Con le letture che la liturgia di questa domenica dopo Pentecoste ci presenta, noi cristiani contempliamo Dio nella Sua realtà più profonda e più intima: Dio è Padre creatore, Dio è Figlio redentore e Dio è Spirito Santo amore. Le tre Divine Persone ci permettono di vivere nella fede, nella speranza e nell’amore
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Proverbi, possiamo renderci conto che già nell’Antico Testamento viene adombrato il mistero della Trinità santissima, dove la Sapienza di Dio è descritta accanto a Lui, come una persona, nel momento della creazione.
Nella seconda lettura, S.Paolo nella sua lettera ai Romani, ci ricorda che con il battesimo i cristiani fanno esperienza di essere figli adottivi di Dio. Possono conoscere così l’amore del Padre, la grazia del Figlio e la comunione dello Spirito Santo.
Nel Vangelo di Giovanni, troviamo ancora un’altra parte finale del lungo discorso di addio rivolto da Gesù ai Suoi discepoli durante l'ultima cena. Gesù in quella notte pronunzia per cinque volte una promessa dal contenuto costante: il dono dello Spirito Santo. Nella promessa che Gesù fa, emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo, il Padre e il Figlio.
La solennità della Santissima Trinità, celebrata già dal VI secolo e diffusasi all’inizio del secondo millennio, traduce in canti e preghiere il Simbolo della fede formulato nei concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381). Essa proclama che il Dio che a noi si è rivelato è uno, ma non è solo. E’ comunità d’amore: Padre, principio di tutte le cose, Figlio, rivelatore del Padre e artefice della redenzione del mondo, Spirito Santo, perfezionatore della Sua opera e santificatore, uniti nello stesso amore e nello stesso progetto di salvezza. Di questo Dio in Tre persone l’uomo porta l’immagine, per questo realizza se stesso nella relazione di amore
Dal libro dei Proverbi
Così parla la Sapienza di Dio
«Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività,
prima di ogni sua opera, all'origine.
Dall'eternità sono stata formata,
fin dal principio, dagli inizi della terra.
Quando non esistevano gli abissi, io fui generata,
quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua;
prima delle colline, io fui generata,
quando ancora non aveva fatto la terra e i campi
né le prime zolle del mondo.
Quando egli fissava i cieli, io ero là;
quando tracciava un cerchio sull'abisso,
quando condensava le nubi in alto,
quando fissava le sorgenti dell'abisso,
quando stabiliva al mare i suoi limiti,
così che le acque non ne oltrepassassero i confini,
quando disponeva le fondamenta della terra,
30 io ero con lui come artefice
ed ero la sua delizia ogni giorno:
giocavo davanti a lui in ogni istante,
giocavo sul globo terrestre,
ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo».
Pr 8,22.31
Il Libro dei Proverbi è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È stato scritto in ebraico, e secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la redazione definitiva del libro è avvenuta in Giudea nel V secolo a.C., raccogliendo testi composti da autori ignoti lungo i secoli precedenti fino al periodo monarchico (XI-X secolo a.C.). È composto da 31 capitoli contenenti vari proverbi e detti sapienziali. L'insegnamento contenuto, indica le regole da seguire per attuare un comportamento che non arreca problemi a chi le applica e a lungo andare lo rende felice nella vita.
Il brano che abbiamo fa parte della raccolta iniziale del libro e le massime sono poste sulla bocca del maestro, che si rivolge ai suoi alunni chiamandoli con l'appellativo di figli e dà loro le istruzioni per una vita saggia. La raccolta si divide in quattro parti. Nella prima parte(8,1-11) si presenta la sapienza, che scende in campo invitando tutti i “figli dell’uomo” ad ascoltarla per diventare assennati. Nella seconda (8,12-21) la sapienza pronunzia un ampio elogio delle proprie doti e capacità. Essa possiede prudenza, scienza e riflessione, detesta superbia, arroganza, cattiva condotta e bocca perversa; a lei appartiene il consiglio e il buon senso, l’intelligenza e la potenza.
Nella terza parte, che ci propone la liturgia, la sapienza continua il suo discorso descrivendo la sua origine e i suoi rapporti con Dio. Questo brano è composto di quattro strofe di cui le prime due descrivono l’origine della sapienza, la terza mette in luce la sua partecipazione alla creazione e l’ultima indica i suoi rapporti con l’umanità.
Nella prima strofa la Sapienza afferma: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera”, ed afferma di essere stata “formata, fin dal principio, dagli inizi della terra”.
Nella seconda strofa la Sapienza riafferma la propria anteriorità rispetto alle opere create da Dio, ed elenca cinque realtà che ancora non esistevano quando ha avuto origine: le prime due sono introdotte dalla preposizione “quando non”, le altre due da “prima che” e l’ultima nuovamente da “quando non”. Si tratta degli abissi, delle “sorgenti cariche d’acqua”, delle “basi dei monti,” delle “colline” e infine della “terra e i campi”, e “le prime zolle del mondo”.
Nella terza strofa la sapienza descrive l’opera della creazione in sei interventi: “Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull'abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell'abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno”
Nella Genesi è scritto che Dio ha fissato i cieli e ha tracciato un cerchio sull’abisso, ha condensato le nubi in alto e ha fissato le sorgenti dell’abisso (Gen 1,6-8), ha stabilito al mare i suoi limiti perché le acque non ne oltrepassassero la spiaggia e ha disposto le fondamenta della terra (Gen 1, 9-10). Mentre Dio portava a termine queste Sue opere la Sapienza afferma “io ero là”, era “con Lui come artefice”.
Sebbene il primo significato fa pensare al Libro della Sapienza (Sap 7,21), qui sembra invece che la Sapienza abbia partecipato alla creazione come un bambino che assiste al lavoro del padre: ciò che viene messo in risalto è dunque la presenza costante della sapienza accanto a Dio durante tutte le fasi della creazione. In questo ruolo la sapienza rappresenta per Dio una “delizia”.
Nella quarta strofa la sapienza delinea la sua opera nei confronti di Dio, della terra e dell’umanità. “giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo”. La Sapienza gioca davanti a Dio! Sembra che svolga come un servizio liturgico alla Sua presenza, ma al tempo stesso gioca sul globo terrestre e pone la sua delizia tra i figli dell’uomo, cioè trova gioia nello stare con l’umanità.
Come impressione finale si può dire che la Sapienza di Dio è dipinta con una vera e propria cascata di immagini cosmiche che rappresentano l’armonia del progetto divino. Ma la raffigurazione più originale è quella finale in cui la Sapienza è rappresentata mentre danza con i figli dell’uomo: “giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell'uomo.” Possiamo intuire che per Dio creare è una festa, è gioia. E l’uomo che sa scoprire il mistero dell’essere può partecipare a questa armonia e a questa felicità divina.
Questa immagine finale ci dovrebbe spingere a rispettare ed amare di più il creato come un dono ricevuto per essere a nostra volta consegnato ai chi viene dopo di noi.
Salmo 8/9 - O Signore nostro Dio, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?
Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai fissato,
che cosa è mai l'uomo perché di lui ti ricordi,
il figlio dell'uomo, perché te ne curi?
Tutte le greggi e gli armenti
e anche le bestie della campagna,
gli uccelli del cielo e i pesci del mare,
ogni essere che percorre le vie dei mari.
L’orante esprime il suo stupore verso Dio. Ogni cosa sulla terra manifesta la sua potenza e grandezza - “il suo nome” -. Egli è tanto potente che può abbattere i suoi avversari anche solo con la bocca dei bimbi e dei lattanti, proclamanti la sua maestà, che gli empi vorrebbero oscurare.
Lo spettacolo della volta stellata fa sentire l’orante piccolo, poca cosa, e quindi realtà trascurabile da Dio, ma non è affatto così. L’uomo - afferma l’orante – è fatto poco meno degli angeli, capace di dominio sulle cose create da Dio. Gli angeli sono puri spiriti e come tali hanno una natura superiore a quella dell’uomo, che apprende le cose in concomitanza con i sensi, mentre l’angelo è semplice intellezione. Tuttavia gli angeli non procreano, collaboratori di Dio, una carne, che è animata da un’anima creata all’istante da Dio per la formazione di un nuovo uomo o di una nuova donna. Poi nessun angelo ha una carne contro la quale lottare, e con la quale giungere a testimoniare il suo amore a Dio fino a sacrificare la vita.
L’orante termina il salmo con le stesse parole di stupore con il quale l’aveva cominciato.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Rm 5,1-5
Questo brano è tratto dalla prima parte della lettera ai Romani, quella che gli esperti definiscono "dogmatica" . Nei capitoli 1-4 Paolo aveva parlato della giustificazione dei peccatori e a partire dal capitolo 5, fino al cap. 11 analizza come il cristiano giustificato trova nell’amore di Dio e nel dono dello Spirito la garanzia della salvezza. Questo brano è stato scelto per la solennità di oggi poiché vi è descritta la vita del cristiano in una prospettiva trinitaria.
“Giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Nei capitoli precedenti Paolo aveva spiegato che la fede rende giusti. Se nell'Antico Testamento la giustizia derivava dall'osservanza della Legge e dalla realizzazione delle opere da essa richieste, ora la vera giustizia dipende dalla fede per cui giusto è colui che si affida al Signore. La prima conseguenza per chi è stato giustificato è vivere in pace. Ciò non significa tranquillità e serenità d'animo, bensì un rapporto positivo con Dio, fonte di salvezza,. E' una situazione di grazia che abbiamo ottenuto grazie all'intervento di Cristo.
“Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio”.
La pace è dunque uno stato di grazia a cui si può accedere mediante la fede. La seconda caratteristica della vita del giustificato è la speranza, cioè l'apertura a un futuro esaltante di persone trasfigurate dalla gloriosa azione divina. E' solo un piccolo accenno che verrà sviluppato nei capitoli seguenti.
“E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza”.
Paolo sa bene che anche a Roma i cristiani subivano spesso persecuzioni. Però il credente se si vanta della speranza che lo attende, può vantarsi anche nelle tribolazioni che può affrontare solo se resta saldo nella fede. La tribolazione volontariamente accettata produce infatti la “pazienza”, cioè la capacità di resistere coraggiosamente alle prove dolorose della vita; questa pazienza si trasforma in una “virtù provata” e da questa virtù provata, o meglio in sintonia con essa, si sviluppa una “speranza” ancora più forte.
“La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.
Paolo non vuole illudere i suoi interlocutori. Il credente non lotta contro i mulini a vento. Non compie una battaglia inutile, perché la speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata con la capacità di amare che lo Spirito santo “riversa” nei nostri cuori.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Gv16,12-15
Anche questo brano del Vangelo di Giovanni è tratto dalla seconda parte del discorso di addio che l'evangelista pone sulla bocca di Gesù durante l'ultima cena, poco prima del suo arresto.
Il discorso cerca di dare risposta ad una situazione precaria che la comunità subì per l’espulsione dalla comunità ebraica.1
La comunità giudeo-cristiana frequentava infatti il Tempio e le sinagoghe Gli ebrei non avevano accolto la predicazione dei primi cristiani, che si sentivano perciò discriminati. Pur non perdendo la fede nel messaggio di Gesù e nella risurrezione dei morti, la comunità era rimasta delusa dal loro fragile impatto sul mondo circostante.
L'evangelista Giovanni allo scopo di dare nuova fiducia a questa comunità, evidenzia la nuova situazione di Gesù: Egli è tornato al Padre, è glorificato e ricolma i suoi con il dono dello Spirito santo
“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”.
Gesù ha fatto conoscere ai discepoli tutto ciò che ha udito dal Padre, ma, perché ne abbiano una comprensione più profonda, deve intervenire lo Spirito.
“Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”.
Lo Spirito Santo è l'interprete di Gesù, l'era dello Spirito è quella in cui il passato si illumina attraverso il presente.
Non solo ma il Paraclito permetterà di parlare del Figlio glorificato, comunicherà ciò che gli appartiene nella sua perfetta comunione con il Padre. Le tre azioni dello Spirito Santo sono:
- guidare: Egli guiderà i discepoli verso la verità, La verità intera è la pienezza di tale mistero. Non sono molteplici verità. Si tratta della verità una e totale del Cristo glorificato in Dio e che si comunica come tale ai suoi.
- parlare: per guidare alla verità, lo Spirito deve parlare, o meglio esprimere ciò che ha udito dal Figlio Il Figlio continuerà a farsi comprendere grazie allo Spirito Santo. Lo Spirito, proprio come Gesù, non parla di Sua iniziativa perché ascolterà da Gesù come Gesù stesso ascoltava dal Padre. La Sua parola non risuona e si ferma nelle orecchie come faceva la parola di Gesù, ma raggiunge il cuore.
- comunicare: se lo Spirito parla, dice ciò che ascolta dal Figlio per comunicarlo. Annuncia, rivela una cosa sconosciuta, la ripete nuovamente. Lo Spirito sarà dunque l'espressione di Gesù stesso.
“Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”.
Lo Spirito Santo non riceve tanto parole di rivelazione per ripeterle agli altri, ma ciò che prende è qualcosa di prezioso perchè lo attinge da Gesù.
Rivelando questo tesoro inesauribile Egli glorificherà il Figlio, la cui missione aveva come scopo la partecipazione dei discepoli alla vita eterna già da questa terra.
“Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà”
Quello che possiede il Figlio però viene dal Padre. L'annuncio dello Spirito Santo porta alla comprensione del mistero, ma anche e soprattutto alla vita che è nel Padre e nel Figlio, verso la gloria donata da tutta l'eternità al Figlio, verso l'amore che è Dio.
In questa pagina evangelica leggiamo la promessa dalla quale emerge ancora una volta la relazione che intercorre tra lo Spirito Santo e il Padre e il Figlio. Il Padre ha comunicato al Figlio tutto quanto possiede, cioè tutta la Sua vita e la Sua verità. Gesù ha comunicato a noi quella vita e quella verità, ma il mistero infinito di Dio esige per le nostre piccole menti una rivelazione che si dilati nel tempo e nello spazio. E questa è la missione dello Spirito donato alla Chiesa da Gesù risorto: “Egli ci guiderà alla verità tutta intera” illuminando in pienezza la ricchezza divina che Gesù ci ha portato.
La solennità di oggi ci offre un’idea del volto irraggiungibile di Dio. Egli non è un imperatore impassibile e solitario, avvolto nelle nubi della Sua trascendenza, ma si è legato a noi come Creatore, Salvatore e Rivelatore. La Sua Parola crea, redime e ci indica la meta ultima, quella dell’abbraccio pieno con Lui perché come afferma S.Paolo “ allora saremo sempre col Signore” (1Ts 4,17)
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“Oggi, festa della Santissima Trinità, il Vangelo di san Giovanni ci presenta un brano del lungo discorso di addio, pronunciato da Gesù poco prima della sua passione. In questo discorso Egli spiega ai discepoli le verità più profonde che lo riguardano; e così viene delineato il rapporto tra Gesù, il Padre e lo Spirito.
Gesù sa di essere vicino alla realizzazione del disegno del Padre, che si compirà con la sua morte e risurrezione; per questo vuole assicurare ai suoi che non li abbandonerà, perché la sua missione sarà prolungata dallo Spirito Santo. Ci sarà lo Spirito a prolungare la missione di Gesù, cioè a guidare la Chiesa avanti.
Gesù rivela in che cosa consiste questa missione. Anzitutto lo Spirito ci guida a capire le molte cose che Gesù stesso ha ancora da dire. Non si tratta di dottrine nuove o speciali, ma di una piena comprensione di tutto ciò che il Figlio ha udito dal Padre e che ha fatto conoscere ai discepoli . Lo Spirito ci guida nelle nuove situazioni esistenziali con uno sguardo rivolto a Gesù e, al tempo stesso, aperto agli eventi e al futuro. Egli ci aiuta a camminare nella storia saldamente radicati nel Vangelo e anche con dinamica fedeltà alle nostre tradizioni e consuetudini.
Ma il mistero della Trinità ci parla anche di noi, del nostro rapporto con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Infatti, mediante il Battesimo, lo Spirito Santo ci ha inseriti nel cuore e nella vita stessa di Dio, che è comunione di amore.
Dio è una “famiglia” di tre Persone che si amano così tanto da formare una sola cosa. Questa “famiglia divina” non è chiusa in sé stessa, ma è aperta, si comunica nella creazione e nella storia ed è entrata nel mondo degli uomini per chiamare tutti a farne parte. L’orizzonte trinitario di comunione ci avvolge tutti e ci stimola a vivere nell’amore e nella condivisione fraterna, certi che là dove c’è amore, c’è Dio.
Il nostro essere creati ad immagine e somiglianza di Dio-comunione ci chiama a comprendere noi stessi come esseri-in-relazione e a vivere i rapporti interpersonali nella solidarietà e nell’amore vicendevole.
Tali relazioni si giocano, anzitutto, nell’ambito delle nostre comunità ecclesiali, perché sia sempre più evidente l’immagine della Chiesa icona della Trinità. Ma si giocano in ogni altro rapporto sociale, dalla famiglia alle amicizie all’ambiente di lavoro: sono occasioni concrete che ci vengono offerte per costruire relazioni sempre più umanamente ricche, capaci di rispetto reciproco e di amore disinteressato.
La festa della Santissima Trinità ci invita ad impegnarci negli avvenimenti quotidiani per essere lievito di comunione, di consolazione e di misericordia. In questa missione, siamo sostenuti dalla forza che lo Spirito Santo ci dona: essa cura la carne dell’umanità ferita dall’ingiustizia, dalla sopraffazione, dall’odio e dall’avidità.
La Vergine Maria, nella sua umiltà, ha accolto la volontà del Padre e ha concepito il Figlio per opera dello Spirito Santo. Ci aiuti Lei, specchio della Trinità, a rafforzare la nostra fede nel Mistero trinitario e ad incarnarla con scelte e atteggiamenti di amore e di unità.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 22 maggio 2016
1 * Era stata pronunciata su di loro infatti la “Birkat Ha Minim”, che se appare come benedizione nella liturgia sinagogale in realtà aveva un significato diverso espresso in queste parole:: "Che per gli apostati non ci sia speranza; sradica prontamente ai nostri giorni il regno dell'orgoglio; e periscano in un istante i nozrim e i minim; siano cancellati dal libro dei viventi e con i giusti non siano iscritti. Benedetto sei tu che pieghi i superbi.” Come si può notare, accanto ai minim (eretici o dissidenti) si impreca contro i nozrim, i nazareni, cioè i seguaci di Gesù di Nazareth, a cui venne appioppata la scomunica poiché, pur pretendendo di rimanere dentro la sinagoga, la dividevano nella fede, proteggevano i "gentili", soprattutto i romani, e distruggevano il principio dogmatico della habdàlàh ossia la separazione tra circoncisi e non.
La festa della Pentecoste rievoca la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli e la loro investitura missionaria, avvenuta cinquanta giorni dopo la Pasqua di resurrezione.
Il mistero di Cristo morto e risorto è sempre vivo e presente perché nella Chiesa l’azione dello Spirito Santo è costante. La Pentecoste, compimento del tempo pasquale, non è solo un episodio della storia della salvezza, è piuttosto il mistero vivo della Chiesa abitata per sempre dallo Spirito Santo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, viene evidenziato come lo Spirito Santo scendendo sugli apostoli dà loro il potere di esprimersi in tutte le lingue. Da quel momento la Chiesa proclama un unico linguaggio, quello di Cristo e dell’amore. La diversità delle culture, delle razze e dei doni personali non è sorgente di incomprensione e di ostilità, ma diventa una “sinfonia” di voci che secondo i timbri e tonalità differenti annunziano la stessa gioia e la stessa speranza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, Paolo ci ricorda che lo Spirito Santo nel Battesimo ci fa figli ed eredi in Cristo, coeredi della vita eterna. Lo Spirito diventa la nostra voce e ci permette di rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”.
Nel Vangelo, Giovanni presenta Gesù che parla ai suoi discepoli di quando verrà il Consolatore, lo Spirito di verità, che gli renderà testimonianza, ricordando e rendendo più comprensivo tutto ciò che prima aveva loro insegnato e li guiderà alla verità tutta intera!
L’azione dello Spirito è rivolta sia al futuro (rivelazione), sia al passato (comprensione). Per il cristiano di ogni tempo e di ogni luogo si tratta di continuare a comprendere la rivelazione di Gesù nelle diverse e molteplici situazioni della propria vita.
Dagli Atti degli Apostoli
Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti; abitanti della Mesopotàmia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
At 2,1-11
Luca inizia il suo racconto indicando il momento e il luogo in cui si è verificato l’evento: “Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste si trovavano tutti insieme nello stesso luogo.” In realtà stava per compiersi non tanto il giorno di Pentecoste, che era solo iniziato, ma il conto delle sette settimane, a partire dalla Pasqua, al termine delle quali ha luogo la Pentecoste1 .
Anche se non viene precisato chi fosse presente all’avvenimento, si può supporre che insieme ai discepoli fosse presente Maria insieme ad altre donne. Luca dicendo “si trovavano tutti insieme” vuole sottolineare non solo la presenza fisica nello stesso luogo ma anche l’unione che regnava tra coloro che costituivano il primo nucleo della Chiesa.
“Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.”
I termini che Luca usa si ricollegano alla terminologia usata per descrivere la teofania
(V. 1Re 19,11), e il termine “vento” allude già allo Spirito (pneuma), che ad esso viene spesso assimilato (Ez 37,9; Gv 3,8). Il fragore venuto dal cielo “riempie” tutta la casa, così come lo Spirito “riempirà” tutti i presenti.
“Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.”
Il fuoco, a cui le lingue assomigliavano, è anch’esso un’immagine ricavata dalla rappresentazione biblica della teofania (Es 19,18). È indicativo inoltre che, la parola di Dio ha preso la forma di una torcia di fuoco
Il fatto che i presenti parlino “altre lingue” richiama la leggenda giudaica secondo la quale al Sinai la parola di Dio si divideva in 70 lingue. A prima vista sembra quindi che essi parlassero ognuno una lingua diversa dall’altra, ma dal seguito del racconto appare che si trattava piuttosto di un miracolo di audizione, simile a quello che, secondo le leggende giudaiche, si era verificato al Sinai: in realtà essi parlavano normalmente e i presenti li comprendevano nella propria lingua originaria.
Questo fenomeno non è conosciuto altrove nel N.T. perciò diversi studiosi pensano che originariamente si trattasse non di un ”parlare in altre lingue”, ma del “parlare in lingue”, cioè della “glossolalia”, un carisma che consiste nel lodare Dio in una lingua sconosciuta.
