Le letture liturgiche di questa domenica celebrano l’umiltà anche come forma particolare di saggezza. L’umiltà vera è per il cristiano una grande virtù perchè ha in sé la pazienza e l’amore, la perseveranza e il coraggio.
Nella prima lettura, il saggio Siracide, ci dice: Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Nei suoi scritti vengono sempre esaltati sia la mancanza di superbia che il senso della misura: la saggezza consiste nel controllare il proprio orgoglio.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore afferma che Dio, a differenza di quanto avveniva nell’antica alleanza, non deve essere visto come un potente che domina dall’alto dei cieli, ma come un padre che ci viene incontro nell’assemblea dei fratelli e descrive l’esperienza dei cristiani come un’esperienza eucaristica, come un’adunanza festosa che diventa liturgia della perfezione nella rievocazione del sacrificio di Cristo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù esorta il fariseo che lo aveva invitato a pranzo, ad essere disinteressato e a non invitare solo coloro che possono contraccambiare, ma gli umili e i poveri. L’amore è generosità nel dare e nel servire.
Dal libro del Siracide
Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso.
Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
Perchè grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato.
Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio,
perchè in lui è radicata la pianta del male.
Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Sir 3,17-20.28-29
Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo .
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C.
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime. Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..
In questo brano troviamo delle massime sapienziali di grande importanza per i rapporti fra persone.
Nella prima si dice: “Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso”. La mitezza consiste essenzialmente nella non violenza, cioè in un rapporto con l’altro che eviti qualsiasi tipo di sopraffazione, e vuole sottolineare che non è importante quello che si dona all’altro, ma il rapporto che si instaura con lui, basato sul rispetto e sulla collaborazione. Solo chi si comporta in questo modo godrà veramente dell’amore degli altri, cioè avrà successo.
Nella seconda massima si afferma: “Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore” La grandezza di una persona non si misura dalle cose che è capace di fare o dalla fama che ha acquisito. L’importante è farsi umile, cioè riconoscere i propri limiti. Solo così si può ottenere il favore di Dio.
Si passa poi a considerare l’orgoglio e la mitezza con la terza massima: “Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.”
L’orgoglio e la superbia sono due atteggiamenti propri di chi si sente superiore agli altri. Nei rapporti con Dio questi atteggiamenti precludono la possibilità di imparare qualcosa sulla vera natura di Dio, e di riflesso impediscono di capire la realtà e le persone con le quali si vive.
Nella quarta massima si indicano le basi del vero culto: “Perchè grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato”. Per rivolgersi correttamente a Dio, bisogna riconoscere la Sua grandezza, e ciò è possibile solo a chi pratica l’umiltà.
C’è poi una dura condanna per il superbo: Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perchè in lui è radicata la pianta del male.
La superbia è una malattia che non può essere guarita, perché l’uomo orgoglioso si preclude la possibilità stessa di imparare, e quindi di correggersi.
Il brano si conclude con l’ultima massima: Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio. Il linguaggio delle parabole è l’unico che dà accesso a cose più grandi. Ma per poterlo utilizzare bisogna avere l’orecchio attento, cioè bisogna distaccarsi dal frastuono che proviene dalle cose di questo mondo.
In queste massime è descritto con un linguaggio semplice e comprensivo uno stile di vita improntato alla mitezza, all’umiltà, all’ascolto e al rapporto con le persone. Ad esso si contrappone il comportamento orgoglioso, presentato come una chiusura all’altro, che porta inevitabilmente alla rovina di chi ne è affetto.
La mitezza e l’umiltà che Siracide suggerisce coincidono con quello che potremmo chiamare un comportamento non violento. Esse sono necessarie per chi vuole attuare la vera giustizia nei rapporti con le persone. Un comportamento aggressivo e orgoglioso non serve a nulla, anche quando chi lo pratica si presenta come un generoso benefattore. Questo orientamento di vita è molto importante per tutti, ma soprattutto per quelli che si dedicano al bene degli altri.
Salmo 67 Hai preparato, o Dio, una casa per il povero
I giusti si rallegrano,
esultano davanti a Dio
e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome:
“Signore” è il suo nome.
Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri.
Pioggia abbondante hai riversato, o Dio,
la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il suo popolo,
in quella che, nella tua bontà,
hai reso sicura per il povero, o Dio.
E’ un’impresa piuttosto ardua tentare di descrivere in poche righe quello che è stato definito “Il Titano dei Salmi”, una delle pagine più complesse del Salterio. Quasi tutti i commentatori, aprendo le loro
analisi di questo superbo “Te Deum” al Signore del cosmo e della storia, scrivevano frasi come questa: “Ecco il più difficile e il più oscuro di tutti i Salmi, a livello testuale ed esegetico” (M.Dahood)
Eppure questo cantico, la cui origine risale probabilmente ai primordi della poesia ebraica come il Salmo 18/17 (Davide? X sec. a.C), nonostante l’appannamento e l’usura dovuta alla trasmissione, riesce in ogni caso ad abbagliare ad affascinare. Una pagina corrotta, lesionata e macchiata che lascia però intravedere l’antico splendore delle sue miniature.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile, né a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola.
Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, Mediatore dell’alleanza nuova.
