisce acqua al deserto in abbondanza, al punto che anche gli animali ne possano bere.
Isaia vede perciò nell'imminente ritorno del popolo come un altro esodo, come una seconda Pasqua, dove l'unica differenza sarebbe il passaggio non attraverso il mare, ma nel deserto.
Gli occhi del popolo non sono ancora in grado di vedere la novità di Dio, che sta per sbocciare e la salvezza futura supererà radicalmente qualsiasi esperienza vissuta da Israele nel passato.
E' vero ci sono frangenti in cui, se leggiamo la storia con occhi realistici, ci pare non esistano vie di uscita, che ci si debba rassegnare a ciò che risulta compromesso una volta per tutte, ma il passato deve servire anche a ricordarci che Dio è intervenuto sempre nella storia ma con i Suoi tempi, e nei Suoi modi, perchè come Egli stesso dice per bocca del profeta: ” i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie “ (Is55,8)
Salmo 125 Grandi cose ha fatto il Signore per noi.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Il salmista faceva parte degli Israeliti rimasti in Palestina al tempo delle deportazioni babilonesi.
Egli esprime la gioia di tutti di fronte ai primi arrivi e invoca da Dio il ritorno di tutti i deportati, in moltitudine e velocità, cioè senza intoppi e stenti di viaggio, come, appunto, i torrenti del Negheb, cioè i torrenti della parte meridionale del territorio della tribù di Giuda.
L'evento del ritorno è un fatto del tutto straordinario che mette in luce la fedeltà di Dio per il suo popolo.
I popoli, cioè quelli facenti parte dell'impero Persiano, pur a modo loro, cioè senza diventare monoteisti, lo riconobbero. Diversamente si comportarono i popoli vicini, che si erano spinti con scorribande continue nei territori di Israele. Questi cercarono di sfaldare ogni tentativo di Israele di ridarsi una fisionomia stabile.
Il desiderio che i prigionieri ritornino è grande, ma bisogna nel frattempo creare le condizioni per facilitare i nuovi arrivi.
Il salmo per questo presenta una sentenza proverbiale come invito a non lesinare fatiche per la ricostruzione di Gerusalemme, il ripristino dei campi, dei villaggi; questo pur in mezzo alle difficoltà causate dall'ostilità dei vicini popoli: “Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia”.
Il salmo nel suo sensus plenior riguarda la liberazione dei popoli dal peso dell'ignoranza del vero Dio, dal peso delle divisioni e contrapposizioni.
Essi hanno ricevuto l'editto di liberazione nel sangue di Cristo. La Chiesa, sacramento di salvezza e di unità, deve fare conoscere il Liberatore dal peccato, sempre pronta ad accogliere nella gioia della comunione che la regge tutti coloro che accolgono Cristo e che già sono misteriosamente orientati a lui dall'azione dello Spirito Santo (Cf. 1Gv 1,3-4).
La chiave di lettura di questo Salmo, come inno dei rimpatriati dall’esilio babilonese in seguito all’editto di Ciro del 538 a.C., è certamente la più immediata e suggestiva e accosterebbe questo “cantico delle ascensione”, il settimo, alle pagine del cosiddetto Secondo Isaia (cc.40-44), il profeta cantore del ritorno di Israele al focolare nazionale, abbandonato dopo la distruzione di Gerusalemme a opera delle armate di Nabucodonosor nel 586 a.C. Questa piccola composizione, di sole 48 parole ebraiche, riesce a fondere insieme in modo mirabile ringraziamento gioioso per il dono della libertà, ma anche supplica ardente per il futuro che non sembra essere del tutto sgombro di nubi.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési
Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede: perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti.
Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.