Il fragore della teofania viene udito anche all’esterno della casa in cui si trovavano gli apostoli, e subito si raduna una piccola folla di curiosi, pieni di stupore e di meraviglia, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua… delle grandi opere di Dio».
La gente che si era radunata era composta di giudei della diaspora e di proseliti, cioè pagani convertiti al giudaismo, venuti a stabilirsi a Gerusalemme. I loro paesi di origine sono elencati in modo tale da dare l’impressione che si tratti di tutto il mondo allora conosciuto. Pur essendo giudei di nascita o di religione, i testimoni della Pentecoste cristiana sono presentati come i rappresentanti delle nazioni alle quali sarà rivolto l’annunzio evangelico.
Lo Spirito Santo con la Sua discesa sugli Apostoli e Maria ha completato l’opera dell’Incarnazione di Dio: al momento della Sua prima discesa, lo Spirito Santo aveva compiuto nella santa Vergine l’Incarnazione del Verbo, permettendo che il Verbo divenisse, nel suo corpo, il Dio-Uomo, per esserlo nell’eternità. Al momento della Sua seconda discesa, durante la Pentecoste, lo Spirito Santo discende per dimorare nel Suo corpo che è la Chiesa.
Maria è presente poiché è l’unica che possa confermare la presenza e l’azione dello Spirito, in quanto lei è la sola che ne ha già fatto esperienza, avendo, per opera dello Spirito Santo, generato al mondo il Verbo consustanziale al Padre.
Gli Apostoli sono rivestiti di Spirito Santo e annunciano al mondo quel Verbo eterno, crocifisso e risorto che Maria ha generato nella carne. Essi proclamano, lei conferma! Loro annunciano, a lei è stato annunciato! Essi diffondo la Parola di Vita, lei ha dato vita alla Parola!
Salmo 103 Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra.
Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.
Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere.
A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.
Il salmista esordisce con un invito a se stesso a benedire il Signore. Di fronte alla grandezza, alla bellezza, alla potenza della creazione esprime il suo stupore e la sua lode a Dio: “Sei tanto grande, Signore, mio Dio!”.Egli contempla Dio nella sua sovranità universale, tratteggiandolo “avvolto di luce come di un manto”. Una luce gloriosa, non terrena, non degli astri, ma divina, con la quale illumina gli spiriti angelici, nel cielo. …
Il salmo, segue l'ordine della prima narrazione della creazione (Gn 1,1s), continua presentando la primordiale situazione della terra, ora fermamente salda “sulle sue basi”, intendendo per basi niente di formalmente vincolante, ma solo un'immagine tratta dalle congetture dell'uomo.
L'onnipotenza divina viene presentata come dominatrice delle acque che coprivano la terra: “Al tuo rimprovero esse fuggirono, al fragore del tuo tuono rimasero atterrite”. Le acque si divisero in acque sotto il firmamento e in acque sopra il firmamento (le nubi, pensate ferme in alto per la presenza di una invisibile calotta detta firmamento), così cominciò il ciclo delle piogge e le acque “Salirono sui monti, discesero nelle valli, verso il luogo (mare) che avevi loro assegnato”. Dio provvede, nel tempo privo di piogge, al regime delle acque, e fa scaturire nelle alte valli montane acque sorgive che poi scendono lungo i canaloni tra i monti per dissetare gli animali. Gli uccelli trovano dimora nei luoghi alti e cantano tra le fronde degli alberi. Tutto è predisposto perché non manchi il cibo: “Con il frutto delle tue opere si sazia la terra. Tu fai crescere l'erba per il bestiame e le piante che l'uomo coltiva...”.
E anche gli alberi alti sono sazi per la pioggia “sono sazi gli alberi del Signore (cioè gli alberi altissimi: nell'ebraico il superlativo assoluto è reso con un riferimento a Dio), i cedri del Libano da lui piantati”. (I cedri del Libano raggiungono anche i 40 m. di altezza, con un diametro alla base di 2,5 m.)
Dio per segnare le stagioni ha fatto il sole e la luna. Ritirando a sera la luce stende “le tenebre e viene la notte”; e anche nella notte prosegue la vita: “si aggirano tutte le bestie della foresta; ruggiscono i giovani leoni in cerca di preda”. Con i loro ruggiti “chiedono a Dio il loro cibo”. Il salmo presenta che gli animali carnivori sono stati creati così da Dio. Il libro della Genesi (1,30) presenta un mondo animale che si cibava di erbe nella situazione Edenica; ma è un'immagine rivolta a presentare come all'inizio non ci fosse la ferocia tra gli animali, benché non mancassero animali carnivori, creati da Dio, come il nostro salmo presenta.
L'uomo comincia il suo lavoro col sorgere del sole: “Allora l'uomo esce per il suo lavoro, per la sua fatica fino a sera”.
Il salmista loda ancora il Signore per le sue opere.
Passa quindi a considerare le creature del mare; in particolare il Leviatan, nome col quale l'autore designa la balena.
Il mondo animale è oggetto pure esso dell'assistenza divina: “Nascondi il tuo volto: li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere”. Se Dio ritrae la sua assistenza gli animali periscono, non hanno più l'alito delle narici “togli loro il respiro”.
Ma se manda il suo Spirito creatore sono creati. Lo Spirito di Dio è all'origine della creazione: (Gn 1,2).
Il salmista chiede che sulla terra ci sia la pace tra gli uomini, affinché “gioisca il Signore delle sue opere”. “Scompaiano i peccatori dalla terra e i malvagi non esistano più” dice, augurandosi un tempo dove gli uomini cessino di combattersi. Questo sarà nel tempo di pace che abbraccerà tutta la terra, quando la Chiesa porterà Cristo a tutte le genti; sarà la società della verità e dell'amore. Noi dobbiamo incessantemente impegnarci con la preghiera e la testimonianza per questo tempo che invochiamo nel Padre Nostro dicendo: “Venga il tuo regno”.
Commento tratto da “Perfetta Letizia”
(Per avere un’idea più completa della bellezza di questo salmo è stato riportato il commento nella sua interezza e non solo per i versetti proposti dalla liturgia)
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Rm 8,8-17
San Paolo scrisse la lettera ai Romani da Corinto probabilmente tra gli anni 58-59 e lo fa anche per presentare se stesso, in vista di un suo viaggio a Roma. La comunità dei cristiani di Roma era già ben formata e coordinata, ma lui ancora non la conosceva. Forse il primo annuncio fu portato a Roma da quei “Giudei di Roma”, presenti a Gerusalemme nel giorno della Pentecoste e che accolsero il messaggio di Pietro e il Battesimo da lui amministrato, diventando cristiani. Nacque subito la necessità di avere a Roma dei presbiteri e questi non poterono che essere nominati a Gerusalemme.
La Lettera ai Romani, che è uno dei testi più alti e più impegnativi degli scritti di Paolo, ed è anche la più lunga e più importante come contenuto teologico, è composta da 16 capitoli: i primi 11 contengono insegnamenti sull'importanza della fede in Gesù per la salvezza, contrapposta alla vanità delle opere della Legge; il seguito è composto da esortazioni morali. Paolo, in particolare, fornisce indicazioni di comportamento per i cristiani all'interno e all'esterno della loro comunità.
Nel c. 8, da dove è tratto questo brano, egli affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato nel capitolo 5, e mostra anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato e prosegue mettendo in luce come lo Spirito stesso trasformi intimamente non solo il credente ma anche tutto l’universo.
Questo brano, inizia con l’affermazione: “quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio”. Poi l’Apostolo invita a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui i destinatari delle sue lettere di allora, e noi oggi, si trovano. “Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi”. Ora se Cristo abita in loro, da una parte il loro corpo è morto a causa del peccato,cioè essi, in quanto partecipi di questa umanità dominata dal peccato restano soggetti alla morte; dall’altra però in loro opera lo Spirito che è sorgente di vita a causa della giustizia. In altre parole, essi vanno incontro alla morte fisica, ultimo effetto della loro condizione umana, ma in forza della giustizia, che è stata loro conferita, possiedono già la vita che è dono dello Spirito. Infatti Dio “farà vivere i loro corpi mortali” dando loro quello stesso Spirito mediante il quale ha risuscitato Gesù dai morti.
L’apostolo poi afferma: “noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete. Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E aggiunge che proprio in forza di questo Spirito noi gridiamo: «Abbà! Padre!»
Gesù per primo si è rivolto a Dio chiamandolo “Abbà! Padre!” non seguendo l’uso dei giudei di invocarlo come “Avinu malkeinu” Padre di tutto il popolo. Egli è stato costituito Figlio di Dio con potenza in forza della Sua risurrezione (Rm 1,4) ma era stato proclamato come Figlio da Dio stesso (Mc 1,11; 9,7) ed era stato riconosciuto come tale da un centurione al momento della sua morte (Mc 15,39). Comunque Egli era Figlio di Dio fin dalla sua nascita, anzi fin dall’eternità (Gv 1,14.18), e lo stesso Gesù aveva dato ai Suoi discepoli la prerogativa di rivolgersi a Dio con lo stesso appellativo di “Padre”.
Lo Spirito dunque non si limita a rendere possibile ai credenti l’osservanza della legge e a conferire loro la vita, ma, proprio in quanto “Spirito di Cristo”, li coinvolge in quello stesso rapporto filiale che Egli ha con il Padre.
Lo Spirito non solo dà ai credenti la possibilità di chiamare Dio con l’appellativo di “Padre”, ma insieme al loro spirito “attesta che siamo figli di Dio”. La figliolanza divina non è quindi un semplice concetto, ma un’esperienza che ha luogo nell’ambito della preghiera e sicuramente Paolo pensa qui alla preghiera comunitaria, durante la quale i credenti si rivolgono a Dio con l’appellativo di Padre.
”E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”. Questa figliolanza divina porta con sé anche il privilegio di ottenere un giorno l’eredità promessa, perchè, in quanto figli, i credenti sono diventati eredi di Dio, coeredi di Cristo, cioè hanno ricevuto con Lui l’attuazione delle promesse fatte da Dio ad Abramo (Rm 4,13-17) di conseguenza essi parteciperanno alla stessa gloria che fin d’ora è propria del Figlio.
Ciò si realizza però a patto che sappiano soffrire con Lui, accettando cioè di passare attraverso le stesse sofferenze che hanno caratterizzato la Sua vita terrena.
Pur essendo giustificati, i credenti però non sono ancora arrivati alla meta finale, ma hanno davanti a sé un lungo cammino, che sarà caratterizzato da varie prove ed anche da sofferenze.
In questo brano Paolo cerca di collegare strettamente il ”già” e il “non ancora” della salvezza. I credenti in Cristo hanno già ricevuto il Suo Spirito, sono liberati dalla carne e sono già partecipi della nuova vita che Cristo ha portato con la Sua morte. Proprio in forza della loro unione con Cristo essi sono già diventati a tutti gli effetti figli di Dio. Per loro i tempi ultimi della salvezza sono già iniziati.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre.«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui.
Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».
Gv 14, 15-16, 23b-26
Questo brano del Vangelo di Giovanni è ancora un’altra parte del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena. Egli offre loro nuovi motivi per avere fiducia: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre”.
E’ la prima volta che nel vangelo di Giovanni, appare il termine greco: “Paraclito” che per sé significa “colui che si chiama a fianco (di qualcuno)”. E’ da notare che Gesù dice “un altro Paraclito” e lo dice quando sta per lasciare i Suoi discepoli, che non avranno più la consolazione della Sua presenza, e questo vuol dire che il primo Paraclito, il consolatore, è Gesù stesso e andandosene manderà un altro Paraclito che starà sempre con loro, presso di loro, in loro. In questo modo l'assenza di Gesù si trasforma in una presenza "nello Spirito”.
Gesù continua promettendo ancora "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui." Ossia Egli stesso con il Padre verrà ad abitare con chi lo ama e osserva la Sua parola.
La condizione che tutto questo avvenga è che vi sia la volontà da parte di ciascuno nell'aderire e nel seguire i Suoi insegnamenti. Gesù lo promette e la Sua non è una promessa di uomo, ma di Dio.
Gesù invita noi oggi, come i Suoi discepoli allora, ad osservare la Sua parola come dimostrazione del nostro amore per Lui. Se noi lo amiamo veramente desideriamo conoscerlo di più, e più lo conosciamo e più sentiamo di amarlo, è un cerchio di amore che si alimenta reciprocamente. Non dobbiamo pretendere che eventi straordinari (i miracoli) ci forzino a credere: Gesù stesso infatti disse "beati" quelli che senza aver visto crederanno. Noi non abbiamo visto e incontrato Gesù come i discepoli, ma lo Spirito ci aiuta a credere e a fidarci di Lui. Dobbiamo imparare a leggere gli eventi che accadono a noi e nel mondo con l’ottica di Dio: solo così potremo vedere nella storia la presenza dello Spirito che ha sostenuto e fatto crescere la comunità dei cristiani - la Chiesa - come se Gesù fosse stato presente. Questo dovrebbe alimentare la nostra speranza e la certezza che Dio continua ad agire cambiando anche il corso delle azioni, che se anche erano volte al male, con il tempo si tramutano in bene.
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“Oggi celebriamo la grande festa della Pentecoste, che porta a compimento il Tempo Pasquale, cinquanta giorni dopo la Risurrezione di Cristo.
La liturgia ci invita ad aprire la nostra mente e il nostro cuore al dono dello Spirito Santo, che Gesù promise a più riprese ai suoi discepoli, il primo e principale dono che Egli ci ha ottenuto con la sua Risurrezione. Questo dono, Gesù stesso lo ha implorato dal Padre, come attesta il Vangelo di oggi, che è ambientato nell’Ultima Cena. Gesù dice ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito perché rimanga con voi per sempre» .
Queste parole ci ricordano anzitutto che l’amore per una persona, e anche per il Signore, si dimostra non con le parole, ma con i fatti; e anche “osservare i comandamenti” va inteso in senso esistenziale, in modo che tutta la vita ne sia coinvolta. Infatti, essere cristiani non significa principalmente appartenere a una certa cultura o aderire a una certa dottrina, ma piuttosto legare la propria vita, in ogni suo aspetto, alla persona di Gesù e, attraverso di Lui, al Padre.
Per questo scopo Gesù promette l’effusione dello Spirito Santo ai suoi discepoli. Proprio grazie allo Spirito Santo, Amore che unisce il Padre e il Figlio e da loro procede, tutti possiamo vivere la stessa vita di Gesù. Lo Spirito, infatti, ci insegna ogni cosa, ossia l’unica cosa indispensabile: amare come ama Dio.
Nel promettere lo Spirito Santo, Gesù lo definisce «un altro Paraclito», che significa Consolatore, Avvocato, Intercessore, cioè Colui che ci assiste, ci difende, sta al nostro fianco nel cammino della vita e nella lotta per il bene e contro il male. Gesù dice «un altro Paraclito» perché il primo è Lui, Lui stesso, che si è fatto carne proprio per assumere su di sé la nostra condizione umana e liberarla dalla schiavitù del peccato.
Inoltre, lo Spirito Santo esercita una funzione di insegnamento e di memoria. Insegnamento e memoria. Ce lo ha detto Gesù: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto». Lo Spirito Santo non porta un insegnamento diverso, ma rende vivo, rende operante l’insegnamento di Gesù, perché il tempo che passa non lo cancelli o non lo affievolisca.
Lo Spirito Santo innesta questo insegnamento dentro al nostro cuore, ci aiuta a interiorizzarlo, facendolo diventare parte di noi, carne della nostra carne. Al tempo stesso, prepara il nostro cuore perché sia capace davvero di ricevere le parole e gli esempi del Signore. Tutte le volte che la parola di Gesù viene accolta con gioia nel nostro cuore, questo è opera dello Spirito Santo.
Preghiamo ora insieme il Regina Caeli – per l’ultima volta quest’anno –, invocando la materna intercessione della Vergine Maria. Ella ci ottenga la grazia di essere fortemente animati dallo Spirito Santo, per testimoniare Cristo con franchezza evangelica e aprirci sempre più alla pienezza del suo amore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 maggio 2016
1 L'origine della festa di Pentecoste è ebraica e si riferisce allo Shavuot, celebrata sette settimane dopo la Pasqua ebraica. La festività era legata alle primizie del raccolto e alla rivelazione di Dio sul Monte Sinai, dove Dio ha donato al popolo ebraico la Torah.
In questa domenica ricordiamo l’Ascensione del Signore che se anche è una festa di addio, paradossalmente non conosce lacrime e malinconia, perché Gesù lascia gli apostoli promettendo lo Spirito Santo che rende l’Ascensione, non una sparizione di Gesù in un mondo lontano, irraggiungibile, ma una vicinanza permanente nel cuore dei credenti.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli Gesù salendo al Padre conclude la Sua esistenza terrena. Con l’ascensione di Gesù, la Chiesa inizia la sua vicenda storica proprio con questa grande epifania del Cristo, il Signore e Salvatore risorto. Chi crede in Lui sa di vivere per mezzo di Lui nella Parola e nei sacramenti.
Nella seconda lettura, l’autore della Lettera agli Ebrei, ci dice che Gesù, vero e definitivo sommo sacerdote, è salito al cielo, per comparire davanti a Dio e intercedere in nostro favore. Egli ha realizzato così ciò che i riti del popolo ebreo compivano solo in figura. Il tempio era figura del cielo, il sacrificio con il sangue delle vittime doveva essere ripetuto ogni anno. Il sacerdote ogni anno, nella festa dell'Espiazione (Yom Kippur) offriva il sacrificio prima per i suoi peccati e poi per i peccati commessi dal popolo. Tutto questo viene superato dal sacrificio di Cristo sulla croce, che cancella il peccato e vale per tutti i secoli. Per questo motivo possiamo accostarci con fiducia al suo trono per chiedergli di donarci la sua salvezza.
Nel Vangelo di Luca sono riportati gli ultimi momenti della permanenza di Gesù con i Suoi discepoli. L’ultimo comando di Gesù ai Suoi discepoli, e da loro a noi oggi, è stato di andare in tutto il mondo e predicare il Vangelo a ogni creatura. La vera missione che oggi noi dobbiamo compiere, non è tanto di andare in tutto il mondo (non tutti hanno la capacità e le possibilità di farlo) ma è di annunciare il Vangelo al nostro piccolo mondo, a quello che ci circonda, quello che secondo le fasi della nostra vita, accostiamo. Forse sarà un mondo ancora più difficile di quello che si potrà trovare nella classica terra di missione, ma a quello siamo chiamati a dare la nostra testimonianza di credenti. Il Signore non ci chiede mai di scalare una montagna se prima non siamo in grado neanche di arrivare alla piccola altura del nostro cuore.
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Dagli Atti degli Apostoli
Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella - disse - che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
At 1,1-11
In questo brano viene riportato il prologo degli Atti degli Apostoli e Luca lo inizia dedicando il suo libro a Teofilo,(la cui identità non è nota), lo stesso a cui aveva dedicato il suo Vangelo. Luca ricorda che nel suo primo racconto aveva già trattato di tutto quello “che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo”. Il gruppo dei Dodici, che dopo il tradimento di Giuda è ridotto a undici, viene così presentato fin dall’inizio come la cerchia degli intimi di Gesù, chiamati esplicitamente con l’appellativo di “apostoli”.
Dopo aver accennato all’ascensione di Gesù, Luca ci riporta al periodo precedente, affermando che Gesù è apparso agli apostoli per quaranta giorni.
Anche qui il numero 40 è un numero simbolico, che spesso è usato per indicare il tempo di preparazione a una particolare rivelazione divina (Mosè trascorre 40 giorni sul Sinai prima di ricevere le tavole dell’alleanza (Es 24,18), il popolo peregrina 40 anni nel deserto prima di giungere alla terra promessa (Nm 14,33), Elia cammina 40 giorni nel deserto verso il monte di Dio (1Re 19,8); nel giudaismo Esdra resta quaranta giorni con Dio quando gli sono consegnati i libri sacri (4Esd 14,23-45) e Baruc istruisce il popolo per quaranta giorni prima della sua assunzione in cielo (2Bar 76,1-4). Anche Gesù aveva trascorso 40 giorni nel deserto, digiunando, prima di iniziare la sua vita pubblica (Lc 4,1-2). Un tempo analogo è necessario agli apostoli per essere adeguatamente istruiti “con molte prove” circa il regno di Dio.
L’annunzio del regno di Dio era stato il programma di Gesù durante la Sua vita terrena, ora Egli lo affida agli apostoli e Luca si limita a riferire che egli ordinò loro di non lasciare Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre che essi avevano inteso da lui: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo”. Il battesimo mediante lo Spirito santo viene inteso qui non come il rito cristiano che si sostituisce a quello del Battista, ma come il dono dello Spirito fatto alla nascente comunità cristiana nel giorno di Pentecoste. Come Gesù, all’inizio della Sua attività pubblica, ha ricevuto lo Spirito Santo in occasione del battesimo di Giovanni, così anche la Chiesa, all’inizio del suo cammino nel mondo, deve essere contrassegnata dalla presenza dello Spirito.
La domanda dei discepoli a Gesù: “Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele” dimostra che ancora non avevano compreso e pensavano che fosse ormai imminente il momento in cui i regni di questo mondo sarebbero stati distrutti e di conseguenza instaurata la sovranità di Dio mediante il popolo di Israele, come aveva profetizzato il profeta Daniele (7,27), ma Gesù risponde: “Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra”.
Anche per Gesù solo il Padre conosce i tempi in cui si attua il Suo progetto: ciò significa che l’instaurazione del regno non coincide con la fine del mondo perché in realtà il regno è già stato inaugurato da Gesù, ma dovrà passare ancora un lungo periodo di tempo prima della Sua venuta piena e definitiva.
Questo nuovo periodo, che inizierà appunto con la venuta dello Spirito Santo, sarà contrassegnato dalla testimonianza degli apostoli che si estenderà da Gerusalemme alla Giudea, alla Samarìa, fino agli estremi confini della terra.
Per Luca, Gerusalemme è il centro della salvezza, mentre gli estremi confini della terra sono il mondo dei pagani e in particolare Roma che, come capitale dell’impero romano, rappresenta, rispetto a Gerusalemme, l’estremo opposto del mondo.
In questo versetto, che delinea il progressivo espandersi del cristianesimo, Luca indica anche il piano della sua opera: egli intende narrare lo sviluppo dell’annunzio evangelico a Gerusalemme poi in Giudea e Samaria e infine, per mezzo di Paolo, in Anatolia e in Grecia.
Nel racconto dell’ascensione Luca si ispira anche a quanto scrive il profeta Daniele, che descrive l’apparizione, sulle nubi del cielo, di uno simile a un figlio di uomo, il quale si presenta davanti al trono di Dio e riceve potere, gloria e regno (Dn 7,13-14). Di questa scena nel racconto degli Atti rimane il particolare della nuvola, simbolo della manifestazione misteriosa di Dio, che sottrae Gesù dallo sguardo degli apostoli.