Eb 12,18-19.22-24
L’autore della lettera agli Ebrei dopo il brano esortativo sulla necessità di vigilare, prosegue mettendo in luce, l’esperienza degli israeliti ai piedi del monte Sinai e quella dei cristiani. Anzitutto egli presenta la prima parte , in cui descrive che cosa i cristiani si sono lasciati alle spalle quando hanno aderito a Cristo: “Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile, né a un fuoco ardente, né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola”. L’autore ricava i dettagli di questa descrizione dal racconto della teofania del Sinai (Es 19,9-25), che riporta per i suoi lettori cristiani. Egli presenta l’incontro con Dio, tipico della prima alleanza, come mediato da realtà materiali, cosmiche, come un fuoco ardente, oscurità, tenebra e tempesta, accompagnate da squilli di tromba e suono di parole, cioè parole in forma di tuoni. Il popolo è talmente impaurito che scongiura Dio di non rivolgergli più la parola. Naturalmente per l’autore si tratta di una paura colpevole, che equivale a un rifiuto della parola di Dio. Il testo procede nei vv. 20-21, omessi dalla liturgia, che ingrandiscono la distanza tra Dio, presente nella sacra montagna, e il popolo. Il mediatore stesso di questa alleanza è un Mosè impaurito e tremante, terrificato dallo spettacolo che si presenta davanti ai suoi occhi.
In contrasto con quanto è capitato al popolo dell’antica alleanza, i cristiani hanno fatto un’esperienza positiva e rasserenante: “Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all'adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, Mediatore dell’alleanza nuova”.
L’esperienza dei credenti in Cristo viene così presentata in chiave positiva, come una realtà gioiosa, piena di luce. L’autore non si ferma a descrivere la vita di una normale comunità cristiana, ma presenta la Gerusalemme celeste verso la quale i credenti in Cristo tendono. Ciò che li aspetta è il santuario celeste dove Gesù è entrato, mediante il suo sangue, come mediatore della nuova alleanza e nel quale si trova con Dio, con gli angeli e con tutto il popolo eletto degli ultimi tempi. Questa descrizione ha lo scopo di dirigere l’attenzione alle realtà ultime, verso le quali il cristiano è indirizzato, ma al tempo stesso di fargli capire che esse sono già anticipate nella vita della comunità a cui appartiene. con tutti i limiti che possono caratterizzarla. Non tutto si è ancora realizzato, ma se la meta a cui bisogna tendere è ben chiara, ogni difficoltà si potrà superare senza scoraggiarsi.
Dal vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano ad osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cèdigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l'ultimo posto. Invece quando sei invitato, va' a metterti all'ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Disse poi a colui che l'aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
Lc 14, 1a,7-14
Questo brano del Vangelo di Luca segue di poco la scena in cui abbiamo lasciato Gesù che concludeva il suo insegnamento dicendo: ci sono alcuni tra gli ultimi che saranno primi e alcuni tra i primi che saranno ultimi”. Non viene riportato l’episodio in cui dei farisei (probabilmente quelli che credevano in lui) erano andati per avvertirlo che Erode lo voleva uccidere e Gesù risponde loro: è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme. A questo punto pronuncia la sua profezia su Gerusalemme.
Il capitolo 14 inizia riportandoci Gesù invitato a pranzo nel giorno di sabato da uno dei capi dei farisei, invito non certo mosso da buone intenzioni, ma per metterlo alla prova. Infatti Gesù vede un idropico e sfidando i farisei chiede loro: È lecito o no curare di sabato?”e non ottenendo risposta lo guarì. In questo brano vediamo che Gesù si limita a dare dei suggerimenti scaturiti dal fatto che molti invitati ambivano ad andare ai primi posti: “Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, … Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”, Poi rivolgendosi a chi lo aveva invitato dice: “Quando offri un pranzo … non invitare i tuoi amici,… né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti ….”
Gesù presenta una solidarietà disinteressata e universale, a imitazione del comportamento di Dio, che si prende cura dei più bisognosi ed emarginati. Gesù poi aggiunge che la ricompensa a tutto questo ci sarà alla risurrezione dei giusti”. Con questo commento Gesù non vuole dire che la ricompensa umana, a cui si è rinunziato, sarà sostituita con una ricompensa divina alla fine dei tempi , ma piuttosto: chi si comporta in modo disinteressato ottiene la beatitudine del regno, cioè raggiunge già su questa terra quella felicità che consiste appunto nel fatto stesso di essere giusti, cioè di aver dato un senso alla propria vita.
Il banchetto è simbolo della comunione eucaristica: esprime la gioia della festa, il piacere dell’amicizia, il bisogno d’incontro e di dialogo, la gioia di dividere ciò che si possiede o si spera, non può essere una casta di privilegiati o di arrivisti, né può essere chiusa a certe categorie. Essa deve essere aperta a tutti, anche a chi non ha niente. Gesù ci offre una regola per l’ingresso nel Suo regno: la semplicità, l’umiltà e il rispetto della giustizia .
Le letture liturgiche di questa domenica ci portano a domandarci : a chi è riservata la salvezza? A pochi eletti prescelti esclusivamente dalla libera iniziativa di Dio o all'intera umanità?.
Nella prima lettura, presa dall’ultima pagina del libro del profeta Isaia, ci dice che tutti i popoli della terra non devono sentirsi estranei nella Gerusalemme dello spirito perchè là c’è un libro su cui anche i loro nomi sono stati scritti personalmente da Dio stesso.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore ci dice che anche la prova dolorosa, che sul momento provoca tristezza, può essere il segno dell’amore del Padre, che al figlio prepara un premio grande di pace e di giustizia.