Fil 3,8-14
La Lettera ai Filippesi è stata scritta da Paolo fra il 53 e il 62, mentre si trovava in carcere, probabilmente durante la sua detenzione a Efeso, ed è ispirata da sentimenti di amicizia per la comunità cristiana di Filippi, che è stata la prima fondata da Paolo in Europa e con la quale l'apostolo aveva un legame particolarmente armonico e affettuoso. Filippi che ha preso il nome dal re Filippo II di Macedonia (padre di Alessandro Magno) è una città nel nord della Grecia, situata a circa 15 chilometri dal mare, e i cristiani di questa comunità erano prevalentemente di origine pagana, e questo lo si deduce dal fatto che nella lettera Paolo, a parte una breve allusione, non cita mai l'Antico Testamento. Nella lettera non vengono trattati grandi temi, né vengono risolte particolari questioni: l'apostolo vuole semplicemente informare i filippesi della sua situazione, ringraziarli per l'attenzione dimostrata nei suoi confronti ed esortarli a proseguire sulla via dell'amore evangelico.
Nei versetti precedenti questo brano Paolo aveva presentato le proprie credenziali (ebreo figlio di ebrei, circonciso l'ottavo giorno...) e commenta che quello che poteva essere per lui un guadagno, lo considera una perdita a motivo di Cristo.
Da qui inizia il nostro brano
“Fratelli, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo”
Paolo dunque aveva tutte le carte in regola per rivaleggiare con i giudeo-cristiani. Però è successo qualcosa nella sua vita che gli fa considerare assolutamente prive di valore tutte queste cose di cui poteva vantarsi: il suo appartenere al popolo di Israele, l'essere stato osservante in tutto, essere stato pieno di zelo per seguire la fede dei suoi padri... Tutto è una perdita davanti a ciò che ha potuto conoscere di Gesù Cristo. Addirittura chiama queste cose spazzatura) roba da buttare tra i rifiuti! L'unico valore che conta veramente per Paolo è Cristo: tutto ciò che non è Lui è da gettare via.
“ed essere trovato in lui, avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede:”
Paolo non poteva mantenere l’anima ebrea e quella cristiana poiché non sono conciliabili. La fede ebraica si basava sull'acquisto di una giustificazione in base alle opere che seguono la Legge. La fede in Cristo, è quella che ti giustifica grazie alla fiducia che riponi in Lui.
“perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti”. La conoscenza cristiana non riguarda solo la mente, è un'esperienza che coinvolge tutta la persona, cambia radicalmente la vita. Questo significa vivere come ha vissuto Cristo, conoscere la Sua vicenda terrena, conoscere la gloria della Sua risurrezione, aderire a Lui passando attraverso le prove della vita, anche la sofferenza e la morte, perché tutto questo apre alla speranza della risurrezione! Non è una certezza, poiché l'essere ammesso a questa gioia è dono di Dio, però nella fede già si partecipa in una certa misura a questa pienezza di vita. E come conseguenza di tutto questo nella vita di ogni giorno egli si dispone a seguire Gesù e a vivere secondo la Sua volontà.
“Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù.”
Paolo è ben cosciente dei propri limiti, non si illude di essere già arrivato al traguardo. Si può notare una nota polemica nei confronti dei predicatori che avevano ammaliato i Filippesi presentandosi come esempio di perfezione. Paolo prende a prestito il linguaggio sportivo quando dice che come un atleta cerca di allenarsi a correre per raggiungere la meta, la vera perfezione. Egli corre per conquistare il premio perché si sente a sua volta conquistato, affascinato da Gesù e lo vuole raggiungere.
“Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.
Quindi Paolo può paragonare la propria vita come a una corsa. Ha dimenticato la sua vita di prima, perché il suo cuore è tutto volto a Gesù, alla promessa di pienezza e di felicità che Lui gli ha fatto. Non desidera altro, la sua vita non è protesa a niente altro, per questo si impegna nella predicazione, nel lavoro a favore del Vangelo.