Come “figlio dell’uomo” Egli si presenta a Dio per ricevere il regno che si è acquistato con la Sua morte. Ma, contrariamente alle aspettative giudaiche, non è ancora venuto il momento della conclusione finale, infatti gli angeli annunziano che Egli dovrà ritornare un giorno “nello stesso modo” in cui i discepoli l’hanno visto andare in cielo. Sarà quello il momento della fine, nel frattempo gli apostoli non devono rimanere a guardare in cielo, come facevano coloro che ricevevano visioni apocalittiche (Dn 10,8), ma devono andare a svolgere la missione che è stata loro affidata, e da loro a tutta la Sua Chiesa, il Suo corpo mistico.
E proprio nell’impegno che noi oggi, Sua Chiesa, abbiamo di testimoniarlo, si sperimenta la Sua presenza, si scopre che Gesù non solo è venuto e verrà, ma che viene, oggi, nell’oggi di ognuno di noi, e lo colma di sé, della Sua gioia. La nostra testimonianza diviene allora indicazione di una presenza esperimentata, amata, e per questa ragione, comunicata.
Salmo 46 - Ascende il Signore tra canti di gioia.
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.
Ascende Dio tra le acclamazioni,
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.
Il salmo è un inno festoso a Dio re dell’universo. Il salmo invita tutti i popoli ad applaudire il Signore. Dopo il momento terribile delle vittorie filistee e dei popoli della terra di Canaan, ecco la vittoria per Israele. La terra promessa sta per essere totalmente conquistata e Gerusalemme è stata sottratta ai Gebusei. Un corteo festante porta l’arca dentro la Città di Davide: “Ascende Dio tra le acclamazioni”.
La conquista della terra promessa, la presa di Gerusalemme sono solo una tappa di un disegno più ampio di Dio che riguarda tutti i popoli.
Israele ha visto come Dio ha posto ai suoi piedi le nazioni, e dunque nessuna nazione può resistergli.
Egli è “re di tutta la terra”. Il popolo di Abramo è come un germe chiamato ad attirare a sé i popoli. Il salmista vede profeticamente già attuato questo: “I capi dei popoli si sono raccolti come popolo del Dio di Abramo”. Questo avverrà per mezzo del futuro Messia, che produrrà la nuova ed eterna alleanza. Il segno della sua vittoria sarà la risurrezione, la sua salita al cielo - “ascende Dio tra le acclamazioni” -, il suo stare alla destra del Padre (Cf. Ps 110,1).
Commento tratto da Perfetta Letizia
La liturgia cattolica a causa del versetto “ascende Dio…” ha usato questo salmo per l’Ascensione del Cristo, mentre quella giudaica lo fa recitare sette volte prima che il corno dia il segnale inaugurale del nuovo anno. …
Al centro appare la figura monumentale del Signore re d’Israele, mentre tutt’attorno si odono suoni, voci, applausi: egli è: “altissimo, terribile, grande”. Si tratta di attributi che vogliono esaltare la trascendenza divina, il suo primato sull’essere, la sua onnipotenza.
Per un lettore cristiano il parallelo cristologico potrebbe essere la celebre pagina finale di Matteo in cui il Cristo risorto proclama:
“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra…” 28,28
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera agli Ebrei
Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte.
Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza.
Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.
Eb 9,24-28; 10,19-23
L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso quasi concordemente questa attribuzione. L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica.
Questo brano è tratto dalla parte centrale della lettera , in cui si affronta il tema del sacerdozio e del sacrificio di Cristo, in particolare descrive l’efficacia del suo sacerdozio in quanto esso si configura come un ingresso nel santuario celeste. L’autore inizia affermando:
“Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore.”
Cristo sommo sacerdote, non è entrato nel tempio fatto dagli uomini, ma in quello vero, cioè al cospetto di Dio. Il tempio di Gerusalemme era solo una figura della corte celeste. Gesù è comparso davanti al Dio dell'universo per intercedere a nostro favore. Dal giorno dell‘ascensione Egli è davanti al trono di Dio, nel Suo corpo glorioso e parla di noi al Padre.
“E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: “
la Sua offerta ha valore perenne, non deve perciò essere ripetuta ogni anno come invece dovevano fare i sacerdoti a Gerusalemme. Inoltre Gesù non ha presentato l'offerta di animali per il sacrificio, ma Lui stesso è stato immolato e offerto, come vero agnello pasquale.
“in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso”.
Qui viene chiarito meglio l’aspetto definitivo del sacrificio di Cristo. Egli non deve offrire più volte se stesso perché il Suo sacrificio non ha semplicemente impetrato il perdono dei peccati, bensì ha annullato del tutto il peccato.
“E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio”
Anche per gli uomini vi è un evento definitivo e irreversibile, quello della morte. Dopo la morte avviene il giudizio, la valutazione di quanto di bene una persona ha fatto durante la sua vita terrena.
“così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l'aspettano per la loro salvezza.”
Gesù tornerà una seconda venuta nel mondo. Egli che si è offerto una sola volta per annullare il peccato, tornerà una seconda volta nella gloria; uscirà di nuovo dal santuario celeste, quando verrà a noi, non per morire, ma per salvare coloro che l’aspettano per essere ammessi nel Suo Regno.
Nei versetti (10,1-18) che il brano non riporta, l'autore riprende il paragone tra i sacrifici del culto ebraico e il sacrificio di Cristo, ricordando soprattutto che Gesù ha offerto il proprio corpo e non quello degli animali sacrificali.
Poi prosegue: “Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù,”
Grazie al sacrificio di Cristo ora abbiamo la possibilità anche noi di entrare nel santuario celeste. Il sangue che ci ha donato questa libertà non è più il sangue degli animali, ma il sangue di Cristo.
“via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne”
Cristo è una via nuova e vivente. Si può trovare riferimento alle parole di Gesù in Gv 14,6: Io sono la via, la verità e la vita, e questa via è stata tracciata attraverso il velo della Sua carne.
Il velo era la tenda che separava il luogo più sacro del tempio, il Santo dei Santi dove era conservata l'arca, dal resto del santuario. Al di là del velo potevano andarci solo i sacerdoti, in occasioni particolari. Con Cristo questa separazione è stata superata e chiunque può accostarsi alla gloria di Dio. Il corpo di carne di Cristo era il velo che non ci permetteva di vedere la Sua divinità. Ora con la morte di Gesù il velo è stato squarciato (Mt 27,51) e il tempio è diventato accessibile a tutti.
“e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio,”
Possiamo entrare nel santuario di Dio, non c'è più il velo che ci impediva l'ingresso. Nel santuario troveremo anche un grande sacerdote che ci aspetta solo per accoglierci, darci grazia e salvezza.
“accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” .
Per entrare è necessario però avere alcuni requisiti: un cuore sincero, cioè il puro desiderio di accostarsi a Dio.
L'autore poi ricorda i tre elementi classici: fede, speranza e carità (V. 24) La fede è necessaria per fondare su Dio la nostra vita. Ci vuole un cuore purificato e un corpo lavato, elementi caratteristici del Battesimo. Per presentarsi a Dio è necessario credere in Lui e aver cominciato un cammino di conversione e di vita nuova.
“Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso”.
Oltre alla fede, importante per la vita cristiana è la speranza, la fede rivolta al futuro, il sapere che Dio sarà fedele alle Sue promesse.
La comunità, a cui scrive l'autore della Lettera agli Ebrei, era alquanto scoraggiata a causa della persecuzione e del prolungarsi dei tempi di attesa per la venuta del Signore. L'autore riafferma così che il Signore è degno di fede e realizzerà le Sue promesse.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Lc 24: 46-53
Luca chiude il suo Vangelo narrando l’ascensione di Gesù e apre l’altra sua opera, gli Atti degli Apostoli, raccontando ancora per la seconda volta l’ascensione di Gesù. Sembra voler dire che l'Ascensione, se da una parte indica la chiusura della vita pubblica di Gesù, dall'altra vuol evidenziare una Sua presenza più profonda nella vita dei discepoli tanto da essere l'inizio, quasi il fondamento, di tutta la storia seguente della Chiesa.
Il brano inizia riportando le ultime istruzioni di Gesù agli apostoli:
«Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno,
Gesù sa che si sta congedando dai suoi discepoli e ricorda l’annuncio della sua passione, l’annuncio della sua Pasqua: il Gesù che ha patito è il Gesù che è risuscitato. Questo dobbiamo sempre tenerlo in mente: non c’è risurrezione senza passione e non c’è passione senza risurrezione.
“e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati,” cominciando da Gerusalemme”. Nel nome cioè di Colui che ha patito ed è risuscitato dai morti il terzo giorno, proprio in virtù di quel nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme, che è il punto centrale e l’annuncio non può che cominciare da Gerusalemme. La permanenza a Gerusalemme, cioè nei luoghi della Pasqua, è garanzia per non fallire.
È da lì che si comincia ed è lì che bisogna ritornare.
“Di questo voi siete testimoni.” Il Signore Gesù impegna i suoi apostoli a proclamare il suo vangelo a tutti i popoli, per invitarli alla conversione e alla fede. Perciò i credenti debbono rendere testimonianza al Cristo risorto non solo con la vita ma anche con la parola, con l’annuncio del vangelo.
“Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Le promesse di Gesù non vengono meno. Lui se ne va, ma non lascia orfani i suoi amici. La promessa del Padre e la “potenza dall’alto” indicano la persona dello Spirito Santo.
“Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse”..Il gesto di saluto di Gesù è un dono. Dio non si allontana dai suoi, semplicemente si sottrae ai loro sguardi per apparire in altra veste.
“Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo”
La separazione finale di Gesù risorto dai suoi discepoli è avvenuta in un contesto di benedizione. La benedizione dei discepoli richiama il passo del Levitico (9,22) dove è narrato che “Aronne, alzate le mani verso il popolo, lo benedisse”. Probabilmente Luca si è ispirato a questo, per cui Gesù risorto viene presentato come il sommo Sacerdote che benedice il suo popolo, prima di separarsi per colmarlo della Sua grazia divina. Gesù si allontana dai suoi discepoli fisicamente perché sale al cielo, ma la Sua benedizione e la Sua presenza rimangono in mezzo alla Sua comunità.
“Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Quel giorno i discepoli hanno sperimentato che il Signore era ormai definitivamente accanto a loro, con la Sua Parola e il Suo Spirito; una vicinanza certo più misteriosa ma ancora più reale di prima. Avranno compreso fino in fondo ciò che Gesù aveva detto loro “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.(Mt 18,20)
Da quel momento in poi la presenza di Gesù sarebbe stata ancor più ampia nello spazio e nel tempo; per sempre avrebbe accompagnato i discepoli, dovunque e comunque. Di qui il motivo della grande gioia. Nessuno al mondo avrebbe ormai potuto allontanare Gesù dalla loro vita.
La gioia dei discepoli, ora è anche nostra, perché possiamo vivere quel che loro sperimentarono.
“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!” asserisce l’autore della Lettera agli Ebrei, (13,8) e niente è più vero di questo! Gesù non tradisce mai, è sempre pronto a sorreggere chi lo invoca, anche l’ultimo degli uomini … non esiste un peccato così grave che la Sua misericordia non possa perdonare. “
L’Ascensione di Gesù in Cielo crea un rapporto diretto tra noi e Dio, perché stabilisce tra Lui e le creature umane un rapporto personale e nello stesso tempo anche un rapporto di fiducia perché affida a ciascuno di noi (come a ciascun apostolo) il compito di annunciare e vivere la salvezza –rinnovamento “fino agli estremi confini della terra”.
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“Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. Contempliamo il mistero di Gesù che esce dal nostro spazio terreno per entrare nella pienezza della gloria di Dio, portando con sé la nostra umanità. Cioè noi, la nostra umanità entra per la prima volta nel cielo.
Il Vangelo di Luca ci mostra la reazione dei discepoli davanti al Signore che «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Non ci furono in essi dolore e smarrimento, ma «si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia». È il ritorno di chi non teme più la città che aveva rifiutato il Maestro, che aveva visto il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro, aveva visto la dispersione dei discepoli e la violenza di un potere che si sentiva minacciato.
Da quel giorno per gli Apostoli e per ogni discepolo di Cristo è stato possibile abitare a Gerusalemme e in tutte le città del mondo, anche in quelle più travagliate dall’ingiustizia e dalla violenza, perché sopra ogni città c’è lo stesso cielo ed ogni abitante può alzare lo sguardo con speranza. Gesù, Dio, è uomo vero, con il suo corpo di uomo è in cielo! E questa è la nostra speranza, è l'ancora nostra, e noi siamo saldi in questa speranza se guardiamo il cielo.
In questo cielo abita quel Dio che si è rivelato così vicino da prendere il volto di un uomo, Gesù di Nazareth. Egli rimane per sempre il Dio-con-noi – ricordiamo questo: Emmanuel, Dio con noi – e non ci lascia soli! Possiamo guardare in alto per riconoscere davanti a noi il nostro futuro. Nell’Ascensione di Gesù, il Crocifisso Risorto, c’è la promessa della nostra partecipazione alla pienezza di vita presso Dio.
Prima di separarsi dai suoi amici, Gesù, riferendosi all’evento della sua morte e risurrezione, aveva detto loro: «Di questo voi siete testimoni» . Cioè i discepoli, gli apostoli sono testimoni della morte e della risurrezione di Cristo, in quel giorno, anche dell’ Ascensione di Cristo. E in effetti, dopo aver visto il loro Signore salire al cielo, i discepoli ritornarono in città come testimoni che con gioia annunciano a tutti la vita nuova che viene dal Crocifisso Risorto, nel cui nome «saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati» .
Questa è la testimonianza – fatta non solo con le parole ma anche con la vita quotidiana – la testimonianza che ogni domenica dovrebbe uscire dalla nostre chiese per entrare durante la settimana nelle case, negli uffici, a scuola, nei luoghi di ritrovo e di divertimento, negli ospedali, nelle carceri, nelle case per gli anziani, nei luoghi affollati degli immigrati, nelle periferie della città… Questa testimonianza noi dobbiamo portare ogni settimana: Cristo è con noi; Gesù è salito al cielo, è con noi; Cristo è vivo!
Gesù ci ha assicurato che in questo annuncio e in questa testimonianza saremo «rivestiti di potenza dall’alto», cioè con la potenza dello Spirito Santo. Qui sta il segreto di questa missione: la presenza tra noi del Signore risorto, che con il dono dello Spirito continua ad aprire la nostra mente e il nostro cuore, per annunciare il suo amore e la sua misericordia anche negli ambienti più refrattari delle nostre città. È lo Spirito Santo il vero artefice della multiforme testimonianza che la Chiesa e ogni battezzato rendono nel mondo. Pertanto, non possiamo mai trascurare il raccoglimento nella preghiera per lodare Dio e invocare il dono dello Spirito. In questa settimana, che ci porta alla festa di Pentecoste, rimaniamo spiritualmente nel Cenacolo, insieme alla Vergine Maria, per accogliere lo Spirito Santo. “
Papa Francesco Parte dell’Angelus dell’8 maggio 2016
In questa sesta domenica di Pasqua, la liturgia ci propone delle letture che ci presentano tre aspetti diversi della Chiesa
Un aspetto lo troviamo nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, che contiene un documento sintetico che raccoglie il dibattito del primo Concilio celebrato a Gerusalemme, (che ebbe luogo intorno al 49) convocato per risolvere la spinosa questione dell’accoglienza diretta dei pagani nella comunità cristiana senza passare attraverso le pratiche giudaiche.
Un altro aspetto è presente nella seconda lettura, tratta dal Libro dell’Apocalisse, in cui la Gerusalemme nuova, immagine della comunità di fede, risplende della luce e della gloria che scaturiscono dalla grazia del Signore risorto.
L’ultimo aspetto lo troviamo nel passo del Vangelo di Giovanni, che come di consueto, in questo periodo pasquale è preso dai discorsi di Gesù nell’ultima cena. Gesù manifesta il Suo amore concreto verso i discepoli, e attraverso di loro, verso tutti coloro che crederanno nel Suo nome, mediante il dono dello Spirito Santo che è la Sua stessa vita. Coloro che credono in Lui, animati da questo Spirito, potranno vivere con amore nel loro quotidiano, le parole e i gesti del Signore e testimoniarlo. Sarà proprio lo Spirito a guidarli verso la nuova Gerusalemme, venuta dal Cielo, da Dio, figura e immagine della Chiesa nel tempo, in cammino verso l’eternità, città che non ha un tempio, perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello, sono il suo tempio.
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione.
Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiàchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo.
Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose.
State bene!».
At 15,1-2.22-29
Questo brano, tratto dal capitolo 15 rappresenta il punto di svolta nella narrazione degli Atti e ci dà il resoconto del primo Concilio convocato a Gerusalemme intono all’anno 50 e costituisce la terza parte degli Atti. Dal cap.16 in poi, Luca si concentrerà unicamente sui viaggi missionari di Paolo fino al suo arrivo a Roma.
Nel brano si fa riferimento a una grave crisi che ha scosso la Chiesa primitiva. Da Luca sappiamo infatti che siccome ad Antiochia non tutti erano d’accordo sul fatto che i pagani potevano essere ammessi nella Chiesa senza ricevere la circoncisione, Paolo e Barnaba furono inviati a Gerusalemme per consultare gli apostoli. Anche lì esplode però la polemica; allora tutta la comunità, con gli apostoli e gli anziani si raduna per discutere il problema.
Il modo pacato con cui Luca descrive il conflitto nell’assemblea di Gerusalemme, che ha visto contrapporsi i due gruppi della Chiesa primitiva, separate proprio dal modo di annunziare il messaggio di Gesù in un ambiente diverso da quello giudaico, è comprensibile solo se si tiene conto che, quando egli scrive, questo conflitto si è ormai risolto. A Luca interessa spiegare che il Concilio di Gerusalemme, è stato una grande svolta nella storia della Chiesa, per cui non si ferma alla cronaca pura e semplice degli avvenimenti, ma rilegge le informazioni che gli sono pervenute alla luce della sua visione delle origini cristiane. La sua prospettiva è quella propria delle chiese sorte nel mondo greco, le quali, pur non osservando le prescrizioni della legge mosaica, si ritengono tuttavia le legittime continuatrici della Chiesa madre di Gerusalemme, la prima testimone della morte e risurrezione di Cristo.
Luca vuole così dimostrare che, se è vero che il centro di diffusione di una Chiesa ormai in continua crescita è stata la comunità di Antiochia, tuttavia Gerusalemme rimane sempre la Chiesa madre che, vincendo le proprie resistenze, ha dato il via all’evangelizzazione dei pagani, autorizzandone l’ammissione nella comunità senza l’obbligo della circoncisione.
In questa prospettiva la missione di Paolo, mediante la quale il cristianesimo si è esteso fino a Roma, appare non tanto come l’iniziativa personale del grande apostolo, ma come l’assenso cosciente della Chiesa Madre di Gerusalemme.
Nota: La formula di accordo del Concilio di Gerusalemme riportata dagli Atti dimostra, comunque, che il problema venne superato solo in parte, perché di fatto una divisione perdurò e se ne trova traccia nella maggior parte delle lettere di Paolo, nelle quali risalta la sua continua lotta contro le problematiche create nelle Chiese dai cristiani giudaizzanti.
Salmo 66 - Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti.
Dio abbia pietà di noi e ci benedica,
su di noi faccia splendere il suo volto;
perché si conosca sulla terra la tua via,
la tua salvezza fra tutte le genti.
Gioiscano le nazioni e si rallegrino,
perché tu giudichi i popoli con rettitudine,
governi le nazioni sulla terra.
Ti lodino i popoli, o Dio,
ti lodino i popoli tutti.
Ci benedica Dio e lo temano
tutti i confini della terra.
Il salmista presenta come Dio abbia benedetto il suo popolo con un raccolto abbondante: “La terra ha dato il suo frutto”. Ma questo non chiude il salmista nell’appagamento dei beni dati dalla terra, poiché egli manifesta, fin dall’inizio del salmo, il desiderio di un ben più alto dono: quello della presenza del Messia. Per tale presenza il popolo sarà rinnovato e si avrà che tutti i popoli giungeranno a conoscere il vero Dio e a lodarlo: “Su di noi faccia splendere il suo volto; perché si conosca sulla terra la tua via, la tua salvezza fra tutte le genti ”. Il salmista conclude il salmo ripresentando il suo desiderio dei tempi messianici: “Ci benedica Dio; il nostro Dio, ci benedica Dio e lo temano tutti i confini della terra”.
Noi, in Cristo, desideriamo vivamente una terra rinnovata dalla conoscenza di Cristo e dall’azione del suo Spirito, e dobbiamo, nella viva appartenenza alla Chiesa, adoperarci incessantemente per questo.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dal Libro dell’Apocalisse di S. Giovanni Apostolo
L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino.
È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte.
Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
In essa non vidi alcun tempio:
il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello
sono il suo tempio.
La città non ha bisogno della luce del sole,
né della luce della luna:
la gloria di Dio la illumina
e la sua lampada è l’Agnello.
Ap 21,10-14. 22-23
Questo brano riporta la parte finale dell’Apocalisse che ci descrive in modo particolareggiato la Città Santa, la Gerusalemme nuova, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.
La visione di Giovanni inizia così: “L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio.”
Il monte è stato sempre considerato il luogo di maggiore vicinanza a Dio. Ed è da Dio che scende la città.
La città è l'espressione visibile del popolo che vi abita, ma mentre le città della terra sono sempre imperfette, la città di Dio dell'Apocalisse è perfetta, è il luogo dove dimora il popolo di Dio nella sua pienezza. Rispecchia il suo ordine interno, la sua ricchezza, la sua gloria, la sua felicità, la sua relazione con Dio e la sua inesprimibile unione con Cristo. Il modello della città di Dio è Gerusalemme, la città della pace, il centro della storia della salvezza dell'Antico Testamento. Sulla terra ha trovato compimento nella Chiesa, in cui Cristo continua a vivere e ad agire.
“Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino”.
La città è splendente come una gemma preziosa, ma la pietra se non viene illuminata non può mostrare il suo splendore. (E’ strano che come paragone si porti il diaspro che di per sé è una pietra opaca)
“È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.”