Nel Vangelo di Luca, Gesù riconosce che la porta della salvezza è stretta, ma suggerisce di fare qualche sforzo per entrare. Dichiara poi che tra i salvati, cioè tra coloro che cercano l’incontro con la verità cristiana:”vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”. La classificazione di merito tra i credenti la stabilisce soltanto l’intensità della fede che è nutrita dall’amore.
Dal libro del profeta Isaìa
Così dice il Signore: “Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti. Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore. Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti, dice il Signore”.
Is 66,18-21
Questo brano appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio. E’ stato composto con ogni probabilità in un periodo che precede le guerre maccabaiche, e dimostra una grande apertura universalistica: JHWH è il Dio di tutte le nazioni e si serve dei giudei sparsi in mezzo alle nazioni per farsi conoscere anche da loro. Il brano inizia con un oracolo in cui Dio stesso dice che cosa sta per fare: «Io verrò a radunare tutte le genti e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria. Io porrò in essi un segno e manderò i loro supèrstiti alle popolazioni di Tarsis, Put, Lud, Mesec, Ros,Tubal e Iavan, alle isole lontane che non hanno udito parlare di me e non hanno visto la mia gloria; essi annunzieranno la mia gloria alle genti.
Richiamandosi all’annunzio della venuta di JHWH per giudicare il mondo, il testo sottolinea che la condanna dei popoli non costituisce l’unico scopo dell’intervento divino. Il Signore viene anzitutto per radunare tutti i popoli e promette anche a loro che vedranno la sua gloria, cioè avranno anche loro accesso alla salvezza. L’elenco dei popoli, ricavata da Ezechiele, contiene nomi che risvegliano l’immaginazione di terre lontane e lingue diverse. Ciò serve a situare la promessa in un grandioso scenario geografico che rievoca l’universalità delle genti. Vengono nominate Tarsis, che si trova in Sardegna o nella Spagna meridionale, Put che è situata in Egitto, Lud in Asia Minore, Mesech, Ros e Tubal vicino al mar Nero e infine la Grecia e in particolare le colonie ionie sulla costa occidentale dell’Asia Minore e delle isole. Queste nazioni non hanno sentito parlare di JHWH e non sono ancora venute a contatto con lui.
L’autore spiega poi quale sarà la conseguenza dell’intervento divino: Ricondurranno tutti i vostri fratelli da tutte le genti come offerta al Signore, su cavalli, su carri, su portantine, su muli, su dromedari al mio santo monte di Gerusalemme - dice il Signore -, come i figli d’Israele portano l'offerta in vasi puri nel tempio del Signore.. In questo versetto si riprende l’immagine del pellegrinaggio escatologico delle nazioni a Gerusalemme e al tempio. È questa una delle idee centrali del Terzo Isaia (60,1-22; 62,1-9), che preannunzia la venuta a Gerusalemme delle nazioni straniere che portano i loro doni all’unico vero Dio.
Qui invece le nazioni non portano doni materiali, ma riconducono alla loro terra tutti i giudei che erano ancora dispersi in tutte le parti del mondo.
Infine Dio indica ciò che intende fare: “Anche tra loro mi prenderò sacerdoti e levìti…”.
Questa conclusione è piuttosto rivoluzionaria in quanto indica il superamento di un sacerdozio che apparteneva unicamente al popolo di Israele ed in particolare della casta sacerdotale. Ormai tutti potranno essere ammessi al servizio del tempio, anche se appartengono a popolazioni straniere che per diritto non potevano entrare neppure nei cortili più interni del tempio.
Salmo 116 - Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore
Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode.
Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore
E’ impossibile dimenticare il Salmo 117(116), il più breve del Salterio (17 parole nell’originale ebraico, delle quali solo 9 rilevanti), dopo aver ascoltato lo stupendo “Laudate Dominum” in fa minore presente nei “Vespri solenni di un confessore” di Mozart (1780)…
Il mini-inno è una miniatura puntuale del genere letterario innico. Tipico è l’invitatorio alla lode: Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti,cantate la sua lode. Segue il contenuto dell’inno che è introdotto in ebraico da un “Kî “perchè”, contenuto espresso attraverso i due attributi divini fondamentali, tipici della teologia biblica dell’alleanza, hesed, l’”amore” e ‘emet, la“fedeltà”.
Questi due vocaboli sono in pratica un’endiadi per esaltare l’eterna fedeltà amorosa di Dio, nonostante i tradimenti dell’uomo.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, avete già dimenticato l'esortazione a voi rivolta come a figli: "Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio". È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli;e qual è il figlio che non è corretto dal padre?
Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati. Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire.
Eb 12,5-7, 11-13
In questo brano l’autore della lettera agli ebrei affronta il tema che la sofferenza ha in un cammino di fede. Prima analizzando la sofferenza come correzione, cita dei versetti tratti dal libro dei proverbi (3,11-12), dice "Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d'animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio".:e commenta È per la vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre. Questo comportamento di Dio con i suoi fedeli è descritto alla luce di quelli che erano i metodi educativi di allora, secondo i quali un padre, proprio perché ama i propri figli, li educa con castighi di vario tipo. Forse l’autore ha in mente il tema di Gesù, il Figlio, che proprio attraverso quello che patì imparò l’obbedienza (Eb 5,8). Dopo aver esposto la sua tesi sull’importanza della correzione, l’autore fa una sua ulteriore riflessione: Certo, sul momento, ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.