Per tutto questo può essere preso come esempio e può anche criticare coloro che invece propongono ancora ai cristiani le pratiche della fede ebraica.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Gv 8: 1-11
Questo racconto della donna colta in adulterio, proviene da un’antica tradizione, storicamente certa, ed è stato stranamente omesso nei più antichi manoscritti greci, ma si trova in alcuni manoscritti dell’antica versione latina, nella Vulgata, ed in altri lezionari. E’ certo comunque che non faceva parte del primitivo vangelo di Giovanni, per cui poteva anche essere inserito in quello di Luca, per il contenuto più vicino all’evangelista del Vangelo della Misericordia. Tutto questo è avvenuto sicuramente perché i capi della Chiesa antica, si sforzavano di inculcare una rigida dottrina, soprattutto in materia di adulterio, per cui hanno preferito omettere questo episodio, in cui Gesù poteva sembrare troppo indulgente per una donna adultera.
Il racconto ci porta al Tempio di Gerusalemme, dove Gesù insegnava alla folla che si raccoglieva intorno a Lui. Gli scribi e i farisei, sempre pronti come al solito per metterlo alla prova, gli portarono una donna, che era stata sorpresa mentre commetteva adulterio “la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici””.
Il caso era semplice,e regolato dalla Torah, nel Levitico infatti è scritto: “Se uno commette adulterio con la moglie del suo prossimo, l’adultero e l’adultera dovranno esser messi a morte”. Lv,20,10 per cui non potevano esserci dubbi per la sentenza. Gesù però non rispose subito, infatti prima “si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Davanti a Lui c’è una donna sorpresa in adulterio, un gruppo gli scribi e di farisei in attesa del suo responso, consapevoli che secondo la Scrittura la donna doveva essere lapidata.
“Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, Gesù alla fine si alzò e disse loro: Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra”.
Gesù non dice una sola parola che possa attenuare la colpa della donna, ma neanche la condanna e la giudica. Con le Sue parole Egli supera la legge e manifesta la via dell’amore di Dio.
L’evangelista annota: “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.”
C’è da immaginare la scena nell’aula di questo tribunale improvvisato in cui rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Ora Gesù si alzò e disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».”
In tanti anni ho sentito tante spiegazioni di questo brano, ma la più straordinaria, unica, illuminante, l’ho avuta da un mio professore, che è stato molto importante per la mia formazione, e la sua versione, almeno una parte, desidero riportarla:
Che significa che Gesù ha perdonato ma poi ha detto “non peccare più” , ma questo stravolge Gesù, ci avete mai pensato? Gesù dolcissimo, serenissimo, ogni volta che va verso qualcuno è sempre il pastore che prende la pecorella e se la mette sulle spalle, con una dolcezza infinita, non può essere “non peccare più!” detto con imperativo. Cambia tutto il significato!
Questa frase è stata messa apposta perché il brano fosse accettato. La frase certa da parte di Gesù è: “va’e d’ora in poi non peccherai più”.Non peccherai più! Il che cambia tutto perché, e questo guardiamolo esegeticamente, ogni volta che Gesù ha cambiato una persona, l’ha convertita, ha fatto la metanoia. Quella persona non ha bisogno di sentire “non peccare più!” perché non riuscirebbe a peccare più. Quando Gesù interviene rispetto al male, al peccato, il male sparisce definitivamente. La persona è sanata è come se avesse un’accensione definitiva, che non riesce più, non potrebbe più, peccare come prima.
Allora che cosa vuol dire questo brano bellissimo? Vuol dire questo da parte di Gesù alla donna “Va’ ora finalmente puoi andare avanti…” se avesse detto “Non peccare più!” la donna a testa bassa avrebbe avuto ancora un rimprovero. C’è una contraddizione nel dire “Io non ti condanno, nessuno ti ha condannata” e poi “non peccare più!”. perché dire così vuol dire “ti condanno e ti faccio andare via”. “Io non ti condanno perché nessuno è condannato dall’amore di Dio. Ora tu sei talmente sanata…”, non sul piano di fatto ma sul piano esistenziale, questi sono i valori di fondo in duemila anni perché si è posta la morale al di sopra dell’esistenza. Questa donna una volta sanata acquistata la serenità sicuramente, non riuscirebbe più a peccare, a ricadere nello stesso errore. …
Può capire questo solo chi è stato “investito” nella sua vita da Gesù, solo Lui può capovolgere la tua esistenza, allora ti accorgi che le cose di prima veramente sono cose passate, non contano nulla, sono nate le nuove e come S.Paolo puoi dire: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me!