La città è cinta da grandi e alte mura con dodici porte che delimitano lo spazio in cui abitano al sicuro i suoi abitanti. Le porte indicano il movimento di entrata e uscita. Gli angeli che erano stati messi a guardia del paradiso perduto, ora stanno alle porte come guardia d'onore di Dio. Il numero dodici esalta le dodici tribù della prima Alleanza e i dodici Apostoli della seconda Alleanza, con i loro nomi scritti su dodici basamenti. Le misure (che non vengono riportate in questo brano) sono enormi e certamente simboliche. I materiali da costruzione, naturalmente anch’essi simbolici parlano di oro (il metallo divino) e di pietre preziose, dodici delle quali sono alle fondamenta della città santa. Tutto il resto della descrizione dalle mura di diaspro, alle porte di perle, ecc., indica uno splendore estremo.
Già il profeta Ezechiele aveva descritto il piano architettonico della città santa. Qui viene completato. Il numero 12 che si ripete significa la misura piena raggiunta dal mondo chiamato alla salvezza.
“In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio.”
La particolarità di questa città è il fatto che non vi è alcun tempio. Ormai la presenza del Signore è ovunque e non c'è più bisogno di cercare di incontrare il Signore in un luogo definito e neanche in un tempo particolare. I beati non sono più legati alle ore di lavoro e di riposo, loro unica occupazione è adorare il Signore e stare con Lui.
“La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello”. L'ordine delle cose è completamente cambiato, non vi è più giorno e notte, il sole e la luna non hanno più motivo di esistere. Tutto viene illuminato dallo splendore che viene da Dio: l'Agnello, cioè Cristo, è la sua lampada. E' attraverso di Lui che si può godere della gloria di Dio.
San Paolo diceva che noi siamo il tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi (v.1^Cor 3,16 ) e un altro suo commento che può adattarsi a questa descrizione potrebbe essere: “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti,” Ef 2.19-20)
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Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».
Gv 14,23-29
Questo brano è la parte finale del discorso di addio rivolto da Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena il cui inizio l’abbiamo meditato la scorsa domenica. Gesù, annunciando la Sua morte imminente, aveva assicurato che un giorno sarebbe ritornato. Ora invece parla del modo in cui i discepoli potranno continuare a gioire della Sua amicizia e della Sua presenza in questo periodo di separazione. Il discorso quindi non è più diretto ai discepoli presenti nel cenacolo, ma a quelli di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Gesù infatti non usa più il voi, ma parla in modo impersonale: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola …chi non mi ama, non osserva le mie parole…” Gesù rivendica per sé, per la prima volta, il sentimento più importante del mondo umano: l'amore, ed entra nella nostra parte più intima e profonda con estrema delicatezza. Tutto poggia su quel “se”.
«Se mi ami osserverai la mia parola…»… Gesù lo dice oggi ad ognuno di noi e non esprime un ordine, ma ci dà la possibilità di scegliere liberamente. E’ il rispetto che ha Dio, che bussa alla porta del nostro cuore e attende pazientemente la nostra risposta.
Poi Gesù continua : “Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.”
I discepoli potranno capire ciò che Gesù dice solo con l'intervento del Paraclito, il Consolatore, cioè lo Spirito Santo. E' grazie al Paraclito mandato dal Padre che i discepoli potranno penetrare in pieno il senso della Parola di Gesù.
Al termine del suo discorso, Gesù ritorna al momento presente, ai suoi discepoli da cui sta per separarsi, dicendo loro:”Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore”.
Lasciando i discepoli, Gesù non augura loro la pace, ma gliela dà in dono, come Sua eredità. La pace che Egli dona è molto diversa da quella che gli uomini si augurano e tentano di realizzare.
Non a caso Giovanni nel suo vangelo parla di pace solo nel contesto della passione e della risurrezione. Il dono della pace viene annunciato all'inizio della passione e si realizza nell'incontro di Gesù risorto con i discepoli nel cenacolo. Si tratta di un vero dono che viene solo da Dio, è solo opera di Dio che dona ai discepoli come segno della Sua presenza.
L’invito dunque rivoltoci da Gesù in questa ultima domenica di Pasqua è di credere alla Sua presenza in mezzo a noi, una presenza silenziosa, discreta, ma anche reale ed efficace. Una presenza capace di consolarci in ogni situazione della nostra vita.
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“Il Vangelo di questa VI domenica di Pasqua ci presenta un brano del discorso che Gesù ha rivolto agli Apostoli nell’Ultima Cena . Egli parla dell’opera dello Spirito Santo e fa una promessa: «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» . Mentre si avvicina il momento della croce, Gesù rassicura gli Apostoli che non rimarranno soli: con loro ci sarà sempre lo Spirito Santo, il Paraclito, che li sosterrà nella missione di portare il Vangelo in tutto il mondo. Nella lingua originale greca, il termine “Paraclito” sta a significare colui che si pone accanto, per sostenere e consolare. Gesù ritorna al Padre, ma continua ad istruire e animare i suoi discepoli mediante l’azione dello Spirito Santo.
In che cosa consiste la missione dello Spirito Santo che Gesù promette in dono? Lo dice Lui stesso: «Egli vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Nel corso della sua vita terrena, Gesù ha già trasmesso tutto quanto voleva affidare agli Apostoli: ha portato a compimento la Rivelazione divina, cioè tutto ciò che il Padre voleva dire all’umanità con l’incarnazione del Figlio. Il compito dello Spirito Santo è quello di far ricordare, cioè far comprendere in pienezza e indurre ad attuare concretamente gli insegnamenti di Gesù. E proprio questa è anche la missione della Chiesa, che la realizza attraverso un preciso stile di vita, caratterizzato da alcune esigenze: la fede nel Signore e l’osservanza della sua Parola; la docilità all’azione dello Spirito, che rende continuamente vivo e presente il Signore Risorto; l’accoglienza della sua pace e la testimonianza resa ad essa con un atteggiamento di apertura e di incontro con l’altro.
Per realizzare tutto ciò la Chiesa non può rimanere statica, ma, con la partecipazione attiva di ciascun battezzato, è chiamata ad agire come una comunità in cammino, animata e sorretta dalla luce e dalla forza dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Si tratta di liberarsi dai legami mondani rappresentati dalle nostre vedute, dalle nostre strategie, dai nostri obiettivi, che spesso appesantiscono il cammino di fede, e porci in docile ascolto della Parola del Signore. Così è lo Spirito di Dio a guidarci e a guidare la Chiesa, affinché di essa risplenda l’autentico volto, bello e luminoso, voluto da Cristo.
Il Signore oggi ci invita ad aprire il cuore al dono dello Spirito Santo, affinché ci guidi nei sentieri della storia. Egli, giorno per giorno, ci educa alla logica del Vangelo, la logica dell’amore accogliente, “insegnandoci ogni cosa” e “ricordandoci tutto ciò che il Signore ci ha detto”. Maria, che in questo mese di maggio veneriamo e preghiamo con devozione speciale come nostra madre celeste, protegga sempre la Chiesa e l’intera umanità. Lei che, con fede umile e coraggiosa, ha cooperato pienamente con lo Spirito Santo per l’Incarnazione del Figlio di Dio, aiuti anche noi a lasciarci istruire e guidare dal Paraclito, perché possiamo accogliere la Parola di Dio e testimoniarla con la nostra vita.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 maggio 2019
Siamo giunti alla quinta domenica di Pasqua e la liturgia ci propone delle letture che ci invitano a realizzare di più l’amore fraterno che “fa nuove tutte le cose” e rivela il vero volto di Dio. In questo giorno si celebra la giornata di sensibilizzazione per il sostegno economico della Chiesa cattolica.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, Paolo e Barnaba danno coraggio ai discepoli esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni».
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, Cristo risorto ha operato la piena trasformazione dell’uomo e del mondo. L’uomo, liberato dal male e dal peccato, è diventato “dimora di Dio” e l’orizzonte del mondo si apre su “un cielo nuovo e una terra nuova.”
L’aggettivo “nuovo” caratterizza anche il passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù nel contesto dell’ultima cena propone il Suo “comandamento nuovo”. Gesù lo fa rivolgendosi ai suoi discepoli chiamandoli teneramente “figlioli”. E’ l’unica volta che li chiama così e lo fa nel dare loro il Suo comandamento nuovo. Ed è nuovo perché è la clausola fondamentale e unica della “nuova alleanza”, annunziata già più di 500 anni prima dal profeta Geremia,(31,31-34) ed ora inaugurata dalla Pasqua di Cristo. E’ un amore che diventa l’unico segno di riconoscimento dell’appartenenza alla comunità di Gesù Cristo, la testimonianza più viva e autentica per chi vive e crede in Lui.
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.
Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiochia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta
della fede.
At 14, 21b-27
Il brano descrive la parte finale del primo viaggio missionario di Paolo (At 13-14), che presenta le caratteristiche della missione apostolica quando è diretta a comunità già formate.
L’attività di Paolo e Barnaba a Derbe, viene così descritta nel versetto precedente, non riportato nel brano: «Dopo aver annunciato il Vangelo a quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Icònio e Antiochia».
Con i due verbi “evangelizzare” e “fare discepoli” Luca mette in luce una feconda attività fatta soprattutto di contatti personali, che ha come risultato l’aggregazione di un buon numero di persone. Quando la comunità dà segno di poter continuare da sola il suo cammino, Paolo e Barnaba ritornano a Listra, Iconio e Antiochia di Pisidia.
Essi dunque ripercorrono a ritroso il cammino fatto e incontrano le comunità precedentemente fondate. Ciò offre loro l’occasione di incoraggiare i discepoli e di esortarli a “restare saldi nella fede, perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. Con queste parole, che non nascondevano la realtà, li rendevano consapevoli che la strada per entrare nel regno di Dio non era scevra da molte dure prove.
Luca aggiunge che in ogni comunità costituirono degli anziani (dei presbiteri). “e dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto.”
E’ da notare che l’elezione non viene fatta dalla comunità come si usava presso gli Ebrei della diaspora, ed è Luca che attribuisce a Paolo l’introduzione di una struttura che in realtà si è affermata solo qualche decennio dopo la sua morte.
Paolo e Barnaba attraversano poi la Pisidia e raggiungono la Panfilia dove evangelizzano Perge, la città dove Marco si era separato da loro. Scendono poi ad Attalìa e di lì raggiungono via mare Antiochia di Siria, là dove erano stati affidati alla grazia del Signore per l'impresa che avevano compiuto.
Ad Antiochia riuniscono la comunità e “riferiscono” tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come avevano aperto ai pagani la porta della fede.
Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.
Per far conoscere agli uomini le tue imprese
e la splendida gloria del tuo regno.
Il tuo regno è un regno eterno,
il tuo dominio si estende per tutte le generazioni.
Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
… Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22). ….
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.
E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse:
«Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Ap 21,1-5ª
Questo brano fa parte di quella sezione dell’Apocalisse in cui si descrive la definitiva e totale sconfitta del male, qui simbolicamente rappresentato dal mare (il mare, è il luogo di vita del drago e simbolo del male (Gb 7,12+), che, come al tempo del primo esodo, scomparirà, per sempre davanti alla marcia trionfale del nuovo popolo di Dio, che sarà definitivamente liberato da ogni tribolazione
Il brano inizia riportando la visione:
“Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più.”.
Nei versetti precedenti era stato descritto il giudizio finale in cui la morte e l'inferno vengono distrutti, gettati nel lago di fuoco come anche coloro che avevano fatto il male, cioè subivano la seconda morte. Dopo questo scenario di distruzione compare un cielo nuovo e una terra nuova, la nuova creazione. Tutto è stato ripreso in mano da Dio e ricreato, senza peccato, senza ribellione verso di Lui. Infatti il mare non c'era più. Nella concezione semitica il mare, profondo e misterioso, spesso caotico e abitato da animali enormi e spaventosi, è il simbolo del male.
“E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo”
In questa nuova creazione scende la "nuova Gerusalemme", simbolo della comunione del popolo con il suo Dio. La città santa viene da Dio, in essa appare ora in tutta la sua estensione la potenza e la grazia di Dio. E' adornata come una sposa, per il suo sposo.
“Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:«Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.”
Una voce che veniva in modo misterioso dal trono spiega la visione presentando la tenda di Dio con gli uomini.
Un tempo il Signore abitava nella Tenda e poi nel Tempio, poi nei tabernacoli della Nuova Alleanza. Quei simboli trovano ora il suo compimento: la Città santa è l'abitazione di Dio. Dio è presente direttamente in tutto, Dio e l'umanità si appartengono completamente, come un vincolo matrimoniale. Tutti i popoli finalmente sono entrati in comunione con Dio.
“E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate».
Questa immagine è straordinaria, che tocca nel profondo.: Dio asciugherà ogni lacrima, consola come soltanto Lui può consolare, non esorta a dimenticare bensì trasfigura le ferite. Tutto ciò che è passeggero, terrestre, doloroso, è stato trasformato nella nuova creazione. Il Dio che pone la tenda della Sua presenza in mezzo agli uomini è il vivente; in Lui non può sussistere né la sofferenza, né la morte!
“E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».
Chi siede sul trono è Dio che dichiara: Ecco, io faccio nuove tutte le cose. Egli che è l'onnipotente, fa nuove tutte le cose. Realizza pienamente tutto ciò che era iniziato con la redenzione di Cristo ed è stato realizzato all'interno della storia della salvezza. Al principio Dio … e al termine Dio! Il tempo è inglobato nell’eterno presente di Dio.
Dal vangelo secondo Giovanni
Quando Giuda fu uscito[dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Gv 13, 31-33a,34-35
Questo brano tratto dal capitolo 13 di Giovanni ci riporta nel contesto dell'ultima cena: Gesù e i discepoli sono nel cenacolo e Lui ha rivelato che uno di loro lo avrebbe tradito e su richiesta di Giovanni lo aveva indicato come colui che aveva intinto il boccone nel piatto insieme a Lui. In quel momento Satana era entrato in Giuda e Gesù gli aveva detto: "Quello che vuoi fare, fallo presto". Quindi Giuda esce, ed è notte.
E' un momento molto drammatico di forte tensione. Gesù, che fino a pochi momenti prima era profondamente turbato nel dire che uno dei suoi lo avrebbe tradito (Gv 13,21), ora invece sembra esultare per la gloria che gli è stata data già in quel momento.
“Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”. Il verbo “è stato glorificato” esprime il momento decisivo della missione di Gesù e si riferisce in modo totale alla Sua passione, morte, risurrezione e ascensione. È Dio che glorifica il Figlio dell’uomo; tuttavia si sottolinea anche che Dio stesso è glorificato “in lui” a motivo del dono volontario di sé con cui Gesù porta a compimento il suo disegno di salvezza. .
Il mistero della gloria di Dio è talmente profondo che in pochi versetti il verbo glorificare ritorna cinque volte e più volte anche “in lui” . Questo mistero della gloria ci manifesta un altro mistero: l'unità profonda che vi è tra il Padre e il Figlio. Il Figlio con la sua morte e risurrezione mostra a tutti la gloria del Padre, ma anche il Padre glorifica il Figlio poiché ha rinunciato alla sua gloria abbassandosi all'incarnazione e alla morte infamante della croce.
Non è il suo abbassamento che lo ha glorificato, ma il motivo per cui l'ha fatto: la salvezza degli uomini. Il Cristo aveva già la sua gloria (cf. Gv 17,5: Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse). Con l'incarnazione sembra averla abbandonata, ma di fatto tale gloria si manifesta in modo ancora più splendido in tutto ciò che Egli ha compiuto per il bene dell'umanità: ci ha fatto conoscere la grandezza di Dio e ci ha riscattato dal male e dalla morte.
“Figlioli, ancora per poco sono con voi”.
Con questo versetto inizia il discorso di addio di Gesù ai suoi discepoli. E’ stato saltato il versetto che dice: "voi mi cercherete, ma come ho già detto ai Giudei, lo dico ora anche a voi: dove vado io voi non potete venire” e si riferisce alla sua morte imminente. Gesù sta per andarsene e cerca di far capire ai suoi discepoli i motivi della separazione da loro, ma darà anche la promessa di un suo ritorno e della piena comunione che li unirà al loro maestro una volta compiuta la sua ora .
“Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.“ Il precetto dell’amore appare già nel contesto dell’alleanza del Sinai come compendio di tutta la legge (Lv 19,18.34), ma i profeti avevano predetto una nuova alleanza, in forza della quale la legge dell’amore non sarà più scritta su tavole di pietra, ma sul cuore del popolo (Ger 31,31-34; Dt 30,6; Ez 36,24-28). Ma la vera novità del comandamento di Gesù sta nel come bisogna amare: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.”
La particella “come” non stabilisce solo un confronto tra l’amore che i discepoli devono praticare e quello che Gesù ha avuto nei loro confronti, ma ne indica anche il fondamento e l’origine. Gesù diventa così la fonte e il modello dell’autentico amore cristiano.
In realtà la nuova legge è Gesù stesso in quanto esprime in termini umani l’amore di Dio.
Gesù conclude con questa affermazione: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”.
Gesù propone anche a noi oggi di amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amato, e se noi fossimo capaci di amare gli altri con l’intensità e la radicalità con cui ci ama Gesù Cristo-Dio, potremmo davvero cambiare la realtà, creare come i primi discepoli di Gesù una comunità su cui fondare il rinnovamento del mondo.
*****
“Nel Vangelo di oggi Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute». Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 15 maggio 2019
Papa Francesco ci ricorda ancora:
"Per Dio noi non siamo numeri, siamo importanti, anzi siamo quanto di più importante Egli abbia; anche se peccatori, siamo ciò che gli sta più a cuore. Lasciamoci avvolgere dalla misericordia di Dio; confidiamo nella sua pazienza che sempre ci dà tempo; abbiamo il coraggio di tornare nella sua casa, di dimorare nelle ferite del suo amore, lasciandoci amare da Lui, di incontrare la sua misericordia nei Sacramenti. Sentiremo la sua tenerezza, sentiremo il suo abbraccio e saremo anche noi più capaci di misericordia, di pazienza, di perdono, di amore“.
Con la quarta domenica di Pasqua ogni anno si celebra la 59^ Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni. Uniti a Papa Francesco chiediamo a Dio il dono di “sacerdoti innamorati del Vangelo” , capaci di farsi prossimi con i fratelli ed essere, così, segno vivo dell’amore misericordioso di Dio .
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli, ci viene descritta l’opera missionaria di Paolo e Barnaba ad Antiochia: i discepoli “pieni di gioia e di Spirito Santo” erano attivissimi nel formare una comunità unita. Di fronte alla reazione di rifiuto dei Giudei del luogo, essi dichiarano che si sarebbero rivolti per il futuro ai pagani annunciando loro il Vangelo.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, Cristo viene presentato come l’agnello sacrificale che si trasforma in pastore: l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù viene presentato come il Buon Pastore che afferma: “Le mie pecore ascoltano la mia voce”. In questi tempi così tribolati l’umanità intera ha sete di Cristo, che come buon Pastore, la conduce, la conosce, la custodisce e la guarisce. In Lui non dobbiamo temere il fallimento e la sconfitta e non dobbiamo fingere di essere migliori di come siamo nella realtà. Solo Lui ci promette la vita eterna e sa guidarci “alle fonti delle acque della vita” che guariscono ogni ferita, e asciugheranno ogni nostra lacrima. Solo Lui ci ama per quello che siamo, non per quello che vorremmo essere
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiochia in Pisìdia e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Barnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore:
“Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
At 13,14, 43-52
Dal capitolo 13 inizia una nuova suddivisione del libro degli Atti e la Chiesa d’Antiochia diventa il punto di partenza dell’opera che sta per compiersi fra le nazioni. Nel capitolo 9 viene riportato uno dei più gloriosi trionfi della grazia divina: la conversione di Saulo di Tarzo, folgorato sulla via di Damasco. Egli perseguitava i seguaci di Cristo in modo rigoroso e costante ed il viaggio che aveva intrapreso per Damasco aveva appunto lo scopo di smascherare e imprigionare gli adepti della nuova fede. Proprio mentre si stava recando in questa città fu avvolto da una luce ed udì una voce che gli disse “Saulo, Saulo, perché i perseguiti!”. Da quel momento egli nacque a nuova vita, cambiò tutto, anche il nome divenendo, Paolo l'Apostolo delle genti. Lui stesso in seguito affermerà “Io vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal. 2,20), ”.. Della vocazione di Saulo, Luca riporta tre relazioni, le cui divergenze nei particolari si spiegano secondo il diverso genere letterario usato. Il fatto è accaduto verosimilmente nel 36, dodici anni circa (o quattordici, secondo la maniera di computare degli antichi) prima del “concilio di Gerusalemme” (Gal 2,1s; cf. At 15), tenuto nel 49
In questo brano, che la liturgia ci presenta, vediamo Paolo e Barnaba, che dopo aver fatto la prima tappa all’isola di Cipro, giungono in Panfilia e proseguendo poi da Perge, arrivano ad Antiochia in Pisìdia. Ancora una volta si confrontano con i cristiani di Antiochia. ma mentre questa moltitudine di credenti sembra pendere dalle loro labbra, i Giudei, presi dalla gelosia, cercano di contraddire le loro affermazioni e il testo lo evidenzia: “i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo.” E' lo scontro penoso tra il cuore indurito di Israele e la docilità dei pagani, il rifiuto dei figli e l'assenso degli stranieri.
Il sabato seguente, Paolo e Barnaba non sono più all'interno della sinagoga e davanti a un pubblico esclusivamente giudeo, bensì tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Paolo e Barnaba allora dichiararono: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani”
Poi richiamando quanto diceva Isaia affermano: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”..(Is 49,6) per dimostrare come ogni distruzione delle barriere nazionali o razziali entri nel piano salvifico di Dio.
Il rifiuto giudaico del messaggio della salvezza portato dagli apostoli è il passaggio della promessa a una salvezza universale, rivolta a tutte le genti.
L'ostilità dei Giudei per Paolo e Barnaba sfocia nella persecuzione aperta e grazie all'influsso dei Giudei sui "notabili della città” e sulle "donne pie" del luogo, li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo”. L'episodio segna la rottura con l'ambiente giudaico, chiuso a una visione universalistica, e constatato il rifiuto, Paolo e Barnaba non si fermano, ma passano altrove, ai pagani.
La separazione viene espressa con il gesto di "scuotersi la polvere dai piedi“, che gli ebrei facevano quando rientravano da un territorio pagano, che li aveva resi "impuri".
Qui lo stesso gesto è rivolto ai "puri" per rivolgersi ai lontani. Per purezza si intende tutte quelle norme igieniche che erano scritte nella legge, da cui già i profeti avevano messo in guardia, dalla pratica dell'esteriorità che non rifletteva l'interno del cuore dell'uomo.
Il Vangelo è sempre passato e passa anche oggi continuamente attraverso i contrasti, le resistenze, le opposizioni più fanatiche. E' un "passaggio"inevitabile, che invece di bloccarlo lo spinge misteriosamente sempre altrove, verso gli "estremi confini della terra!“.