La sofferenza, anche vista come una correzione ispirata dall’amore paterno di Dio, non fa certo piacere anche se la sua importanza e il suo significato si capiscono solo dopo, quando se ne vedono i frutti, che consistono nella pace e nella giustizia.
Infine egli conclude: “Perciò rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” L’esortazione contenuta in questi due versetti è ispirata a Isaia (35,3,) quando il profeta si rivolgeva agli ebrei esuli in Babilonia per annunziare loro la prossimità della salvezza e la possibilità di ritornare nella loro terra; e al Libro dei Proverbi (4,26) in cui è riportata una massima sapienziale che invita alla prudenza e all’impegno:”Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie siano ben rassodate”.
Questo brano è arduo da tradurre nel quotidiano, per cui è opportuno riconoscere che solo in un contesto di fedeltà assoluta, sulla linea di Gesù, le sofferenze che accompagnano l'esistenza dei credenti possono diventare un’occasione per purificare la fede da illusione e interessi superficiali e per scoprire un nuovo rapporto con Dio come Padre. In breve, le prove possono diventare espressione e strumento della “pedagogia” divina solo per chi ha fatto una scelta di fedeltà a Dio che trova in Gesù la sua fonte e il suo modello ideale.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Disse loro: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno. Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”.
Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete: Allontanatevi da me voi tutti operatori di ingiustizia! Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi e vi sono primi che saranno ultimi”.
Lc 13, 22-30
Si può subito notare che questo brano, tratto dal Vangelo di Luca, soprattutto se messo in relazione con lo stesso episodio raccontato da Matteo, risente chiaramente della polemica sul rigetto dei Giudei e l’ammissione dei pagani nella Chiesa.
Il testo racconta che Gesù mentre è in cammino verso la città santa, si dedica all’insegnamento nelle città e nei villaggi in cui passa. Luca riferisce che un tale interpella Gesù facendogli una domanda provocatoria: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. . Il modo in cui questa domanda è formulata presuppone che Gesù si sia espresso in termini tali da far pensare che effettivamente il numero dei salvati sia esiguo, infatti poco prima egli aveva usato l’immagine del “piccolo gregge” e aveva paragonato il regno a un granello di senapa e a un pugno di lievito. Gesù non risponde direttamente alla domanda sul numero dei salvati, ma rivolge loro un’esortazione: “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare ma non ci riusciranno” . (La risposta di Gesù è ripresa dal brano di Matteo, riportato al termine del discorso della montagna) . Gesù poi aggiunge : Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Questa frase costituisce in Matteo la conclusione della parabola delle vergini prudenti e delle vergini stolte mentre in Luca la stessa frase viene fatta dire al padrone che chiude la porta di casa lasciando fuori alcune persone che bussano e insistono per entrarvi. Luca precisa ulteriormente il pensiero di Gesù riportando un’altra frase Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”.
Da queste parole appare che Gesù si identifica con il padrone di casa e coloro che sono rimasti fuori sono persone che pensano di avere il diritto di entrare nella sala. In Matteo questo diritto si fonda sul fatto che nel suo nome hanno profetato, hanno cacciato demoni e hanno fatto miracoli. Secondo Luca la loro comunione con Gesù si riduce al fatto che essi hanno mangiato e bevuto davanti a lui ed egli ha predicato nelle piazze dei loro villaggi. Sembra quindi che, mentre per Matteo si tratta di discepoli non coerenti con le esigenze del vangelo, secondo Luca gli esclusi sono i giudei che hanno ascoltato la sua predicazione e non si sono convertiti. È probabile dunque che Luca riporti la frase nel suo significato originario, in funzione cioè dell’ambiente in cui Gesù predicava, mentre Matteo l’avrebbe adattata a una problematica interna alla prima comunità. Luca dunque ha inteso attualizzare l’insegnamento di Gesù per i discepoli del suo tempo.
Coloro che, in qualità di discepoli hanno familiarità con il Signore e ne ascoltano gli insegnamenti si potrebbero porre anche adesso una domanda cruciale: “Noi cristiani ci salveremo?” Le parole di Gesù danno sempre una risposta a chi sa ascoltare: L’essere cristiani non è il mezzo magico di salvezza, perchè la salvezza viene dall’incontro dello sforzo umano con il dono di Dio.
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“Non è importante sapere quanti si salvano ma è importante piuttosto sapere qual è il cammino per la salvezza”.
Lo ha detto papa Francesco, commentando il Vangelo odierno e ha poi spiegato il significato di “porta stretta” . Si tratta di una immagine che “ritorna varie volte nel Vangelo” e che “richiama quella della casa, del focolare domestico, dove troviamo sicurezza, amore, calore”.
La porta di cui Gesù parla è, in definitiva, lui stesso. La porta di Gesù “non è mai chiusa, è aperta sempre e a tutti, senza distinzione, senza esclusioni, senza privilegi. Tutti sono invitati a varcare questa porta – ha proseguito il Papa - a varcare la porta della fede, ad entrare nella sua vita, e a farlo entrare nella nostra vita, perché Lui la trasformi, la rinnovi, le doni gioia piena e duratura”.