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“In questa quinta domenica di Quaresima, la liturgia ci presenta l’episodio della donna adultera.. In esso si contrappongono due atteggiamenti: quello degli scribi e dei farisei da una parte, e quello di Gesù dall’altra. I primi vogliono condannare la donna, perché si sentono i tutori della Legge e della sua fedele applicazione. Gesù invece vuole salvarla, perché Lui impersona la misericordia di Dio che perdonando redime e riconciliando rinnova.
Vediamo dunque l’avvenimento. Mentre Gesù sta insegnando nel tempio, gli scribi e i farisei gli portano una donna sorpresa in adulterio; la pongono nel mezzo e chiedono a Gesù se si deve lapidarla, così come prescrive la Legge di Mosè. L’Evangelista precisa che essi posero il quesito «per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo». Si può supporre che il loro proposito fosse questo – vedete la malvagità di questa gente: il “no” alla lapidazione sarebbe stato un motivo per accusare Gesù di disobbedienza alla Legge; il “sì”, invece, per denunciarlo all’autorità romana, che aveva riservato a sé le sentenze e non ammetteva il linciaggio popolare. E Gesù deve rispondere.
Gli interlocutori di Gesù sono chiusi nelle strettoie del legalismo e vogliono rinchiudere il Figlio di Dio nella loro prospettiva di giudizio e condanna. Ma Egli non è venuto nel mondo per giudicare e condannare, bensì per salvare e offrire alle persone una vita nuova. E come reagisce Gesù davanti a questa prova? Prima di tutto rimane per un po’ in silenzio, e si china a scrivere col dito per terra, quasi a ricordare che l’unico Legislatore e Giudice è Dio che aveva scritto la Legge sulla pietra. E Poi dice: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» . In questo modo Gesù fa appello alla coscienza di quegli uomini: loro si sentivano “paladini della giustizia”, ma Lui li richiama alla consapevolezza della loro condizione di uomini peccatori, per la quale non possono arrogarsi il diritto di vita o di morte su un loro simile. A quel punto, uno dopo l’altro, cominciando dai più anziani – cioè quelli più esperti delle proprie miserie – se ne andarono tutti, rinunciando a lapidare la donna. Questa scena invita anche ciascuno di noi a prendere coscienza che siamo peccatori, e a lasciar cadere dalle nostre mani le pietre della denigrazione e della condanna, del chiacchiericcio, che a volte vorremmo scagliare contro gli altri. Quando noi sparliamo degli altri, buttiamo delle pietre, siamo come questi.
Alla fine rimangono solo Gesù e la donna, là in mezzo: «la misera e la misericordia», dice Sant’Agostino (In Joh 33,5). Gesù è l’unico senza colpa, l’unico che potrebbe scagliare la pietra contro di lei, ma non lo fa, perché Dio “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva” (cfr Ez 33,11). E Gesù congeda la donna con queste parole stupende: «Va’ e d’ora in poi non peccare più».
E così Gesù apre davanti a lei una strada nuova, creata dalla misericordia, una strada che richiede il suo impegno di non peccare più. È un invito che vale per ognuno di noi: Gesù quando ci perdona ci apre sempre una strada nuova per andare avanti.
In questo tempo di Quaresima siamo chiamati a riconoscerci peccatori e a chiedere perdono a Dio. E il perdono, a sua volta, mentre ci riconcilia e ci dona la pace, ci fa ricominciare una storia rinnovata. Ogni vera conversione è protesa a un futuro nuovo, ad una vita nuova, una vita bella, una vita libera dal peccato, una vita generosa. Non abbiamo paura a chiedere perdono a Gesù perché Lui ci apre la porta a questa vita nuova. La Vergine Maria ci aiuti a testimoniare a tutti l’amore misericordioso di Dio che, in Gesù, ci perdona e rende nuova la nostra esistenza, offrendoci sempre nuove possibilità.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 7 aprile 2019