Salmo 99- Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida
Acclamate al Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore,
Il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.
Questo salmo è un invito a tutti i popoli della terra a riconoscere l'unico Dio e a servirlo, cioè obbedire al suo disegno, che ha come oggetto l'uomo stesso. Il salmista invita a servirlo nella gioia, cioè con la gratitudine, l'esultanza di chi si riconosce amato e salvato da Dio. Il salmista desidera che i popoli della terra riconoscano l'identità d Israele per poterne partecipare: “Riconoscete che solo il Signore è Dio: egli ci ha fatti e noi siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo”. L'invito al tempio di Gerusalemme non ha confini. E' un invito espresso nell'attesa messianica, poiché a Gerusalemme, per mezzo del Messia, avverrà la ricomposizione dell'unità tra tutti i popoli. I popoli pagani sono invitati a orientarsi al Dio di Israele, al vero Dio, la cui gloria dimora nel tempio di Gerusalemme: “Varcate le sue porte con inni di grazie, i suoi atri con canti di lode...”. Tutti devono benedire la sua identità, (il suo nome), perché Dio è buono, misericordioso, fedele alla sua parola alle sue promesse.
Nel giorno della Pentecoste veramente si è avverato un andare a Gerusalemme di tanti e tanti, che, non Giudei, avevano abbracciato la religione di Israele (At 2,9s). A questi - i proseliti - vanno aggiunti i timorati di Dio, che non intendevano giungere al rito della circoncisione e alla pratica rituale della legge mosaica (At 10,2).
Noi in Cristo invitiamo i popoli ad accogliere il messaggio di Cristo, a riconoscere il vero Dio e a far parte col battesimo della Chiesa, le cui porte e atri sono aperte all'ingresso di tutti i popoli.
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani.
E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.
Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi».
Ap. 7,9, 14b-17
Nel brano tratto dal capitolo 5 presentato nella III Domenica, Giovanni ci ha raccontato dell'Agnello che riceveva da Dio il libro chiuso da sette sigilli. Nel capitolo 6 l'Agnello apre i primi sigilli ed ad ogni apertura corrisponde la realizzazione progressiva dei decreti di Dio. Volta per volta vengono rivelati coloro che devono realizzare questi decreti: i quattro cavalieri, i martiri con il loro invito alla giustizia, il cosmo, gli Angeli e i Santi con le loro preghiere.
Prima dell'apertura del settimo sigillo vi è una pausa. Gli angeli vengono mandati sulla terra a mettere un segno per distinguere gli eletti di Dio. Questo segno li pone sotto la protezione di Dio, grazie al Suo aiuto essi potranno resistere alle prove della persecuzione. Giovanni poi vede la schiera dei beati che si trova già in cielo, la Chiesa trionfante ed è questa descrizione che il brano di questa domenica riporta.
“Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani”.
I beati del cielo sono una folla immensa, che non si può calcolare e neanche si può esprimere nemmeno con un numero simbolico. Provengono da tutte le parti del mondo. Essi stanno in piedi, che è l'atteggiamento dell'uomo vivo e libero. Le “vesti candide” sono simbolo della gloria del cielo e le palme sono simbolo di vittoria.
“E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello.”
Nei versetti che il brano non riporta, uno degli anziani chiede a Giovanni chi siano queste persone e Giovanni a sua volta lo chiede all'anziano. Si tratta di coloro che hanno perseverato nel momento della prova. Essi hanno potuto resistere solo grazie al sangue di Cristo, alla sua redenzione, a cui hanno potuto accedere grazie alla fede e ai sacramenti.
“Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro.”
Giovanni contempla la condizione dei beati: essi stanno sempre davanti al trono di Dio e “gli prestano servizio giorno e notte”, cioè celebrano di continuo le Sue lodi mentre Dio stende la Sua tenda su di loro, cioè si prende cura di loro.
“Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna”,
Essi non hanno più alcuna necessità, né soffrono per i problemi che avevano durante la vita terrena.
“perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.
L'Agnello diventa pastore, prendendosi cura dei beati, è Lui che li conduce alle acque della vita, cioè alla beatitudine e alla vita in pienezza. Verranno anche ammessi a questi beni celesti, ma se questo non bastasse a cancellare le sofferenze che hanno subito in vita, il Signore stesso asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. Dio come padre pieno di compassione, saprà consolare il loro animo da ogni dolore, saprà sanare ogni male che i Suoi eletti hanno dovuto subire. Il Signore che ha chiamato i Suoi, sa custodirli fino alla fine. E’ un'immagine stupenda, sublime, molto tenera e consolante!.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Gv 10, 27-30
Questo brano tratto dal capitolo 10 del Vangelo di Giovanni è la continuazione del tema “Gesù, Buon pastore” (meditato nella IV domenica di Pasqua – anno A e anno B) e cerca di indicare il fine dell’agire amoroso di Gesù
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”. Questo versetto, mette in rilievo la relazione che esiste tra le pecore e il pastore. Non si tratta certo di una conoscenza superficiale, anagrafica. Nella Bibbia il verbo "conoscere" significa una relazione d'amore personale, profonda; una relazione che supera l'intimità della stessa relazione nuziale e la tenerezza di una madre o di un padre nei confronti del proprio figlio.. Nel versetto precedente aveva detto ai Giudei che loro non erano le sue pecore e qui dice, non chi sono le pecore, ma cosa esse fanno: “ascoltano”!.
Nella Bibbia il verbo (shema’) indica sia "ascoltare" che "obbedire". Quindi “shema’ Israel”, non è soltanto "ascolta, Israele!", ma anche “aderisci, resta unito!". C’è da tener presente un particolare che in Israele, a differenza dei paesi d’Europa, gli ovini sono allevati non per la carne, ma per il latte e la lana, le pecore perciò rimanevano per anni e anni in compagnia del pastore che finiva per conoscere il carattere di ognuna e chiamarla con qualche nomignolo affettuoso. Gesù con queste immagini vuole comunicare che egli conosce i suoi discepoli (e come Dio tutti gli uomini) li conosce per nome, nel profondo nel loro intimo. Egli li ama con un amore unico, speciale, che raggiunge ciascuno come se fosse il solo ad esistere davanti a lui.
“Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano” Nel linguaggio giovanneo “vita eterna” non allude tanto a un’infinita distesa di anni, a un’immortalità dell’anima, è invece la stessa vita divina, è la comunione di vita, di pace, di essere con Dio stesso.
“Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti “ Come creature noi apparteniamo a Dio; da Lui viene la nostra esistenza , è Lui che ci conosce sin dall’’inizio del mondo e proprio perché questa vita ci viene da Lui, è protetta e custodita da Lui.
“e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Sono le parole di speranza, di difesa che afferma Gesù nei riguardi dei suoi fedeli. Ogni uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato, come canta il Salmista (V. Sal 118), quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle mani pronte ad accogliere, anche, i figli che si allontanano e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima, quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.
“Io e il Padre siamo una cosa sola”. Gesù affermando: “Io e il Padre siamo una cosa sola” vuole sottolineare che in effetti il Padre e Lui sono una cosa sola
Oggi Gesù ha bisogno di persone per portare la salvezza sino ai confini della terra. Ha bisogno di persone che con la loro esistenza totalmente consacrata a Lui sappiano annunciare il futuro di felicità che ci attende. Ognuno, in qualunque stato di vita, ha la sua chiamata specifica a essere “testimoni del Suo Amore”, cioè responsabile del servizio che fanno. . E' questo il significato della Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni. Il Papa sottolinea appunto, nel suo messaggio, la preghiera insistente e fervorosa al "Padrone della messe perché mandi operai".
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“Nel Vangelo di oggi Gesù si presenta come il vero Pastore del popolo di Dio. Egli parla del rapporto che lo lega alle pecore del gregge, cioè ai suoi discepoli, e insiste sul fatto che è un rapporto di conoscenza reciproca. «Le mie pecore – dice – ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute». Leggendo attentamente questa frase, vediamo che l’opera di Gesù si esplica in alcune azioni: Gesù parla, Gesù conosce, Gesù dà la vita eterna, Gesù custodisce.
Il Buon Pastore – Gesù – è attento a ciascuno di noi, ci cerca e ci ama, rivolgendoci la sua parola, conoscendo in profondità i nostri cuori, i nostri desideri e le nostre speranze, come anche i nostri fallimenti e le nostre delusioni. Ci accoglie e ci ama così come siamo, con i nostri pregi e i nostri difetti. Per ciascuno di noi Egli “dà la vita eterna”: ci offre cioè la possibilità di vivere una vita piena, senza fine. Inoltre, ci custodisce e ci guida con amore, aiutandoci ad attraversare i sentieri impervi e le strade talvolta rischiose che si presentano nel cammino della vita.
Ai verbi e ai gesti che descrivono il modo in cui Gesù, il Buon Pastore, si relaziona con noi, fanno riscontro i verbi che riguardano le pecore, cioè noi: «ascoltano la mia voce», «mi seguono». Sono azioni che mostrano in che modo noi dobbiamo corrispondere agli atteggiamenti teneri e premurosi del Signore. Ascoltare e riconoscere la sua voce, infatti, implica intimità con Lui, che si consolida nella preghiera, nell’incontro cuore a cuore con il divino Maestro e Pastore delle nostre anime. Questa intimità con Gesù, questo essere aperto, parlare con Gesù, rafforza in noi il desiderio di seguirlo, uscendo dal labirinto dei percorsi sbagliati, abbandonando i comportamenti egoistici, per incamminarci sulle strade nuove della fraternità e del dono di noi stessi, ad imitazione di Lui.
Non dimentichiamo che Gesù è l’unico Pastore che ci parla, ci conosce, ci dà la vita eterna e ci custodisce. Noi siamo l’unico gregge e dobbiamo solo sforzarci di ascoltare la sua voce, mentre con amore Egli scruta la sincerità dei nostri cuori. E da questa continua intimità con il nostro Pastore, da questo colloquio con Lui, scaturisce la gioia di seguirlo lasciandoci condurre alla pienezza della vita eterna.
Ci rivolgiamo ora a Maria, Madre di Cristo Buon Pastore. Lei, che ha risposto prontamente alla chiamata di Dio, aiuti in particolare quanti sono chiamati al sacerdozio e alla vita consacrata ad accogliere con gioia e disponibilità l’invito di Cristo ad essere suoi più diretti collaboratori nell’annuncio del Vangelo e nel servizio del Regno di Dio in questo nostro tempo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 12 maggio 2019
La liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci presenta la fragilità dell’umanità di Pietro e nello stesso tempo la forza della sua fede che diventa esempio per ogni discepolo di Cristo.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, vediamo come Pietro, e gli altri discepoli nell’aula processuale del Sinedrio a Gerusalemme testimoniano senza esitazione il loro amore e la loro fede nel Cristo risorto. Anche se questa testimonianza li ha condannati ad essere fustigati, loro dopo se ne vanno “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù”.
Nella seconda lettura, tratta dal libro dell’Apocalisse, la visione dell’apostolo Giovanni ci trasporta in una solenne liturgia di lode: davanti al trono di Dio appare l’agnello ”ritto…come immolato” e in suo onore si leva un inno di acclamazione nel quale si fondono le voci degli angeli e dei santi che stanno davanti a Dio.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù si manifesta di nuovo ai discepoli sul lago di Tiberiade ed essi lo riconoscono dopo la pesca miracolosa. Gesù fermandosi sulla riva del lago a cuocere il pesce per loro, si presenta ancora come uno che serve, perché il risorto è tutto amore, ed è sull’amore che interroga Pietro. Di fronte alla debolezza di Pietro, in cui ci riconosciamo tutti, commuove la fiducia che Gesù continua a dargli. Quel dialogo umano fra Gesù e Pietro lo dovremmo sempre ricordare perché ci dice che Gesù, nello stesso modo accoglierà noi quando ci pentiamo dei nostri errori.. come dice Papa Francesco, il Signore non si stanca mai di perdonarci, siamo noi a volte che ci stanchiamo di chiedere perdono!
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, il sommo sacerdote interrogò gli apostoli dicendo: «Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome? Ed ecco, avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».
Rispose allora Pietro insieme agli apostoli: «Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono».
Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù.
At, 5,27b-32.40b-41
Luca in questo brano descrive il coraggio con il quale gli apostoli, e in particolare Pietro, mossi dalla forza dello Spirito rendono testimonianza al loro Maestro. L’antefatto del brano che abbiamo si svolge nell’aula del Sinedrio di Gerusalemme: il sommo sacerdote si era rivolto agli apostoli e, senza indagare sulla loro misteriosa liberazione, li aveva rimproverati perché, invece di obbedire al comando, dato precedentemente a Pietro e Giovanni, di non insegnare nel nome di Gesù, essi avevano riempito Gerusalemme della loro dottrina, con lo scopo di “far ricadere su di loro”, cioè sui membri del sinedrio, il sangue di quell’uomo. (L’espressione “far ricadere il sangue di una persona su..” significa attribuire a qualcuno la responsabilità di un crimine, scatenando la vendetta del sangue innocente ossia il castigo divino).
Il sinedrio è evidente che rifiuta questa responsabilità, e Luca ne è persuaso, come già Pietro stesso aveva affermato precedentemente (2,23; 3,13-15), che i giudei sono colpevoli della morte di Gesù. Non si tratta però del popolo ebraico nella sua totalità e tanto meno di quello delle epoche successive, ma di coloro che avevano partecipato direttamente o indirettamente alle vicende della passione. Per loro riconoscere la propria colpa significa arrivare alla conversione, cosa che il sommo sacerdote e il sinedrio non intendono fare.
Pietro a nome degli altri apostoli testimonia senza esitazione il suo amore e la sua fede nel Cristo risorto affermando decisamente: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini ...” sottolineando così che l'obbedienza a Dio va oltre ad ogni dovere umano, poi continua dicendo: Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono»
E con l’affermazione finale “E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a quelli che gli obbediscono” Pietro ritorna così al concetto iniziale, lasciando comprendere che agli apostoli compete ora, in quanto si sono sottomessi a Dio, quell’autorevolezza che i membri del sinedrio hanno perso.
Il brano non riporta l’irritazione dei membri del sinedrio, i quali si calmano solo in seguito all’intervento del maestro Gamaliele, il quale fa osservare che se il movimento rappresentato dagli apostoli, viene dagli uomini, non avrà futuro, ma se invece viene da Dio nessuno potrà fermarlo.
Alla fine il sinedrio adotta la linea suggerita da Gamaliele e lascia liberi gli apostoli, non prima però di averli fatti fustigare e di aver ordinato loro ancora una volta di non continuare a parlare nel nome di Gesù. Ma essi se ne vanno felici di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù perchè così si sentivano più vicini al loro Maestro.
Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato.
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!».
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo.
Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,onore, gloria e benedizione».
Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello
lode, onore, gloria e potenza,nei secoli dei secoli».
E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione.
Ap 5,11-14
Il capitolo 5 dell’Apocalisse, da dove è tratto il nostro brano liturgico, si apre con una domanda, contenuta in un libro a forma di rotolo, che tiene in sospeso l’universo: “Chi è degno di aprire il libro e scioglierne i sigilli?”, ossia “ chi eserciterà il giudizio?” Giovanni non può fare a meno di piangere perchè si rende conto che “nessuno né in cielo, né in terra, né sotto terra era in grado di aprire il libro”. Viene però consolato dalle parole di un vegliardo che gli dice: “Non piangere; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli”. Uno solo dunque può farlo: colui che è senza peccato ed ha vinto Satana e il mondo con la Sua stessa perfezione. E’ Cristo questo “Leone della tribù di Giuda”!
Ma, subito dopo, Cristo è visto sotto l’aspetto di “un Agnello, in piedi, come immolato”. Il linguaggio dell’Apocalisse è alquanto sconcertante, ma è proprio così, Cristo è nello stesso tempo il vincitore e la vittima sacrificata, il leone e l’agnello.
Poi c’è la descrizione dell’’Agnello: “ aveva sette corna e sette occhi, i quali sono i sette spiriti di Dio mandati su tutta la terra.” Le sette corna indicano la potenza vittoriosa dell’Agnello, mentre i sette occhi indicano la pienezza dello Spirito Santo, che Gesù possiede e che insieme al Padre invia su tutta la terra. “E l’Agnello giunse e prese il libro dalla destra di Colui che era seduto sul trono”. A questo punto, i quattro esseri viventi e i ventiquattro anziani si prostrano davanti all’Agnello, con in mano coppe ricolme del profumo effuso dalle preghiere dei santi e “cantavano un canto nuovo”. E’’ il canto di lode e di ringraziamento per la redenzione operata da Cristo, la nuova creazione “ hai fatto di loro per il nostro Dio un regno di sacerdoti e regneranno sopra la terra
Da qui inizia il brano liturgico
“Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia”
Qui Giovanni continua a descrivere la sua visione: egli si trova davanti alla corte celeste, vede il trono di Dio, attorno al quale vi sono 24 seggi sui cui sedevano 24 anziani. ( Per gli esperti essi rappresentano le comunità dei cristiani, per altri sono la storia dell'umanità) Vi sono i quattro esseri viventi (4,6-8) che la tradizione cristiana da sant’Ireneo, vi ha visto il simbolismo dei quattro evangelisti. Ma probabilmente Giovanni prende ispirazione dalle visioni di Ezechiele, dove i quattro animali reggono il trono di Dio e rappresentano il mondo creato. Gli angeli che attorniano il trono sono miriadi di miriadi. Le miriadi (10.000 unità) erano le unità militari. Tutto l'esercito del cielo è attorno al trono di Dio, al Suo servizio.
“e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione». e dicevano a gran voce: «L’Agnello, che è stato immolato, è degno di ricevere potenza e ricchezza”. Gli anziani e gli esseri viventi cantano un canto nuovo all'Agnello e ad essi si uniscono ora le voci degli angeli. L'Agnello che è una figura di Cristo, è stato ucciso per la salvezza, non solo di Israele, ma di tutti i popoli della terra. Ecco perché il canto celebra la Sua dignità, Egli è degno di ricevere da Dio “potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione”. Sono sette , il numero della pienezza!. L'Agnello proprio perché è stato immolato merita di ricevere ogni cosa.
“Tutte le creature nel cielo e sulla terra, sotto terra e nel mare, e tutti gli esseri che vi si trovavano, udii che dicevano: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli».E i quattro esseri viventi dicevano: «Amen». E gli anziani si prostrarono in adorazione”. Infine tutte le creature del mondo si uniscono a questo canto e come in un ritornello attribuiscono non solo all'Agnello, ma anche a Dio delle prerogative simili, per tutti i secoli. L'inno di lode è sceso fino a sotto la terra e nel fondo del mare, poi ritorna nei cieli, con i quattro esseri viventi che rispondono: Amen, e con gli anziani si prostrano in adorazione.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberiade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatre grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?».
Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
Gv 21, 1-19
Il 20^capitolo del Vangelo di Giovanni riporta il racconto delle apparizioni di Gesù ai discepoli nel Cenacolo e al termine c’è una breve conclusione da far sembrare che il Vangelo fosse terminato. Invece nel capitolo successivo, da dove è tratto questo brano, viene riportato il racconto di un’ulteriore apparizione di Gesù risorto, questa volta non più a Gerusalemme ma in Galilea.
Qui si racconta che sei discepoli di Gesù con Simon Pietro, vanno a pescare riprendendo così in un certo senso la vita di prima. Pescano tutta la notte, ma senza risultato! (La notte è simbolo dell’assenza di Gesù, luce del mondo: per questo il risultato della pesca è vano).
All’alba Gesù appare loro sulla riva, ma essi non lo riconoscono. Egli si rivolge a loro in modo affettuoso: “Figlioli, non avete nulla da mangiare?” e alla loro risposta negativa dà loro più che un suggerimento, un comando: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”. Questa precisa indicazione, evidenzia come la pesca abbondante non sia frutto di casualità, ma dell’intervento di Gesù, che ha indicato Lui stesso dove gettare le reti. Essi obbediscono e la rete si riempie di pesci, senza per questo spezzarsi.
Allora il discepolo che Gesù amava lo riconosce e dice a Pietro: “È il Signore”.
L'evangelista, anche qui, non lo chiama col suo nome, ma lo designa ancora una volta come "il discepolo che Gesù amava" per indicare in lui ogni vero discepolo che è oggetto dell'amore personale di Gesù e a sua volta risponde a tanto amore.
Sentito ciò, Pietro si getta in mare per poter raggiungere prima Gesù sulla riva; ritroviamo in questo gesto l’indole passionale e spontanea di Pietro.
Intanto arrivano anche gli altri discepoli trascinando la rete piena di pesci. Arrivati a terra, i discepoli vedono che è già pronto un fuoco con sopra del pesce e del pane. Gesù dice allora di portare un po’ del pesce che hanno appena preso.
Pietro, salito sulla barca, porta a terra la rete, nella quale vi sono centocinquantatre grossi pesci. (Il numero 153 ha una portata simbolica. Pare che a quell'epoca i naturalisti distinguessero 153 specie di pesci. Una missione quindi universale: raccogliere la grande varietà di popoli e razze umane nell'unità della Chiesa, simboleggiata dall'unica rete che non si spezza, nonostante la grandissima quantità di pesci).
Poi Gesù li invita a mangiare. Nessuno di loro osa chiedergli chi è “perché sapevano bene che era il Signore”. Gesù dà loro del pane e del pesce, e improvvisa così un banchetto in cui mangia anche Lui con i suoi discepoli la sua porzione di pesce arrostito.
L’evangelista conclude il racconto sottolineando che si trattava della terza volta in cui Gesù si era manifestato a loro dopo la sua risurrezione dai morti.
Il brano però prosegue riportando un dialogo tra Gesù e Pietro che inizia con la domanda di Gesù: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”una domanda ripetuta per ben tre volte, nonostante la risposta affermativa dell'apostolo; una domanda che sembra voler dare a Pietro l’occasione, per cancellare il ripetuto tradimento, nei giorni della Passione.
”Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene!”’ è la triplice risposta di Pietro, al quale Gesù affida il compito di condurre e confermare i fratelli nella fede e a guidare il nuovo popolo di Dio, che è la Chiesa, quella mistica rete stracolma di pesci che, tuttavia, non si rompe per il carico che porta.
Pietro è stato interrogato sull'amore per il suo Signore, e anche noi lo siamo, ogni giorno per tutto l'arco della nostra vita, come Pietro siamo chiamati ad ascoltare l'invito di Gesù che non si stanca di ripete ad ognuno : «Seguimi!».