Al tempo stesso, tuttavia, al giorno d’oggi “passiamo davanti a tante porte che invitano ad entrare promettendo una felicità che dura un istante, che si esaurisce in se stessa e non ha futuro”. Ciò ci mette dinnanzi a una scelta: “Noi per quale porta vogliamo entrare? E chi vogliamo far entrare per la porta della nostra vita?”.
Allora il Pontefice ha affermato: “non abbiamo paura di varcare la porta della fede in Gesù, di lasciarlo entrare sempre di più nella nostra vita, di uscire dai nostri egoismi, dalle nostre chiusure, dalle nostre indifferenze verso gli altri”.
La porta di Gesù è stretta, “non perché sia una sala di tortura, ma perché ci chiede di aprire il nostro cuore a Lui, di riconoscerci peccatori, bisognosi della sua salvezza, del suo perdono, del suo amore, di avere l’umiltà di accogliere la sua misericordia e farci rinnovare da Lui”, ha spiegato.
Essere cristiani, non è “avere un’«etichetta», ma è vivere e testimoniare la fede nella preghiera, nelle opere di carità, nel promuovere la giustizia, nel compiere il bene”, ha aggiunto Francesco, ricordando che “per la porta stretta che è Cristo deve passare tutta la nostra vita”.
Papa Francesco - Angelus - 25 agosto 2013
La festa dell’Assunzione di Maria in Cielo – anima e corpo - è il dogma solennemente proclamato da Pio XII il 1 novembre 1950. Maria che ha collaborato alla salvezza del mondo, dal cielo lo protegge, e come madre non lascia mai i suoi figli soli a lottare contro il male.
Le letture che la liturgia ci porta a meditare ci aiutano a considerare più in profondità questo grande mistero.
Nella prima lettura tratta dal libro dell’Apocalisse nell’immagine della donna possiamo scorgere il popolo di Dio, la Chiesa e Maria. Maria è il segno e lo strumento dell’alleanza tra Dio e l’uomo, è il simbolo della presenza divina operante nella storia e nello spazio.
Nella seconda lettura tratta dalla prima lettera ai Corinzi, Paolo promette che “In Cristo tutti riceveranno la vita”. L’assunzione al cielo di Maria è il frutto della risurrezione di Cristo, che è la “primizia” dei risorti. Maria anticipa il destino di gloria promesso a “quelli che sono di Cristo”.
Nel brano del Vangelo di Luca, ci viene presentata la visita premurosa di Maria alla cugina Elisabetta. Alla lode della cugina, Maria risponde con un gioioso cantico di lode a Dio, che ha fatto in lei cose grandi.
Dal libro dell’Apocalisse di S.Giovanni apostolo
Si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e apparve nel tempio l’arca della sua alleanza.
Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta, e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra.
Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito.
Essa partorì un figlio maschio, destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro, e suo figlio fu rapito verso Dio e verso il suo trono. La donna invece fuggì nel deserto, dove Dio le aveva preparato un rifugio. Allora udii una voce potente nel cielo che diceva:
«Ora si è compiuta
la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio
e la potenza del suo Cristo».
Ap 11,19a – 12,1-6ª.10ab
Il libro dell'Apocalisse, che è stato scritto dall’Apostolo Giovanni o da un suo discepolo nell’Anno 95, quando si trovava in esilio all’isola di Patmos, si compone di 22 capitoli. E’ la rivelazione di Gesù Cristo come Egli è, (da qui il nome Apocalisse=rivelazione) il Signore dei signori, il Re dei re, il quale si riappropria di ciò che gli appartiene: la terra.
Anche nel linguaggio comune si è sentito parlare del "settimo sigillo", questo perché nell'Apocalisse la prima serie di giudizi è dettata dall'apertura di sette sigilli.
In Israele ai tempi dell'Antico Testamento l'atto di proprietà veniva redatto, quindi arrotolato e sigillato, in caso di contestazione l'atto di proprietà veniva aperto.
Ecco, Cristo nell'Apocalisse apre i sigilli perché ha deciso di riprendere possesso della terra.
L'Apocalisse è il libro della Bibbia che completa le informazioni profetiche rispetto al piano di Dio. Descrive in modo molto dettagliato gli eventi futuri dell'umanità. In sostanza l'ultimo libro della Bibbia, forse il più importante per quanto riguarda le profezie e la comprensione del piano di Dio, è diviso in cinque parti:
1. Capitoli da 1 a 3. Lettera alle sette chiese dell'Asia, Dio usa Giovanni, l'autore del libro, per rivelare alla Chiesa le cose che dovranno avvenire.
2. Capitoli 4 e 5. L'affermazione dell'autorità divina di Cristo sulla terra.
3. Capitoli da 6 a 19. Il periodo di sette anni della Tribolazione, descritta attraverso gli eventi ed i giudizi, periodo che inizia con l'apertura del primo sigillo, il cavallo bianco cavalcato dall'Anticristo, con l'arco senza le frecce, prende il potere senza fare la guerra, il cavallo bianco sembra significare che abbia usurpato il ruolo di Cristo. Il periodo termina con Gesù che viene cavalcando un cavallo bianco, seguito dai suoi eserciti, non ci sarà battaglia, viene posta fine alla Tribolazione.
4. Capitolo 20. Il regno dei mille anni governato da Gesù Cristo, al termine dei quali ci sarà l'ultima ribellione dell'umanità, l'apertura dei libri ed il giudizio universale relativo a quelli che non hanno la salvezza di Cristo.