Affidando dunque a Pietro il compito di pascere la Sua Chiesa, Gesù gli chiede una professione di fede e di amore perchè se lo amerà veramente sarà anche in grado di amare il suo gregge, saprà servirlo con la premura del responsabile e nello stesso tempo con il distacco del servo. Riuscirà a non cadere nella tentazione di spadroneggiare sulle persone a lui affidate, ma saprà farsi modello del gregge.
Dopo aver affidato a Pietro il ruolo di pastore, Gesù aggiunge: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi”.
L’evangelista (che scrive intono al 90 perciò dopo la morte di Pietro) aggiungendo “questo gli disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio”, vuole sottolineare una predizione di Gesù sul martirio di Pietro: è questa infatti la meta a cui porta non solo la sequela di Cristo, ma anche la condivisione del Suo ruolo di pastore.
*****
“Il Vangelo di oggi narra la terza apparizione di Gesù risorto ai discepoli, sulla riva del lago di Galilea, con la descrizione della pesca miracolosa. Il racconto è collocato nella cornice della vita quotidiana dei discepoli, tornati alla loro terra e al loro lavoro di pescatori, dopo i giorni sconvolgenti della passione, morte e risurrezione del Signore. Era difficile per loro comprendere ciò che era avvenuto. Ma, mentre tutto sembrava finito, è ancora Gesù a “cercare” nuovamente i suoi discepoli. E’ Lui che va a cercarli. Questa volta li incontra presso il lago, dove loro hanno passato la notte sulle barche senza pescare nulla. Le reti vuote appaiono, in un certo senso, come il bilancio della loro esperienza con Gesù: lo avevano conosciuto, avevano lasciato tutto per seguirlo, pieni di speranza… e adesso? Sì, lo avevano visto risorto, ma poi pensavano: “Se n’è andato e ci ha lasciati … E’ stato come un sogno…”.
Ma ecco che all’alba Gesù si presenta sulla riva del lago; essi però non lo riconoscono. A quei pescatori, stanchi e delusi, il Signore dice: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». I discepoli si fidarono di Gesù e il risultato fu una pesca incredibilmente abbondante. A questo punto Giovanni si rivolge a Pietro e dice: «È il Signore!». E subito Pietro si tuffa in acqua e nuota verso la riva, verso Gesù.
In quella esclamazione: “E’ il Signore!”, c’è tutto l’entusiasmo della fede pasquale, piena di gioia e di stupore, che contrasta fortemente con lo smarrimento, lo sconforto, il senso di impotenza che si erano accumulati nell’animo dei discepoli. La presenza di Gesù risorto trasforma ogni cosa: il buio è vinto dalla luce, il lavoro inutile diventa nuovamente fruttuoso e promettente, il senso di stanchezza e di abbandono lascia il posto a un nuovo slancio e alla certezza che Lui è con noi.
Da allora, questi stessi sentimenti animano la Chiesa, la Comunità del Risorto. Tutti noi siamo la comunità del Risorto! Se a uno sguardo superficiale può sembrare a volte che le tenebre del male e la fatica del vivere quotidiano abbiano il sopravvento, la Chiesa sa con certezza che su quanti seguono il Signore Gesù risplende ormai intramontabile la luce della Pasqua. Il grande annuncio della Risurrezione infonde nei cuori dei credenti un’intima gioia e una speranza invincibile. Cristo è veramente risorto! Anche oggi la Chiesa continua a far risuonare questo annuncio festoso: la gioia e la speranza continuano a scorrere nei cuori, nei volti, nei gesti, nelle parole. Tutti noi cristiani siamo chiamati a comunicare questo messaggio di risurrezione a quanti incontriamo, specialmente a chi soffre, a chi è solo, a chi si trova in condizioni precarie, agli ammalati, ai rifugiati, agli emarginati. A tutti facciamo arrivare un raggio della luce di Cristo risorto, un segno della sua misericordiosa potenza.
Egli, il Signore, rinnovi anche in noi la fede pasquale. Ci renda sempre più consapevoli della nostra missione al servizio del Vangelo e dei fratelli; ci riempia del suo Santo Spirito perché, sostenuti dall’intercessione di Maria, con tutta la Chiesa possiamo proclamare la grandezza del suo amore e la ricchezza della sua misericordia.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 10 aprile 2016
La prima domenica dopo Pasqua, prima di chiamarsi della Divina Misericordia, era chiamta "domenica in albis". Questo nome era dovuto perché ai primi tempi della Chiesa il battesimo era amministrato durante la notte di Pasqua, ed i battezzandi indossavano una tunica bianca che portavano poi per tutta la settimana successiva, fino alla prima domenica dopo Pasqua, detta perciò "domenica in cui si depongono le vesti bianche" ("in albis depositis"). Questa domenica dal 2000 è stata proclamata Festa della Divina Misericordia per volontà del Papa Giovanni Paolo II, come testimonia la sua seconda Enciclica “Dives in Misericordia”, scritta nel 1980.
Le letture liturgiche però non hanno subito variazioni.
Nella prima lettura tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca sottolinea la crescita della prima comunità, la giovane Chiesa delle origini, che con gioia testimonia la fede nel Risorto, suscitando lo stupore della gente. Colpisce l’immagine dei malati che si accostano a Pietro per farsi almeno coprire con la sua ombra nella speranza della guarigione.
Nella seconda lettura tratta dal libro dell’Apocalisse, Gesù risorto appare a Giovanni in visione come giudice universale, e gli affida la missione per le sette Chiese, raffigurate simbolicamente in sette candelabri d’oro. A Giovanni quasi privo di sensi Gesù lo rassicura dicendo: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente…” Gesù è l’eterno vivente e ad ogni celebrazione liturgica noi lo possiamo incontrare!
Il Vangelo di Giovanni riporta l’incontro di Gesù risorto con gli apostoli e il Suo saluto: Pace a Voi ! L’episodio di Tommaso, con i suoi umanissimi dubbi, è particolarmente utile per tutti coloro che, specialmente in questi tempi sempre più difficili, procedono a tentoni alla ricerca di Dio. Tommaso alla fine è stato in grado di proclamare la sua fede con una purezza straordinaria, forse la più alta del quarto Vangelo: “Mio Signore e mio Dio!”
Dagli Atti degli Apostoli
Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava.
Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti.
At 5,12-16
Questo brano è uno (il terzo) dei cosiddetti “sommari” che Luca ha inserito all’interno degli Atti per fare il punto del racconto e per offrirne quasi una guida di lettura e di comprensione.
Inizia riportando che “Molti segni e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli.” La stessa frase la troviamo espressa in modo similare nel primo sommario sulla vita della comunità (V 2,43b).
“Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; “ Qui si precisa che tutti si ritrovavano nel portico di Salomone e Luca osserva che essi formavano un gruppo abbastanza chiuso, in quanto “nessuno degli altri osava associarsi a loro,” e precisa ulteriormente, che il popolo li esaltava ossia che era loro favorevole.
A questa constatazione aggiunge che “Sempre più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e di donne,” ossia che aumentava il numero non solo di uomini, ma anche di donne che credevano nel Signore.
“tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle, perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro.” Qui vengono spiegati gli effetti dei prodigi compiuti dagli apostoli sulla gente. Anche se la descrizione è chiaramente esagerata, c’è da tener presente che l’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri, per cui si portavano gli ammalati nelle piazze, si ponevano su lettucci e giacigli, nella speranza che, al giungere di Pietro, la sua ombra coprisse qualcuno di loro.
Poi Luca aggiunge che “Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti. “
Questa descrizione ricorda l’attività di Gesù (Lc 6,17-19) ed anche quella di Paolo a Efeso (At 19,11.12).
Come il loro maestro, anche gli apostoli annunziano la venuta del regno di Dio più con i segni che con le parole, noncuranti dei fenomeni di superstizione che accompagnavano inevitabilmente la loro opera taumaturgica.
La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita.
Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non infastidire i detentori del potere.
Salmo 117 - Rendete grazie al Signore perché è buono:il suo amore è per sempre
Dica Israele:«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Ti preghiamo, Signore: dona la salvezza!
Ti preghiamo, Signore: dona la vittoria!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Il Signore è Dio, egli ci illumina.
Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi. Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici. Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male. Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”. Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore. Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da “Perfetta Letizia"
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese».
Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.
Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo, e il Vivente.
Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi. Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».
Ap 1,9-11a, 12-13, 17-19
L’Apocalisse di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, si compone di 22 capitoli, ed è uno dei testi più controversi e difficili da interpretare. Appartiene al gruppo di scritti neotestamentari noto come “letteratura giovannea“, in quanto redatta, intorno all’anno 95, verso la fine dell'impero di Domiziano, dai discepoli dell’apostolo che si sono ispirati al suo insegnamento.
I libri che hanno di più influenzato l'Apocalisse sono i libri dei Profeti Daniele, Ezechiele, Isaia, Zaccaria e poi anche il Libro dei Salmi. L'autore presenta sé stesso come Giovanni, esiliato a Patmos, isola dell‘Egeo, a circa 70 km da Efeso, a causa della parola di Dio. Secondo alcuni studiosi, la stesura definitiva del libro, anche se iniziata durante l'esilio dell’autore, sarebbe avvenuta ad Efeso.
Questo brano presenta la prima rivelazione avuta da Giovanni, durante un’estasi:
“Io,Giovanni, vostro fratello e compagno nella tribolazione, nel regno e nella perseveranza in Gesù, mi trovavo nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù.” Giovanni inizia la sua testimonianza dando alcune indicazioni su di sé, così sappiamo che scrive mentre si trova in esilio nell'isola di Patmos, presso Efeso. Si dichiara fratello e compagno dei cristiani a cui si rivolge in tre ambiti differenti. Il primo è la tribolazione, le persecuzioni che tutti loro stanno soffrendo. Il secondo è il regno, perché sa di essere unito nel regno di Dio con i suoi fratelli in Cristo. Terzo: la perseveranza nell'attesa di Gesù, perché egli aspetta con costanza e fede il Signore che tornerà e porterà tutto a perfezione.
“Fui preso dallo Spirito nel giorno del Signore e udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese»”.
Giovanni ha fatto un'esperienza straordinaria e qui la racconta. Il giorno del Signore è la domenica, e il fatto che lui lo evidenzia in modo così solenne ci deve far pensare che non sia una semplice indicazione di tempo, bensì un'importante intervento del Signore nella storia. Il giorno del Signore ci ricorda anche la Pasqua, il trionfo di Gesù sulla morte, e l'annuncio della Parusia, il ritorno glorioso di Cristo.
Giovanni proprio in questo giorno dunque viene rapito in estasi e lo Spirito di Dio lo mette in contatto con un mondo soprannaturale. Egli sente una voce “come di tromba”!. La tromba era lo strumento musicale più forte e nella sacra scrittura viene associato spesso alla manifestazione del divino. La voce lo invita a prendere nota di quello che vede e di comunicarlo alle sette chiese dell'Asia minore (il brano liturgico non riporta i versetti con il nome delle chiese).
“Mi voltai per vedere la voce che parlava con me, e appena voltato vidi sette candelabri d’oro”
Giovanni deve voltarsi, cioè deve lasciare la terra per rivolgersi a Dio. I sette candelabri d'oro ci ricordano il candelabro a sette bracci che nel Tempio bruciava senza interruzione davanti a Dio (Es 25,31-40).
Anche il profeta Zaccaria utilizzerà il simbolo del candelabro e Giovanni si ispira molto a questo profeta
“in mezzo ai candelabri, uno simile a un Figlio d’uomo, con un abito lungo fino ai piedi e cinto al petto con una fascia d’oro.”
Il Figlio d'uomo è una definizione che troviamo per la prima volta nel libro del profeta Daniele (7,13-14) e che è stata utilizzata dall'apocalittica ebraica per designare un essere misterioso, esecutore escatologico del disegno di Dio e titolare dell'autorità regale e giudiziaria. Gesù stesso ha utilizzato questo termine per indicare se stesso, quindi questo personaggio misterioso è Cristo che appare in tutta la sua gloria. La veste talare indica il sacerdozio e la cintura d'oro la regalità.
Il brano liturgico non riporta i versetti 14-16 in cui si dice che il personaggio aveva i capelli bianchi (che sono simbolo di eternità), era splendente come il sole, teneva in mano sette stelle e dalla bocca gli usciva come una spada acuminata (simbolo della Parola di Dio).
“Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la sua destra, disse: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”.
Giovanni cade come morto e la sua reazione causata dalla paura è sempre quella dell'essere umano quando si trova al cospetto del divino. Ma il Signore lo esorta a non temere e lo richiama alla vita.
Egli è il Primo, l’Ultimo e il Vivente, tre definizioni che rivelano il volto autentico del Risorto. Egli è la sorgente e la fine della storia, egli è la fonte della vita che non può essere cancellata dalla morte. Non solo, ha anche potere sulla morte e sull‘oltretomba. Queste prerogative gli sono state date perché si è sottoposto alla morte di croce e con la sua resurrezione ha vinto la morte.
“Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito».”
Giovanni riceve dunque un mandato importante. Ha già visto qualcosa, vedrà altre cose riguardanti il presente e il futuro, egli deve scrivere tutto e comunicarlo ai suoi fratelli nella fede
Dal vangelo secondo Giovanni
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!». Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Gv 20, 19-31
In questo brano di Vangelo, Giovanni narra l’apparizione del risorto ai suoi discepoli il giorno stesso di Pasqua e la loro paura si trasforma in gioia.
“ La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!»”.
È il primo giorno dopo il sabato, inizio perciò di una settimana nuova, di un tempo nuovo. I discepoli sono spaventati, hanno paura dei Giudei e l’evangelista precisa che le porte erano chiuse. I discepoli spaventati sono rassicurati da Gesù quando presentandosi dice: “Pace a voi”. Non è un augurio di pace qualsiasi è la pace che li renderà in grado di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita.
“Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco”. Questo particolare sta ad indicare la continuità tra il Gesù della croce e il Risorto. Giovanni sottolinea con forza che Gesù, che appare e che sta in mezzo ai discepoli, è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio. Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l'aveva citata per il significato profondo del sangue e dell’acqua che ne uscirono (Gv 19,34-35).
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. La gioia dei discepoli è una gioia incontenibile che non è possibile contenere ma che deve essere condivisa: il Cristo risorto è sorgente inesauribile di perdono e i discepoli dovranno annunciarla a tutti .
“Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».” Il saluto pasquale ripetuto due volte: “Pace a voi” è il primo dono della Pasqua: è liberazione dall’angoscia della morte che turbava il cuore dei discepoli e li teneva prigionieri della paura..
“Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».”
Il soffio sui discepoli da parte di Gesù evoca sicuramente il gesto creativo di Dio. Nel libro della Genesi (2,7) troviamo questo alitare di Dio sull’uomo per cui l’uomo divenne un essere vivente. Questo gesto di soffiare di Gesù, è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4), afferma la Sua divinità, indicando, nel dono dello Spirito, la vera vita a cui la Chiesa deve sempre attingere,
“Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo»”.
Tommaso non era rimasto con gli altri discepoli che, seppure intimoriti erano rimasti uniti. Non essendo con gli altri Tommaso non vede il Risorto e non accogliendo subito l’annuncio evangelico della risurrezione che gli viene dato, ricerca altre conferme perchè non riesce ancora a credere. Tommaso non è un curioso, perché Gesù non si manifesta ai curiosi, ma Gesù viene apposta per lui, a lui che si vuole rendere conto, che cerca qualcosa in più per dare ragione alla propria fede.
“Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!»”
Gesù è lo stesso della prima apparizione, entra a porte chiuse e presentandosi dice ancora: “Pace a voi”.
E subito dopo si rivolge a Tommaso negli stessi termini da lui utilizzati, per mostrare che, nel suo amore, egli conosce che cosa il suo discepolo desiderava fare. e lo invita a costatare con le sue mani i segni della Sua passione, per calmare le sue apprensioni e non essere incredulo, ma credente!»”
Tommaso tocca con mano che quel Gesù che ha patito ed è morto è quel medesimo Gesù che è risuscitato. La prova della sua risurrezione è quella di essere presente davanti a Lui: quelle piaghe sono la prova della sua risurrezione. “Metti”: è un imperativo presente attivo, quasi un invito a continuare il gesto del mettere il dito-
“Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio”. Tommaso compie qui una confessione di fede assoluta “mio Signore e il mio Dio". Questa dichiarazione afferma letteralmente che Gesù è Kyrios (Signore) ossia il Messia inviato da Dio e poi Theos (ossia Dio stesso).
Tommaso ora crede non per sentito dire e non teme di esagerare nella sua professione di fede. In nessun punto del Vangelo di Giovanni infatti c'è una dichiarazione di fede così ferma e chiara. Tra la prima professione del discepolo Natanaele (1,49) all'ultima di Tommaso è contenuto il cammino di fede della comunità.
Noi dobbiamo in un certo senso essere grati a Tommaso! Il mondo ha bisogno di cristiani come lui, di gente che è alla ricerca continua della verità, che dica: “Proprio perché ho messo il dito nelle piaghe posso dire che il Signore è risorto”. Non è certo facile toccare le piaghe delle sofferenze del mondo e dire: “Mio Signore e mio Dio”.
Per due volte possiamo notare che Tommaso ripete l'aggettivo "Mio", che ha un significato unico straordinario, è un “mio” che non indica possesso geloso, è come quando noi diciamo in modo spontaneo “Gesù mio”, ma indica chi mi ha rubato il cuore, chi mi fa vivere, la parte migliore di me, la mia identità e la mia gioia. "Mio", come lo è il cuore e senza, non potrei vivere. "Mio", come lo è il respiro della mia anima.
Qualcosa di simile che esprime lo stesso concetto lo possiamo trovare in un’espressione di P. Pedro Arrupe, Preposito generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983, quando ha detto “Togliete Gesù Cristo dalla mia vita e tutto crollerà come un corpo al quale si togliessero lo scheletro, il cuore e la testa.” come dire: “Mio Signore e Mio Dio” senza di te non potrei vivere.
“Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto”.
Le parole che Gesù qui pronuncia non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono alla categoria di Tommaso, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari.
*****
“Il Vangelo di oggi narra che il giorno di Pasqua Gesù appare ai suoi discepoli nel Cenacolo, alla sera, portando tre doni: la pace, la gioia, la missione apostolica.
Le prime parole che Egli dice sono: «Pace a voi» . Il Risorto reca l’autentica pace, perché mediante il suo sacrificio sulla croce ha realizzato la riconciliazione tra Dio e l’umanità e ha vinto il peccato e la morte. Questa è la pace. I suoi discepoli per primi avevano bisogno di questa pace, perché, dopo la cattura e la condanna a morte del Maestro, erano piombati nello smarrimento e nella paura. Gesù si presenta vivo in mezzo a loro e, mostrando le sue piaghe – Gesù ha voluto conservare le sue piaghe –, nel corpo glorioso, dona la pace come frutto della sua vittoria.
Ma quella sera non era presente l’apostolo Tommaso. Informato di questo straordinario avvenimento, egli, incredulo dinanzi alla testimonianza degli altri Apostoli, pretende di verificare di persona la verità di quanto essi affermano. Otto giorni dopo, cioè proprio come oggi, si ripete l’apparizione: Gesù viene incontro all’incredulità di Tommaso, invitandolo a toccare le sue piaghe. Esse costituiscono la fonte della pace, perché sono il segno dell’amore immenso di Gesù che ha sconfitto le forze ostili all’uomo, il peccato, la morte. Lo invita a toccare le piaghe. È un insegnamento per noi, come se Gesù dicesse a tutti noi: “Se tu non sei in pace, tocca le mie piaghe”.
Toccare le piaghe di Gesù, che sono i tanti problemi, difficoltà, persecuzioni, malattie di tanta gente che soffre. Tu non sei in pace? Va’, va’ a visitare qualcuno che è il simbolo della piaga di Gesù. Tocca la piaga di Gesù. Da quelle piaghe scaturisce la misericordia. Per questo oggi è la domenica della misericordia. Un santo diceva che il corpo di Gesù crocifisso è come un sacco di misericordia, che attraverso le piaghe arriva a tutti noi. Tutti noi abbiamo bisogno della misericordia, lo sappiamo. Avviciniamoci a Gesù e tocchiamo le sue piaghe nei nostri fratelli che soffrono. Le piaghe di Gesù sono un tesoro: da lì esce la misericordia. Siamo coraggiosi e tocchiamo le piaghe di Gesù. Con queste piaghe Lui sta davanti al Padre, le fa vedere al Padre, come se dicesse: “Padre, questo è il prezzo, queste piaghe sono quello che io ho pagato per i miei fratelli”. Con le sue piaghe Gesù intercede davanti al Padre. Dà la misericordia a noi se ci avviciniamo, e intercede per noi. Non dimenticare le piaghe di Gesù.
Il secondo dono che Gesù risorto porta ai discepoli è la gioia. L’evangelista riferisce che «i discepoli gioirono al vedere il Signore». E c’è anche un versetto, nella versione di Luca, che dice che non potevano credere per la gioia. Anche a noi, quando magari è successo qualcosa di incredibile, di bello, viene da dire: “Non ci posso credere, questo non è vero!”. Così erano i discepoli, non potevano credere per la gioia. Questa è la gioia che ci porta Gesù. Se tu sei triste, se tu non sei in pace, guarda Gesù crocifisso, guarda Gesù risorto, guarda le sue piaghe e prendi quella gioia.
E poi, oltre alla pace e alla gioia, Gesù porta in dono ai discepoli anche la missione. Dice loro: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». La risurrezione di Gesù è l’inizio di un dinamismo nuovo di amore, capace di trasformare il mondo con la presenza dello Spirito Santo.
In questa seconda domenica di Pasqua, siamo invitati ad accostarci con fede a Cristo, aprendo il nostro cuore alla pace, alla gioia e alla missione. Ma non dimentichiamo le piaghe di Gesù, perché da lì escono la pace, la gioia e la forza per la missione. Affidiamo questa preghiera alla materna intercessione della Vergine Maria, regina del cielo e della terra.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 aprile 2019
La liturgia della domenica di Pasqua, che è la massima celebrazione cristiana, offre un’ampia possibilità di scelta perché le varie celebrazioni, che hanno inizio nella notte, definita “la veglia madre di tutte le veglie”, ripropongono la profondità del mistero, di un evento straordinario che riguarda la risurrezione di un uomo, quella stessa risurrezione che, quando San Paolo ne parlò agli ateniesi, fu deriso.
Nella celebrazione del giorno, nella prima lettura, tratta dal Libro degli Atti degli Apostoli, leggiamo che Pietro, in casa del centurione Cornelio, annuncia che Dio ha risuscitato Gesù dai morti e loro, i discepoli, ne sono i testimoni.