5. Capitoli 21 e 22. La vita eterna con Dio con dei nuovi cieli e la nuova terra, il compimento finale del Piano di Dio.
Questo brano, che la liturgia ci presenta, tratto dal capitolo 12, si può dire è la pagina più bella dell’Apocalisse:
«Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle...».
L’intero capitolo è dominato anche da un altro “segno”, quello di un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra, ed è tutto intarsiato di allusioni a testi biblici.
Sono state date nel tempo numerose e valide interpretazioni, la più comune è quella che identifica nella donna, Maria che genera il Cristo. In realtà il pensiero di Giovanni è probabilmente orientato in altra direzione. La donna simboleggia anche il popolo di Dio, prima l’antico Israele, da cui Gesù ha preso carne, l’altro il nuovo Israele, la Chiesa, corpo di Cristo. Entrambi sono alle prese con le persecuzioni del dragone, cioè di Satana, qui descritto con simboli del dominio. Il bimbo maschio, dato alla luce dalla Donna, è evidentemente il Messia, visto nella sua realtà storica.
In questo testo sia S.Agostino che S.Bernardo hanno visto nella Donna dell’Apocalisse il simbolo di Maria, come altri testi sacri che richiamano il mistero della Chiesa, possono essere applicati alla Vergine Maria, in quanto il vero mistero che la circonda, s’inserisce nel mistero della Chiesa e insieme lo illumina, come lo ha sottolineato il Concilio Vaticano II.
Salmo 44 - Risplende la Regina, Signore, alla tua destra.
Figlie di re stanno fra le tue predilette;
alla tua destra sta la regina, in ori di Ofir.
Ascolta, figlia, guarda, porgi l'orecchio,
dimentica il tuo popolo
e la casa di tuo padre.
Il re è invaghito della la tua bellezza.
E’ lui il tuo Signore: rendigli omaggio.
Dietro a lei le vergini sue compagne
Condotte in gioia ed esultanza;
guidate in gioia ed esultanza,
sono presentate nel palazzo del re.
Riletto in prospettiva spirituale già nella trasmissione giudaica del testo con probabile riferimento alla teologia dell’amore mistico tra Israele e il suo Dio, questo salmo è stato interpretato dal giudaismo posteriore e dal cristianesimo in chiave messianica. Non è mancata un’applicazione ecclesiale e mariologica nell’ambito della liturgia cattolica. Ma già il Talmud, introducendolo nel rituale della benedizione degli sposi – che avrebbero dovuto ripetere anche nei sette giorni successivi al matrimonio – ha recuperato il senso originale del carme. Un carme, d’altra parte, molto raffinato a livello letterario e colmo di simboli e di colori festosi.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla 1^ lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti.
Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo.
Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.
E’ necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi
1Cor 15,20-27
Paolo scrisse intorno al 53 a.C., da Efeso, questa 1^ lettera ai Corinzi, che è considerata una delle più importanti dal punto di vista dottrinale. Vi si trovano infatti informazioni e decisioni su numerosi problemi cruciali del Cristianesimo primitivo, sia per la sua "vita interna": purezza dei costumi, svolgimento delle assemblee religiose e celebrazione dell'eucaristia, uso dei carismi, sia per i rapporti con il mondo pagano.
Nell’ultimo capitolo della lettera Paolo, rispondendo a problemi che gli avevano posto, affronta il tema della risurrezione finale dei credenti. Nella prima parte egli dimostra la sua tesi sulla risurrezione finale (vv. 1-34), nella seconda (vv. 35-53) ne illustra invece le modalità; egli conclude la sua esposizione con un inno di lode a Cristo vincitore della morte (vv. 54-58).
Il rifiuto della risurrezione dei credenti porterebbe all’assurdo di negare di conseguenza anche la risurrezione stessa di Cristo. Ma questo metterebbe in crisi la loro fede stessa perciò Paolo riafferma il punto centrale di questa fede:”Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti”
Per Paolo la risurrezione di Cristo è una primizia non solo perché precede la risurrezione di tutti i credenti, ma anche e soprattutto perché ne è il modello e la causa. Il concetto di “primizia” viene ulteriormente elaborato da Paolo alla luce della concezione biblica secondo cui i membri di un gruppo formano una sola cosa con colui che ne è il capo e che li rappresenta. Rifacendosi a questa concezione Paolo afferma in due frasi disposte in modo parallelo che, come la morte è originata da un uomo, altrettanto deve essere per la risurrezione; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.
In quanto solidale con Adamo l’umanità fa fin d’ora l’esperienza della morte mentre la risurrezione dai morti invece per ora si è attuata solo in Cristo. La risurrezione finale dei credenti è dunque una conseguenza della comunione con Cristo, di cui la solidarietà in Adamo appare solo come una realtà negativa ormai passata.
A questo punto l’apostolo sente di dover fare una precisazione circa i tempi della salvezza. Egli afferma: “Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo” Tra la risurrezione di Cristo, che è un evento già attuato, e quella dei credenti, che avrà luogo alla fine, c’è non solo una diversità di tempo, ma anche di “ordine”. Questa diversità proviene dal fatto che Cristo è la “primizia”: la Sua risurrezione prelude perciò a quella dei credenti, la quale però avrà luogo solo “alla sua venuta”, cioè al momento del suo ritorno glorioso.