Nella seconda lettura, Paolo scrivendo ai Colossesi, afferma che il cristiano è già risorto con Cristo quando è uscito dalle acque purificatrici del Battesimo. Questo vuol dire che uniti a Cristo nel sacramento del Battesimo, già partecipiamo alla Sua vita divina.
Nel Vangelo di Giovanni, il primo annuncio della resurrezione ci viene dalle donne, in particolare da Maria di Màgdala, poi da Pietro e dal “discepolo che Gesù amava” che corrono al sepolcro. Ma per primo è proprio questo discepolo che vide e credette, alla luce delle Scritture, che avevano preannunciato la risurrezione di Gesù Cristo. Questo discepolo, raffigura il volto del discepolo di Cristo di tutti i tempi. Egli riceve da Dio la certezza anche della propria risurrezione, che ha sua radice visibile in Gesù morto, risorto e libero per sempre dalla tomba, ma il cui trionfo pieno è nel grande evento della Pasqua in cui sono coinvolti tutti gli uomini, fratelli di Cristo nella carne.
Nel Vangelo di Luca, che la Liturgia ci propone nella Messa Vespertina, troviamo il racconto dei discepoli di Emmaus in cui Gesù si fa loro compagno di viaggio. Questo racconto ci aiuta a ricordare che noi esseri umani siamo in cammino e bisognosi di risposte alle nostre domande; che in questo percorso siamo chiamati a riconoscere la Parola di Dio che ci interpella continuamente sulle scelte del nostro viaggio per spiegarcene il senso; che la libertà e la felicità di noi umani consiste nell’accogliere questa Parola, nel non rifiutarla, nell’aprire gli occhi e il cuore al disegno di Dio rivelatoci pienamente nel mistero del Suo Figlio Gesù morto e risorto per noi, vivo e operante in mezzo a noi.
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, Pietro prese la parola e disse: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nàzaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui.
E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.
E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare che egli è il giudice dei vivi e dei morti, costituito da Dio. A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome».
At 10,34a.37-43
Il libro degli Atti degli Apostoli, la cui redazione definitiva risale probabilmente attorno al 70-80, è attribuita all’evangelista Luca, che è anche autore del Vangelo che porta il suo nome. Il libro è composto da 28 capitoli e narra la storia della comunità cristiana dall'ascensione di Gesù fino all'arrivo di Paolo a Roma e copre un periodo che spazia approssimativamente dal 30 al 63 d.C.. Oltre che su Paolo, l'opera si sofferma diffusamente anche sull'operato dell'apostolo Pietro e descrive il rapido sviluppo, l'espansione e l'organizzazione della testimonianza cristiana prima ai giudei e poi agli uomini di ogni popolo e nazione.
Nella seconda parte dell’opera viene delineata l’espandersi dell’annunzio evangelico al di fuori di Gerusalemme. A tal fine Luca presenta l’opera di Filippo in Samaria, la conversione dell’eunuco della regina d’Etiopia, e la straordinaria conversione del persecutore Saulo di Tarso sulla via di Damasco. Infine egli racconta un viaggio apostolico di Pietro nella zona costiera della Palestina, a conclusione del quale mette la conversione del centurione Cornelio, con tutti i suoi famigliari, facendo di loro i primi pagani che aderiscono al cristianesimo senza passare attraverso la circoncisione. Per Luca è importante sottolineare come questo evento, che apre la porta della Chiesa ai pagani, sia accaduto per opera dello stesso Pietro.
Questo brano ci riporta parte del discorso che Pietro tenne nella casa del centurione Cornelio, noto come uomo pio, alla ricerca di Dio, che viveva con tutta la sua famiglia nella città sede del governatore, Cesarea. Cornelio aveva accettato le credenze e i principi morali del giudaismo, senza però arrivare alla circoncisione con tutti gli obblighi morali che essa comportava. Luca riporta nei versetti precedenti il brano che Cornelio a seguito di una visione di un angelo, che lo aveva chiamato per nome, invitò Pietro nella sua casa, per appagare questa sua sete di verità. In questo discorso che Pietro fa, sono chiaramente delineati i tratti fondamentali della vita di Gesù, dal battesimo, fino alla Sua morte e resurrezione. Pietro e gli altri discepoli sono dei testimoni e possono perciò affermare la storicità di Gesù che annunzia la buona novella nella Galilea e nella Giudea negli anni 30-36 non solo, ma possono anche affermarne la Sua divinità.
Per testimoniare la Sua morte e resurrezione Pietro a nome degli altri discepoli afferma: “noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che si manifestasse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti.”
Pietro continua dicendo che Gesù è giudice dei vivi e dei morti, e questa espressione indica la totalità del potere acquisito da Cristo nella Sua opera di salvezza. “A lui tutti i profeti danno questa testimonianza: chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati per mezzo del suo nome”.
Oltre agli apostoli, anche le Scritture profetiche sono testimoni della risurrezione di Cristo.
Nel suo stile Luca presenta la salvezza come "perdono dei peccati“ e la novità sta nell'estendere la salvezza cristiana a "chiunque crede in lui“.
Salmo 117 Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo
Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
Dica Israele: «Il suo amore è per sempre».
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
La destra del Signore si è innalzata,la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Il salmo è stato composto per essere recitato con cori alterni e da un solista. Esso celebra una vittoria contro nemici numerosi. Probabilmente è stato scritto al tempo di Giuda Maccabeo dopo la vittoria su Nicanore e la purificazione del tempio di Gerusalemme (1Mac7,33; 2Mac 10,1s) (165 a.C). Si è condotti a questa collocazione storica, a preferenza di quella del tempo della ricostruzione delle mura di Gerusalemme con Neemia (445 a.C), dal fatto che si parla di “grida di giubilo e di vittoria”, che sono proprie di una vittoria militare. Inoltre le “tende dei giusti” non possono essere né le case, né le capanne di frasche per la festa delle Capanne, ma le tende di un accampamento militare.
Il salmo inizia con l'invito a celebrare l'eterna misericordia di Dio. A questo viene invitato tutto il popolo: “Dica Israele il suo amore è per sempre"; i leviti e i sacerdoti: “Dica la casa di Aronne”; i “timorati di Dio”: “Dicano quelli che temono il Signore” (Cf. Ps 113 B).
Il solista - storicamente Giuda Maccabeo – presenta come Dio lo ha aiutato dandogli la forza, nella confidenza in lui, di sfidare i suoi nemici.
Egli non ha confidato, né intende confidare, in alleanze con potenti della terra, che lo avrebbero trascinato agli idoli, ma ha confidato nel Signore. Era circondato dal fronte compatto delle genti vicine asservite al dominio dei Seleucidi, ma “Nel nome del Signore le ho distrutte". L'urto contro di lui era stato forte, ma aveva vinto nel nome del Signore: “Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, ma il Signore è stato il mio aiuto”. “Cadere” significa cedere all'idolatria.
Egli sa che deve continuare la lotta, ma è fiducioso nel Signore: “Non morirò, ma resterò in vita e annuncerò le opere del Signore”. “Le opere del Signore” sono la liberazione dall'Egitto, l'alleanza del Sinai e la conquista della Terra Promessa.
Il solista, che è alla testa di un corteo chiede che gli vengano aperte le porte del tempio purificato dopo le profanazioni di Nicanore per “ringraziare il Signore”: “Apritemi le porte della giustizia...”.
“La pietra scartata dai costruttori”, è Giuda Maccabeo e i suoi, scartati da tanti di Israele che si erano fatti conquistare dai costumi ellenistici (1Mac 1,11s). Tale pietra per la forza di Dio era diventata “pietra d'angolo”, per Israele.
“Questo è il giorno che fatto il Signore”; il giorno della vittoria, del ripristino del culto nel tempio, è dovuto al Signore. Per noi cristiani quel giorno è il giorno della risurrezione; della vittoria di Cristo contro il male.
Il corteo viene invitato a disporsi con ordine fino all'altare: “Formate il corteo con rami frondosi fino agli angoli dell'altare”.
Il salmo si conclude ripetendo l'invito a celebrare la misericordia del Signore.
Il salmo è messianico nel senso che esso profeticamente riguarda il Cristo: (Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,23; 1Pt 2,7).
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria.
Col 3,1-4
La Lettera ai Colossesi (come la lettera agli Efesini ) secondo la tradizione cristiana fu scritta con tutta probabilità da Paolo a Roma durante la sua prima prigionia, probabilmente nel 62-63. Colosse era allora una piccola città dell’entroterra dell’Asia minore, meno importante delle vicine Laodicea e Ierapoli. In tutti e tre questi centri si erano costituite delle chiese cristiane (v.4:13). Paolo aveva attraversato la regione già due volte, nel secondo e nel terzo viaggio missionario (Att. 16:6, 18:23). Con molta probabilità, la chiesa fu il risultato dell’opera di Paolo a Efeso, distante circa 160 chilometri da Colosse. L’effetto della predicazione di Paolo a Efeso fu di notevole e vasta portata, possiamo dunque immaginare che qualche cittadino di Colosse, avendo udito il Vangelo a Efeso e accettato la fede in Cristo, avesse in seguito fondato una chiesa nella sua città di origine.
Il primo capitolo della lettera contiene i saluti di Paolo (Col 1,1-23) e termina con una esposizione dei temi che si vogliono trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto. L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24-2,5). Successivamente Paolo affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo a vantaggio dei credenti (3,1-4,1).
Il brano liturgico riprende la prima parte del terzo capitolo in cui presenta l’opera di Cristo. Nella parte precedente Paolo aveva esposto una critica sulle teorie che mettono a rischio la fedeltà al vangelo, con l’esortazione ad abbandonare le false dottrine che venivano proposte. Queste inculcavamo la sottomissione agli elementi di questo mondo, verso i quali i colossesi dovevano ritenersi ormai “morti.” Questa morte però prelude a una vita nuova, che essi hanno già ottenuta.
Da qui ha inizio il brano liturgico:
“se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”.
La risurrezione dai morti non è più vista da Paolo come un evento escatologico, collegato con il ritorno di Gesù, ma come una realtà già realizzata. Con Cristo, anche i credenti in Lui sono già risorti, e godono la stessa vita nuova di cui Egli è entrato in possesso mediante la Sua risurrezione e ascensione al cielo.
È questa una convinzione tipica della seconda generazione cristiana, per la quale la parusia è vista ormai come un evento che si perde nella notte dei tempi, ma che ha già avuto una realizzazione anticipata mediante l’associazione del credente a Cristo Proprio per questo motivo i credenti devono considerarsi come già risorti con Cristo e sono invitati a cercare anche loro “le cose di lassù”, cioè quelle che stanno a cuore a Cristo nella Sua nuova situazione di Messia che siede alla destra del Padre. Sulle cose di lassù, dunque essi devono concentrare il loro pensiero, non più sulle cose della terra ma alle “cose di lassù”.
La situazione di morte e di vita tipica dei credenti in Cristo viene poi ulteriormente specificata con queste parole: “Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio!”
Ciò che è visibile per il momento è solo la loro morte, perché la loro nuova vita, in quanto partecipazione alla vita di Cristo in Dio, non è visibile agli occhi del corpo. Ma “Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria”.
Paolo ha già spiegato che la risurrezione dei morti non avrà luogo al momento del ritorno di Gesù, ma è già avvenuta. Tuttavia qui egli sottolinea che solo quando Cristo verrà, la loro nuova vita sarà
manifestata, in quanto anche loro parteciperanno alla Sua gloria. non è più necessario quindi aspettare con impazienza la realizzazione degli eventi escatologici. Infatti la risurrezione, che avrebbe dovuto realizzarsi con il ritorno di Gesù, si è già attuata per coloro che, mediante la partecipazione alla morte e alla risurrezione di Gesù, sono diventati un’unica cosa con Lui.
SEQUENZA
Alla vittima pasquale,
si innalzi il sacrificio di lode,
L'Agnello ha redento il suo gregge,
l'innocente ha riconciliato
noi peccatori con il Padre.
Morte e Vita si sono affrontate
in un prodigioso duello.
Il Signore della vita era morto;
ma ora, vivo, trionfa.
Raccontaci, Maria:
che hai visto sulla via?
La tomba del Cristo vivente,
la gloria del Cristo risorto;
e gli angeli suoi testimoni,
il sudario e le sue vesti;
Cristo mia speranza è risorto
e vi precede in Galilea.
Sì, ne siamo certi:
Cristo è davvero risorto.
Tu, Re vittorioso,
abbi pietà di noi.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.
Gv 20,1-9
Questo brano tratto dal Vangelo di Giovanni inizia riportando che “Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”.
Si può facilmente immaginare lo stato d’animo di Maria di Màgdala mentre si reca al sepolcro: Il suo cuore è triste, prigioniero della disperazione e dimentico della fede, forse non le viene neppure in mente l’idea della resurrezione di cui sicuramente Gesù le aveva parlato, non riesce a staccarsi da quel Gesù che aveva seguito e amato, sa solo che ora è morto, ma vuole almeno un luogo per piangerlo. Ma, arrivata là, vede la pietra ribaltata! Non ha bisogno neppure di entrare, percepisce già che il corpo non c’è più. Ha visto semplicemente una tomba aperta, ma la sua immaginazione corre più avanti:
“Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava”,
In questo versetto, come altrove nel Vangelo, volutamente l’evangelista lascia anonimo il nome del discepolo per invitare ognuno di noi ad essere il discepolo che Gesù ama.
“e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Si percepisce molto movimento, ed agitazione in questo racconto
“Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”.
Iniziano a correre insieme per arrivare al sepolcro, ma il discepolo amato corre più veloce di Pietro e giunge per primo alla tomba.
“Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò”. Pietro è più lento, ma il discepolo lo aspetta. C’è in questa attesa una particolare delicatezza del discepolo amato. Egli vede le bende a terra, ma questi oggetti, visti dal di fuori, non gli dicono nulla. Attende l’arrivo di Pietro!
“Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Pietro arriva, entra, osserva i teli e il sudario ma non capisce: quei segni non hanno significato per lui. “Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.. Il suo sguardo non si sofferma su un oggetto, o sul luogo, è un vedere che coglie l’insieme, è un vedere la luce, vale a dire è lo sguardo della fede, ecco perché: vide e credette.
Vede qualcosa che va al di là, vede l’invisibile. Prima, sulla soglia il suo sguardo si era soffermato su degli oggetti, ma senza comprendere, ora, entrato nel sepolcro, cioè nella realtà della morte, ricordando le parole di Gesù, comprende le Scritture, quelle Scritture che Gesù tante volte aveva spiegato. “che cioè egli doveva risorgere dai morti”.
Maria è mossa dall’amore, arriva fino al sepolcro, ma non ha il coraggio di entrare. Occorre entrare nella morte, nel dolore, nei segni di morte che ci sbarrano la via.
Pietro ha un rapporto con Gesù più razionale, più materiale; ha il coraggio di entrare nel sepolcro, nella morte, ma questo non basta.
Il discepolo che Gesù amava, sa amare con lo stile di Gesù, entra, vede con gli occhi della fede e del cuore!
La fede dunque è sì fede nella vita, nella potenza della resurrezione, nell’amore fino all’estremo, ma soprattutto è fede nella Scrittura, in quella Parola del Signore che ci permette di vedere e interpretare la vita dentro i segni di morte, che troviamo sul nostro cammino.
Dal vangelo secondo Luca
Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?».Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».
E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se
dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.
Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Lc 24,13-35
Questo brano del vangelo di Luca ci riporta l’episodio molto conosciuto dell’apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo tenere presente che Luca scrive negli anni 80 per le comunità sorte in Grecia che erano formate in gran parte da pagani convertiti. Gli anni 60 e 70 erano stati molto difficili: c’era stata la grande persecuzione di Nerone nell’anno 64, sei anni dopo, nel 70, Gerusalemme fu totalmente distrutta dai romani e per finire nel 72, a Masada, nel deserto di Giuda, ci fu il massacro degli ultimi giudei ribelli. In quegli anni, gli apostoli, testimoni della resurrezione, stavano scomparendo e si cominciava a sentire la stanchezza del cammino.
Con la narrazione dell’apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus, Luca cerca di dare una risposta a queste domande angoscianti e ad insegnare alle comunità come interpretare la Scrittura per poter riscoprire la presenza di Gesù nella loro vita.
Il racconto inizia riportando che in quello stesso giorno (quello della resurrezione), due del gruppo dei discepoli si erano messi “in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme”
I due protagonisti di questo racconto erano "due di loro", cioè "degli altri" che stavano insieme agli Undici e hanno ricevuto l'annuncio della risurrezione da parte delle donne. Il giorno di cui si parla è dunque quello della risurrezione di Gesù, il primo della settimana, il giorno in cui Luca mette tutte le apparizioni riferite nel suo vangelo. La destinazione dei due discepoli, Emmaus, non è un luogo inventato da Luca, però è incerta la sua identificazione perchè la località che dista da Gerusalemme proprio 11 km, si chiama Qubeiheh. Questa è stata identificata dal Medioevo come Emmaus a motivo della distanza esatta. E' possibile che Luca avesse a sua disposizione una certa tradizione riguardante il nome della località, senza però avere una conoscenza esatta dei luoghi e delle distanze.
“e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro”.
La conversazione dei due discepoli verteva sull’evento della crocifissione di Gesù e la scoperta della tomba vuota.
Gesù, come perfetto sconosciuto si avvicina ai due discepoli, ma loro non sono ancora in grado ri riconoscerlo. Questo particolare ha un certo significato soprattutto per noi oggi: in compagnia del Risorto la vita degli uomini continua nella sua semplicità, nella quotidianità e negli imprevisti. Gesù risorto è con noi sempre anche se non ce ne accorgiamo.
“Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo”.
Nella loro situazione di delusione, di mancanza di fede, i due discepoli non erano in grado di comprendere che Gesù è risorto. Il passivo "erano impediti“ si configura nel fatto che nelle apparizioni narrate da Luca e Giovanni, i discepoli non riconoscono il Signore a prima vista, ma solo dietro una parola o un segno. Pur restando identico a se stesso il corpo del Risuscitato si trova in un nuovo stato che modifica la sua forma esterna e la libera dalle condizioni corporei di questo mondo (Gv 20,19).
“Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste;”
Lo sconosciuto si introduce nella discussione con una domanda. I due discepoli quando lo sconosciuto rivolge loro la domanda, si fermano ed hanno un aspetto lugubre, sono tristi e inquieti.
“uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?».
Luca ci rivela il nome di uno di loro: Cleopa, che è un nome greco, abbreviazione di Cleopatro. L'altro discepolo resta anonimo per permettere ad ognuno di noi di identificarsi in lui. Con la domanda retorica di Cleopa, Luca presenta l'evento della passione e morte di Gesù come un fatto a conoscenza di tutti.
“Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo”;
Le parole che usano i discepoli per rispondere sono le stesse che leggiamo negli Atti, usate dagli Apostoli per annunciare l'evento Gesù, ma a questo annuncio manca il riferimento alle scritture e la notizia della risurrezione. La delusione per la morte scandalosa di Gesù non ha indotto comunque i due discepoli a dare un giudizio negativo nei suoi confronti. Gesù rimane per loro un "uomo profeta", non un profeta qualsiasi, ma uno simile a Mosè come è scritto nel Deuteronomio (18,15).
“come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso”
La morte di Gesù, anche se avvenuta per crocifissione (la condanna peggiore) non è considerata segno di maledizione divina e i discepoli l'attribuiscono alle autorità giudaiche di Gerusalemme, i sommi sacerdoti e i capi, che i discepoli chiamano “nostre autorità “. Luca qui esprime la sua opinione: mentre il popolo era favorevole a Gesù, furono le autorità giudaiche le dirette responsabili della crocifissione.
“Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo.
La morte di Gesù ha spento la speranza dei discepoli, una speranza di liberazione dal giogo romano: Gesù avrebbe dovuto essere anche un capo politico capace di cacciare i romani e ristabilire il ruolo di Israele come luce delle nazioni.
Dopo “tre giorni” … ecco il segno della tomba vuota! Luca evidenzia l’incapacità di comprendere dei due discepoli, incapacità che verrà rimproverata da Gesù
“Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto”.
I discepoli che sono andati alla tomba hanno confermato la testimonianza delle donne sulla tomba vuota, ma non sono arrivati ancora a credere alla resurrezione di Gesù. La frase finale " ma lui non l’hanno visto " riassume bene tutta la delusione e l'incomprensione espresse nei versetti precedenti.
“Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?».
Gesù qui spiega tutto ciò che i discepoli conoscevano ma non sapevano interpretare. Luca riprendendo le parole con cui i due discepoli hanno esordito, lo riformula secondo un linguaggio caratteristico dell'epoca: la necessità della sofferenza di Gesù come inizio per entrare nella gloria, cioè la condizione di esistenza celeste presso Dio, ottenuta con la risurrezione. Però l'attesa di un Messia sofferente non era affatto contemplato nell'AT, quindi si può dire che i discepoli di Emmaus avevano ragione a non comprendere. Le Scritture possono illuminare il destino di Gesù solo se prima la fede illumina le Scritture!
“Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro.”
Secondo il costume orientale dell'ospitalità, i due discepoli costringono amichevolmente Gesù a rimanere. Il motivo è adeguato alla situazione: la notte è vicina. Ma al di là della situazione concreata emerge la domanda che si fa preghiera al Risorto, di rimanere nella sua comunità quando la notte della prova si avvicina. Gesù quindi resta con loro.
“Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.”
Gesù compie i gesti del rituale di un pasto giudaico normale, ma i termini scelti per descriverlo sono significativi perchè rappresentano il linguaggio dei gesti eucaristici. Per Luca in particolare "spezzare il pane" è la formula per indicare il banchetto eucaristico (At 2,42.46; 20,7).
“Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista.”
Con l'Eucaristia avviene per i discepoli l'incontro di fede con il Signore, ma una volta riconosciuto, Gesù si sottrae alla loro vista.
“Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».”
Prima di aprire i loro occhi, Gesù ha spiegato le Scritture per dare una preparazione adeguata all'incontro personale nella fede. Ma è rilevante che già prima del riconoscimento, il cuore dei discepoli ardeva, al punto da non voler più separarsi da quel misterioso viandante.
“Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro”, I discepoli, anche se era l'ora tarda intraprendono subito il viaggio di ritorno a Gerusalemme la città dell'evento pasquale, punto di partenza dell'annuncio degli apostoli.
“i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!»”.
Prima di poter aprire bocca e raccontare la loro esperienza, i due discepoli sentono la proclamazione degli Undici: Gesù è veramente risorto ed è apparso a Simone.
Luca con questa precisazione finale vuole sottolineare che la fede dei testimoni ufficiali non poggia sul "sentito dire" di personaggi secondari, ma sull'incontro del Risorto stesso con Pietro, il capo degli apostoli.. Questa apparizione fa dunque di Pietro il primo testimone ufficiale della risurrezione.
“Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.”
Come le donne, anche i due discepoli raccontano agli Undici e agli altri radunati la loro esperienza. Ma la loro testimonianza si aggiunge ora a quella degli apostoli e la conferma.
Luca conclude il racconto sintetizzando i punti culminanti della narrazione: ciò che è accaduto per la via, cioè la spiegazione delle Scritture ad opera dello sconosciuto compagno di viaggio, il riconoscimento del Risorto nella "frazione del pane". Per la comunità cristiana, la Scrittura e l'Eucaristia sono il luogo di incontro con Gesù risorto.
Le letture liturgiche di questa ultima domenica di quaresima, conosciuta anche come domenica di Passione, ci introducono alla Settimana Santa, (santa perchè dobbiamo essere più vicini al Santo) e ci rendono quanto mai partecipi delle sofferenze di Cristo che affronta la Sua dolorosa passione per la nostra salvezza.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia attraverso il canto del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo la vita e la passione di Gesù. Il suo atteggiamento di fiducia in Dio e di amore per i fratelli lo lascia in una suprema libertà di fronte ad ogni prova. Egli ha la certezza che la sua missione non è vana.
Nella seconda lettura tratta dalla lettera ai Filippesi, S.Paolo, con l’Inno Cristologico, rivela il mistero dell’abbassamento di Cristo e l’intervento di Dio in Suo favore: il Padre lo esalta, ponendolo al di sopra di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi.
Il racconto della passione, tratta dal Vangelo di Luca, riporta l’istituzione del eucaristia incorniciata nei giorni della passione di Gesù, e le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». che è come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”».
Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada. Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!.
Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
Lc 19, 28-40
Dal capitolo 19 del vangelo di Luca, è stato tratto questo brano per commentare l’entrata di Gesù a Gerusalemme
“Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme”. Gesù, qui appare come il pastore davanti al gregge, che cammina “salendo verso Gerusalemme”.
“Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo «Andate nel villaggio di fronte;”
Per comprendere questo brano bisogna rifarsi alla profezia di Zaccaria al capitolo 9, dove il profeta annunzia l’arrivo di un re, di un messia, completamente diverso da quelli attesi. Non un messia che viene con potenza, con la forza delle armi, non con i carri o con i cavalli, ma un messia di pace. E per indicare questo messia di pace, anziché presentarlo vittorioso sopra una cavalcatura regale, il profeta Zaccaria lo fa vedere che cavalca un asino, un puledro, figlio di asina. Bisogna perciò tener conto di questa profezia per comprendere quello che l’evangelista ci vuol dire.
“entrando,troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui”.
L’evangelista vuole evidenziare che questa profezia è stata considerata di meno valore delle altre, e tra le tante attese di un messia trionfatore, non era stata neanche presa in considerazione. Il verbo slegare, relativo all’ordine di Gesù: “slegatelo!” riferito al puledro, sarà ripetuto in questo brano per ben quattro volte. Gesù è venuto a sciogliere quella profezia che era rimasta legata, nascosta, quella di un messia di pace, che nessuno poteva immaginare.
“E se qualcuno vi domanda: “Perché lo slegate?”, risponderete così: “Il Signore ne ha bisogno”.
Il Signore dunque è colui che slega la profezia, colui che libera, mentre i capi del popolo la tenevano legata.
“Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada”.
Era tipico nell’investitura regale, che il popolo, come segno di sottomissione, stendesse il mantello sulla strada e il re vi passasse sopra, come segno di dominio. Quindi vediamo che ci sono coloro che accettano questo messia di pace ma anche una parte della folla, che attendendo un messia dominatore, è pronta a sottomettersi a questo re.
“Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto” e, citando il Salmo 119, dicevano «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore!. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!».”
Di fronte a questa reazione del popolo, i rappresentanti religiosi “alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli».
E’ pronta la risposta di Gesù:«Io vi dico, se questi taceranno, grideranno le pietre».
E’ importante tenere presente che la discesa del monte degli Ulivi, all’ingresso di Gerusalemme, passa attraverso la valle di Giosafat, chiamata anche la valle del giudizio, che era disseminata di pietre tombali. Per questo Gesù dice che se anche i vivi taceranno, i morti, cioè gli israeliti che hanno vissuto prima di loro e che da sempre hanno vissuto e costruito questa attesa di un messia, saranno loro, rappresentati dalle pietre tombali, a gridare.
Quindi l’evangelista assicura che, anche se si mettono a tacere i discepoli, la forza della vita che è insita anche in quest’ambito di morte, proclamerà il dono di Dio all’umanità, cioè un messia che porta la pace.
Dal libro del profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
Is 50,4-7
In questo carme del Servo sofferente, il profeta (Deuteroisaia) presenta un personaggio misterioso che percorre la via della sofferenza, della fedeltà alla Parola, fino alla donazione di se stesso, in mezzo a torture “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,” insulti “non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.” e oltraggi di ogni specie “le mie guance a coloro che mi strappavano la barba”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il Suo progetto nonostante tutte le contestazioni.
Egli dimostra così di non cercare il proprio successo personale, ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Fa impressione vedere come la profezia del Servo sofferente, sembra descrivere in anticipo di 550 anni, la vita e la passione di Gesù.
Salmo 21 Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».
Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno forato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.
Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.
Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe.
Il salmo presenta un giusto sofferente e perseguitato, pieno di speranza in Dio.
L’autore del salmo guarda alla sua esperienza di dolore, ma anche intende proporre un modello di sofferente che sostenga i fedeli nel momento della prova più terribile, cioè quando sono rifiutati, colpiti, dalla loro stessa gente. Il risultato presenta una tale aderenza nella descrizione di molte delle sofferenze di Cristo da dire che l’ispirazione ha modellato il giusto del salmo sul Cristo crocifisso.
Le prime parole del salmo sono un’invocazione sgomenta dinanzi a Dio; sgomenta, ma senza alcun rimprovero. E’ un gemito rivelatore del suo grande tormento interiore: essere di fronte all’abbandono di Dio, al silenzio di Dio, che sembra assente, mentre egli è il Dio presente come attesta il tempio.
Il punto che lo sconvolge, è che il suo popolo, quello che vive all’ombra del tempio e che dovrebbe essere laudante attorno al trono di Dio “Tu siedi in trono fra le lodi di Israele” rifiuta la giustizia, e così anche la propria storia di popolo chiamato a proclamare i benefici di Dio. “In te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li hai liberasti” dice, alludendo alla liberazione dall’Egitto.
Ma, ecco, egli è diventato “rifiuto degli uomini”, schiacciato a terra come un verme, privato della dignità di uomo. Di fronte a sé ha solo schernitori che si sfoggiano un sentirsi a posto con Dio, visto che Dio è dalla loro parte poiché non porta aiuto a colui che ora è nelle loro mani e che si diceva suo amico: “Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama!”. Ma il giusto perseguitato e colpito continua a confidare in Dio; non raccoglie la velenosa provocazione che lo vorrebbe rendere dubbioso davanti a Dio. Dio lo ha tratto dal grembo di sua madre; cioè il Padre ha dato al Figlio una natura umana, e, una sola persona (Figlio) in due nature, lo ha tratto dal grembo di una donna, e al suo nascere lo ha preso subito sulle sue ginocchia (Cf. Gn 50,23; Is 46,3) in riconoscimento della sua paternità.
L’aggressione che egli subisce è violenta, implacabile: “Mi circondano tori numerosi, mi assediano grossi tori di Basan…" (Basan è una regione ricca di pascoli a sud di Damasco). “Io sono come acqua versata”, buttato via, gettato via, come acqua. Colpito, strattonato, è pieno di dolore: “sono slogate tutte le mie ossa”. Il suo cuore cede per il dolore e lo sforzo d’amare; ed egli avverte che viene meno come colpito da infarto: “Il mio cure è come cera, si scioglie in mezzo alle mie viscere”.
E’ disidratato e la sete lo attanaglia; la sua gola è riarsa e non può muovere che a stento la lingua: “La mia lingua si è incollata alla gola”. Egli si trova “su polvere di morte” senza scampo.
Gli avversari si sono ancora di più incattiviti vedendo la sua perseveranza, sono diventati un “branco di cani” che addentano. Premuto, assediato da ogni parte, gli vengono trafitti i piedi e le mani così da impedire che si muovesse o si difendesse dai colpi: l’autore del salmo non pensava alla crocifissione, pena di morte introdotta più tardi dai romani. “Posso contare tutte le mie ossa”, l’espressione rende l’idea complessiva del dolore che gli viene da ogni parte del corpo, ma la traduzione della Volgata di san Gerolamo - “hanno contato tutte le mie ossa” - è sicuramente proveniente da un manoscritto migliore in questo punto perché fa vedere anche la crudeltà degli aggressori, che hanno badato a che nessuna parte del corpo del giusto giustiziato fosse senza ferita e dolore.
Gli aggressori si compiacciono ferocemente dei dolori del giusto giustiziato : “essi stanno a guardare e mi osservano”. E sono tanto noncuranti di lui che giocano a dadi le sue vesti, secondo il diritto che si aveva sui condannati: “sulla mia tunica gettano la sorte”.
Di fronte a questo stato di strazio il giusto giustiziato non cessa di pregare e domanda aiuto a Dio per sfuggire non già alla morte, ma alla morte cui segue la consunzione della tomba, e questo mediante la risurrezione.
“Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all’assemblea”, dice. Risorto darà luce ai suoi fratelli, loderà il Padre nell’assemblea dei credenti (Cf. 1Cor 15,6).
Egli dirà: “Lodate il Signore, voi suoi fedeli, gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe, lo tema tutta la discendenza di Israele…”. E nella Chiesa, nella grande assemblea, loderà il Padre. Nella Grande Assemblea dove egli sarà presente con la sua Parola, con la sua reale presenza Eucaristica e col dono dello Spirito Santo.
Nel banchetto della carità “i poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano”.
La visione diventa universale, perché la salvezza del Cristo è universale: “Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a te si prostreranno tutte le famiglie dei popoli”.
I popoli all’annunzio del Vangelo ricorderanno ciò che avevano dimenticato, che l’uomo è capace di Dio, che Dio è uno solo e che è bontà. Che il regno del mondo (Ap 11,15) è di Dio, e sue sono tutte le nazioni. E non solo ricorderanno e torneranno, che equivale a convertirsi, ma insieme a ciò crederanno alla lieta notizia evangelica, quella del regno dei cieli presente nella Chiesa per lievitare tutta la terra conquistata dal Cristo.
A Dio solo, liberi in eterno da ogni influsso di idolatria, si prostreranno, nel giorno della risurrezione, quanti ora dormono sotto terra.
Il grande Giusto giustiziato esprime la sua certezza che egli vivrà, risorgerà da morte e celebrerà in eterno il Padre: “Ma io vivrò per lui”.
E la sua discendenza, la Chiesa, servirà in lui, nel dono dello Spirito Santo, il Padre, portando la salvezza da lui ottenuta per tutte le genti. “Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunceranno la sua giustizia”, e la sua giustizia del Padre è Cristo, che ha espiato le colpe degli uomini. “Ecco l’opera del Signore”, diranno alle generazioni che si susseguono. E “l’opera del Signore” è Cristo, Cristo vivente nella Chiesa.
Commento tratto da Perfetta Letizia
Dalla lettera di S Paolo apostolo ai Filippesi
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Fil 2,6-11
Questo brano, tratto dalla lettera ai Filippesi, è conosciuto come Inno Cristologico. Con tutta probabilità era un inno già diffuso tra le comunità cristiane e Paolo lo inserisce nella sua lettera, per esortare i Filippesi a non agire per rivalità o vanagloria ma ad avere in sé gli stessi sentimenti di Cristo.
“Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio,”
Qui si afferma che Gesù aveva forma di Dio e si sottolinea il paradosso del gesto libero e volontario con cui Gesù vi ha rinunciato. “La forma di Dio”, che giustamente è stato tradotto con “condizione di Dio,” comporta dominio, autorità e dignità. Gesù non ha voluto sfruttare a suo vantaggio queste sue prerogative.
“ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo,”
Svuotando se stesso, ha messo da parte le qualità divine che non erano compatibili con la realtà dell'incarnazione. Questo svuotamento è servito dunque per assumere la condizione di servo, l'esatto opposto della condizione di Dio. Durante la sua vita terrena Egli non volle comportarsi come Dio e Signore degli uomini, ma come servo, privo di ogni dignità, autorità e potere, completamente dedito all'umile servizio degli altri. C’è un chiaro riferimento al Servo di JHWH di cui si parla in Isaia 52,13-53,12 che sopporta la sofferenza per riconciliare gli uomini tra di loro e con Dio.
“diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.
Gesù è divenuto simile agli uomini, ma non solo: è stato riconosciuto in tutto e per tutto come un uomo. Non solo: in mezzo agli uomini Egli si è ulteriormente umiliato, ha portato il suo svuotamento fino in fondo. Ciò non vuol dire che Gesù ha cessato di essere uguale a Dio, ma che si è spogliato, nella sua umanità, della sua gloria divina manifestata solo nella trasfigurazione. Il farsi obbediente fino alla morte quindi non è solo la descrizione di un itinerario che lo ha portato alla morte, ma un atteggiamento costante, che ha caratterizzato l'obbedienza e la mitezza di Gesù per tutta la sua vita.
Gesù inoltre è arrivato alla morte, ma ad una morte di croce. L’Apostolo ha voluto fare questa precisazione perchè gli Efesini, molti dei quali avevano cittadinanza romana, sapevano che la morte di croce era l'umiliazione più degradante, il colmo dell'abiezione.
“Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,”
Il soggetto qui non è più Gesù bensì Dio, il Padre. Proprio perché Cristo ha accettato di umiliarsi fino in fondo, il Padre lo ha esaltato. Inoltre Dio Padre gli ha donato,un nome che è al di sopra di tutti gli altri
“perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,”
Gesù viene esaltato perché davanti al Suo nome ogni creatura si prostri in adorazione.
“e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!»,a gloria di Dio Padre”.
L'inno raggiunge il massimo in questo versetto. Ogni lingua proclamerà che Gesù è Dio, è il Signore, il Kyrios.
Gesù che durante la sua esistenza terrena ha voluto toccare il fondo dello svuotamento e dell'umiliazione, è stato innalzato alla suprema dignità.
Al termine abbiamo poi l'espressione: a gloria di Dio Padre. Con queste parole si vuole affermare che Gesù Cristo Signore non è il sostituto né un concorrente di Dio, in quanto la confessione della signoria di Cristo ritorna alla fine a gloria di Dio Padre.
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca
Seguendo Gesù nella passione ogni credente è chiamato ad immedesimarsi in alcuni personaggi che si trovano nel racconto di Luca: Simone di Cirene e le donne, non sono spettatori o testimoni neutri, ma sono quasi dei modelli della sequela di Gesù anche nell’’istante ultimo e decisivo .
Di Simone, Luca nota che: “ gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù” e questa espressione Luca la usa per definire il discepolo di Gesù “che porta ogni giorno la sua croce” per seguire il suo Signore fino alla fine. Le donne “si battevano il petto” e questo gesto sarà ripetuto anche dalla folla che “se ne tornava battendosi il petto”..Questo atto è simbolicamente la rappresentazione del pentimento e della conversione che nasce dall’appello di Gesù: non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli
Gesù sulla croce offre al discepolo di ogni tempo e di ogni luogo, un altro grande esempio da concretizzare nella vita, quello del perdono dei peccatori e delle offese ricevute: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». In questa linea d’amore, di perdono e di donazione sino all’ultimo, si colloca anche l’episodio riferito da Luca, del malfattore pentito a cui Gesù offre il dono della salvezza nel Regno. Con quest’uomo noi tutti dobbiamo ripetere: “Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E con queste parole di conversione anche per noi si spalancheranno le braccia dell’amore misericordioso di Dio.
Anche nella Sua morte, Gesù, agli occhi di Luca, diventa il segno di un’altra vita da seguire, quella del perfetto abbandono nelle mani di Dio. Come è noto, è solo Luca a citarne un’altra preghiera finale di Gesù moribondo, oltre a quella del salmo 21 .
«Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» Infatti riprendendo il salmo 31, Gesù esclama: : «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E’ come la sintesi di una lunga lezione che Gesù ha distribuito nel Vangelo di Luca … l’ultima parola che affiora sulle labbra di Gesù è, secondo Luca, in quel “Padre!” finale, pronunziato con serenità e fiducia.
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Le parole di Papa Francesco
“Le acclamazioni dell’ingresso in Gerusalemme e l’umiliazione di Gesù. Le grida festose e l’accanimento feroce. Questo duplice mistero accompagna ogni anno l’ingresso nella Settimana Santa, nei due momenti caratteristici di questa celebrazione: la processione con i rami di palma e di ulivo all’inizio e poi la solenne lettura del racconto della Passione.
Lasciamoci coinvolgere in questa azione animata dallo Spirito Santo, per ottenere quanto abbiamo chiesto nella preghiera: di accompagnare con fede il nostro Salvatore nella sua via e di avere sempre presente il grande insegnamento della sua passione come modello di vita e di vittoria contro lo spirito del male.
Gesù ci mostra come affrontare i momenti difficili e le tentazioni più insidiose, custodendo nel cuore una pace che non è distacco, non è impassibilità o superomismo, ma è abbandono fiducioso al Padre e alla sua volontà di salvezza, di vita, di misericordia; e, in tutta la sua missione, è passato attraverso la tentazione di “fare la sua opera” scegliendo Lui il modo e slegandosi dall’obbedienza al Padre. Dall’inizio, nella lotta dei quaranta giorni nel deserto, fino alla fine, nella Passione, Gesù respinge questa tentazione con la fiducia obbediente nel Padre.
Anche oggi, nel suo ingresso in Gerusalemme, Lui ci mostra la via. Perché in quell’avvenimento il maligno, il Principe di questo mondo aveva una carta da giocare: la carta del trionfalismo, e il Signore ha risposto rimanendo fedele alla sua via, la via dell’umiltà.
Il trionfalismo cerca di avvicinare la meta per mezzo di scorciatoie, di falsi compromessi. Punta a salire sul carro del vincitore. Il trionfalismo vive di gesti e di parole che però non sono passati attraverso il crogiolo della croce; si alimenta del confronto con gli altri giudicandoli sempre peggiori, difettosi, falliti… Una forma sottile di trionfalismo è la mondanità spirituale, che è il maggior pericolo, la tentazione più perfida che minaccia la Chiesa (De Lubac). Gesù ha distrutto il trionfalismo con la sua Passione.
Il Signore ha veramente condiviso e gioito con il popolo, con i giovani che gridavano il suo nome acclamandolo Re e Messia. Il suo cuore godeva nel vedere l’entusiasmo e la festa dei poveri d’Israele. Al punto che, a quei farisei che gli chiedevano di rimproverare i suoi discepoli per le loro scandalose acclamazioni, Egli rispose: «Se questi taceranno, grideranno le pietre» Umiltà non vuol dire negare la realtà, e Gesù è realmente il Messia, è realmente il Re.
Ma nello stesso tempo il cuore di Cristo è su un’altra via, sulla via santa che solo Lui e il Padre conoscono: quella che va dalla «condizione di Dio» alla «condizione di servo», la via dell’umiliazione nell’obbedienza «fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,6-8). Egli sa che per giungere al vero trionfo deve fare spazio a Dio; e per fare spazio a Dio c’è un solo modo: la spogliazione, lo svuotamento di sé. Tacere, pregare, umiliarsi. Con la croce, fratelli e sorelle, non si può negoziare, o la si abbraccia o la si rifiuta. E con la sua umiliazione Gesù ha voluto aprire a noi la via della fede e precederci in essa.
Dietro di Lui, la prima a percorrerla è stata sua Madre, Maria, la prima discepola. La Vergine e i santi hanno dovuto patire per camminare nella fede e nella volontà di Dio. Di fronte agli avvenimenti duri e dolorosi della vita, rispondere con la fede costa «una particolare fatica del cuore» (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Mater, 17). È la notte della fede. Ma solo da questa notte spunta l’alba della risurrezione. Ai piedi della croce, Maria ripensò alle parole con cui l’Angelo le aveva annunciato il suo Figlio: «Sarà grande […]; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33). Maria sul Golgota si trova di fronte alla smentita totale di quella promessa: suo Figlio agonizza su una croce come un malfattore. Così il trionfalismo, distrutto dall’umiliazione di Gesù, è stato ugualmente distrutto nel cuore della Madre; entrambi hanno saputo tacere.
Preceduti da Maria, innumerevoli santi e sante hanno seguito Gesù sulla via dell’umiltà e sulla via dell’obbedienza. Oggi, Giornata Mondiale della Gioventù, voglio ricordare i tanti santi e sante giovani, specialmente quelli “della porta accanto”, che solo Dio conosce, e che a volte Lui ama svelarci a sorpresa. Cari giovani, non vergognatevi di manifestare il vostro entusiasmo per Gesù, di gridare che Lui vive, che è la vostra vita. Ma nello stesso tempo non abbiate paura di seguirlo sulla via della croce. E quando sentirete che vi chiede di rinunciare a voi stessi, di spogliarvi delle vostre sicurezze, di affidarvi completamente al Padre che è nei cieli, allora, cari giovani, rallegratevi ed esultate! Siete sulla strada del Regno di Dio.
Acclamazioni festose e accanimento feroce; è impressionante il silenzio di Gesù nella sua Passione, vince anche la tentazione di rispondere, di essere “mediatico”. Nei momenti di oscurità e grande tribolazione bisogna tacere, avere il coraggio di tacere, purché sia un tacere mite e non rancoroso. La mitezza del silenzio ci farà apparire ancora più deboli, più umiliati, e allora il demonio, prendendo coraggio, uscirà allo scoperto. Bisognerà resistergli in silenzio, “mantenendo la posizione”, ma con lo stesso atteggiamento di Gesù. Lui sa che la guerra è tra Dio e il Principe di questo mondo, e che non si tratta di mettere mano alla spada, ma di rimanere calmi, saldi nella fede. È l’ora di Dio. E nell’ora in cui Dio scende in battaglia, bisogna lasciarlo fare. Il nostro posto sicuro sarà sotto il manto della Santa Madre di Dio. E mentre attendiamo che il Signore venga e calmi la tempesta (cfr Mc 4,37-41), con la nostra silenziosa testimonianza in preghiera, diamo a noi stessi e agli altri «ragione della speranza che è in [noi]» (1 Pt 3,15). Questo ci aiuterà a vivere nella santa tensione tra la memoria delle promesse, la realtà dell’accanimento presente nella croce e la speranza della risurrezione.”
Omelia tenuta da Papa Francesco nella domenica delle Palme 14 aprile 2019
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)