Nella seconda parte del brano Paolo collega strettamente il regno di Cristo con il regno di Dio, mettendo in luce il loro avvicendarsi nel piano della salvezza. Egli ritiene che con la risurrezione di Cristo abbia avuto inizio il suo regno messianico, che deve durare fino alla fine, quando egli “consegnerà il regno a Dio Padre” e ciò non avverrà però prima che egli abbia “ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza”. Paolo sottolinea espressamente che l’ultimo nemico ad essere annientato sarà proprio la morte, la cui sconfitta avrà luogo appunto mediante la risurrezione dei morti. Se Cristo non fosse capace di eliminarla, non sarebbe veramente il Signore nel quale la comunità professa la sua fede.
L’apostolo infine precisa (nel versetto successivo non riportato nel brano): “Quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche il Figlio sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti” da questo “tutto” è escluso colui che gli ha sottomesso ogni cosa, cioè il Padre.
Nella prospettiva di Paolo l’attesa della risurrezione finale implica quindi la lotta, insieme con Cristo, contro tutte le realtà negative che condizionano la vita umana, quali l’ingiustizia, la violenza, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
È proprio la speranza della risurrezione, in quanto implica una salvezza che abbraccia tutte le cose create, che spinge il credente a non chiudersi nel suo individualismo, ma a impegnarsi perché il mondo nuovo promesso da Gesù cominci ad apparire già ora nel corso della storia.
Dal vangelo secondo Luca
In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”. Allora Maria disse:
“L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio;
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva promesso ai nostri padri,
ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre”.
Maria rimase con lei circa tre mesi,poi tornò a casa sua.
Lc 1, 39-56
In questo brano Luca ci “dipinge a parole” l’episodio della Visitazione, che è il mistero della comunicazione muta di due donne diverse per età, ambiente, caratteristiche.
Due donne, ciascuna delle quali porta un segreto difficile a comunicare, il segreto più intimo e più profondo che una donna possa sperimentare sul piano della vita fisica: l’attesa di un figlio. Elisabetta fatica a dirlo a causa dell’età, della novità, della stranezza.
Maria fatica perché non può spiegare a nessuno le parole dell’angelo. Se Elisabetta ha vissuto, secondo il Vangelo, nascosta per alcuni mesi nella solitudine, infinitamente più grande è stata la solitudine di Maria. Forse per questo parte “in fretta”; ha bisogno di trovarsi con qualcuno che comprenda e, da ciò che le ha detto l’angelo, ha capito che la cugina è la persona più adatta. Quando si incontrano, Maria la saluta per prima, ed Elisabetta, come abbracciata da quel saluto, esclama: “Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo grembo! che devo che la madre del mio Signore venga da me?” Immaginiamo l’esultanza e lo stupore di Maria che si sente a sua volta compresa, amata, esaltata. Sente che la sua fede nella Parola è stata riconosciuta.
Il canto del Magnificat è la celebrazione gioiosa e riassuntiva di tutta la storia della salvezza che da Maria, nella quale trova compimento, viene ripresa e rifatta nelle sue tappe risalendo fine alle origini. Questa storia, che sconvolge le situazioni umane, è condotta da Dio senza interruzioni, con il criterio dell’amore misericordioso.
Oggi la Chiesa celebra una delle feste più importanti dedicate alla Beata Vergine Maria: la festa della sua Assunzione. Al termine della sua vita terrena, la Madre di Cristo è salita in anima e corpo al Cielo, cioè nella gloria della vita eterna, nella piena comunione con Dio.
L’odierna pagina del Vangelo ci presenta Maria che, subito dopo aver concepito Gesù per opera dello Spirito Santo, si reca dall’anziana parente Elisabetta, anch’essa miracolosamente in attesa di un figlio. In questo incontro pieno di Spirito Santo, Maria esprime la sua gioia con il cantico del Magnificat, perché ha preso piena coscienza del significato delle grandi cose che si stanno realizzando nella sua vita: per mezzo di lei giunge a compimento tutta l’attesa del suo popolo.
Ma il Vangelo ci mostra anche qual è il motivo più vero della grandezza di Maria e della sua beatitudine: il motivo è la fede. Infatti Elisabetta la saluta con queste parole: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto». La fede è il cuore di tutta la storia di Maria; lei è la credente, la grande credente; lei sa – e lo dice – che nella storia pesa la violenza dei prepotenti, l’orgoglio dei ricchi, la tracotanza dei superbi. Tuttavia, Maria crede e proclama che Dio non lascia soli i suoi figli, umili e poveri, ma li soccorre con misericordia, con premura, rovesciando i potenti dai loro troni, disperdendo gli orgogliosi nelle trame del loro cuore. Questa è la fede della nostra Madre, questa è la fede di Maria!
Il Cantico della Madonna ci lascia anche intuire il senso compiuto della vicenda di Maria: se la misericordia del Signore è il motore della storia, allora non poteva «conoscere la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita» (Prefazio). Tutto questo non riguarda solo Maria. Le “grandi cose” fatte in lei dall’Onnipotente ci toccano profondamente, ci parlano del nostro viaggio nella vita, ci ricordano la meta che ci attende: la casa del Padre. La nostra vita, vista alla luce di Maria assunta in Cielo, non è un vagabondare senza senso, ma è un pellegrinaggio che, pur con tutte le sue incertezze e sofferenze, ha una meta sicura: la casa di nostro Padre, che ci aspetta con amore. E’ bello pensare questo: che noi abbiamo un Padre che ci aspetta con amore, e che anche la nostra Madre Maria è lassù e ci aspetta con amore.
Intanto, mentre trascorre la vita, Dio fa risplendere «per il suo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza» (ibid.). Quel segno ha un volto, quel segno ha un nome: il volto luminoso della Madre del Signore, il nome benedetto di Maria, la piena di grazia, perché ha creduto nella parola del Signore: la grande credente!
Dall’Angelus di Papa Francesco nella solennità dell’assunzione di Maria nell’agosto del 2015
La liturgia di questa domenica ci propone delle letture non facili da comprendere e ci possono lasciare un po’ sconcertati.
Nella prima lettura, vediamo come il profeta Geremia, anticonformista e paladino della verità, non ha timore di continuare a smascherare le ipocrisie, anche a costo della propria vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, l’autore ricorda che Cristo “si sottopose alla croce, disprezzando il disonore” e che “ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori” perchè gli uomini non si perdessero d’animo.
Nel Vangelo di Luca, Gesù dà un messaggio radicale ed esigente: i Cristiani, autentici seguaci di Cristo, potranno essere posti di fronte ad una scelta, che data la loro libertà, provocherà non la pace, ma la divisione anche nelle proprie famiglie. Dovranno decidersi, anche a costo di incomprensioni: chi persisterà avrà la forza di sopportare ostilità se porrà la sua fiducia in Lui che porterà a compimento la sua opera aiutandoli a non cadere nello scoraggiamento
Dal libro del profeta Geremìa
In quei giorni, i capi dissero al re: «Si metta a morte Geremìa, appunto perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in questa città e scoraggia tutto il popolo dicendo loro simili parole, poiché quest’uomo non cerca il benessere del popolo, ma il male». Il re Sedecìa rispose: «Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi».
Essi allora presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna di Malchìa, un figlio del re, la quale si trovava nell’atrio della prigione. Calarono Geremìa con corde. Nella cisterna non c’era acqua ma fango, e così Geremìa affondò nel fango.
Ebed-Mèlec uscì dalla reggia e disse al re: «O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremìa, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città». Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: «Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremìa dalla cisterna prima che muoia».
Ger 38,4-6.8-10
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano riporta gli avvenimenti dell’anno 588 in cui i Babilonesi sospesero l’assedio a Gerusalemme per fronteggiare l’Egitto, ma Geremia si rifiuta di dire che "tutto va bene", come vorrebbero i consiglieri potenti del re Sedecia. Essi considerano Geremia un pericolo per la nazione solo perché non fa loro da spalla e fa traballare il loro potere di fronte al re il quale ammette: “Ecco, egli è nelle vostre mani; il re infatti non ha poteri contro di voi”. Allora i capi dell’esercito gonfi di presunzione presero Geremìa e lo gettarono nella cisterna…”melmosa, simbolo della morte e del regno dei morti: e così Geremìa affondò nel fango, fisicamente, psicologicamente e simbolicamente. Ci vuole tutta l'onestà e l'intelligenza del consigliere regale Etiope, Ebed-Melech per convincere Sedecia e ordinargli di tirar fuori il “profeta dalla cisterna prima che muoia”.
Geremia mostra in modo concreto quanto soffre chi vuole rimanere fedele a Dio e in questo richiama vivamente la figura di Gesù sofferente e crocifisso. Ma per l'intervento di uno straniero etiope, Geremia è tirato fuori da una cisterna: richiamo velato alla risurrezione vera di Gesù.
Salmo 39 - Signore, vieni presto in mio aiuto
Ho sperato, ho sperato nel Signore
ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose,
dal fango della palude;
ha stabilito i miei piedi sulla roccia,
ha reso sicuri i miei passi.
Ma io sono povero e bisognoso:
di me ha cura il Signore.
Tu sei mio aiuto e mio liberatore:
mio Dio, non tardare.
… Raffinata è l’opposizione simbolica tra la solidità e la stabilità della roccia che è Dio e la melma fangosa della palude stigia degli inferi. L’orante è, quindi, assediato dal principe degli avversari, la morte, dal cui gorgo nauseabondo solo Dio lo può liberare …
L’orante spera, quindi, qualcosa che parrebbe impossibile, l’allontanamento dalla morte. Ma Dio è Signore e dominatore anche della morte…
Commenta S. Agostino “Cantate con sicurezza il cantico nuovo nella nuova via che Dio vi ha fatto conoscere e così tutti i popoli ascoltino e adorino”.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, anche noi, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento.
Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore, e siede alla destra del trono di Dio.
Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato.
Eb 12,1-4
L’autore della lettera agli Ebrei, dopo aver presentato i testimoni della fede citando i nomi dei primi patriarchi, ora espone l’atteggiamento che deve avere il cristiano. Sembra immaginare una scena grandiosa: il cristiano si trova in uno stadio, gremito dei grandi testimoni della fede, in procinto di entrare in gara. Deve innanzitutto spogliarsi di tutto ciò che può renderlo meno agile nella gara, soprattutto il peccato, poi non deve più accontentarsi di guardare ai santi antichi, ma deve fissare lo sguardo sull’unico e vero modello della corsa e della vita cristiana, Gesù, autore e perfezionatore della fede. Dopo aver indicato l’esempio di Cristo, l’attenzione ritorna immediatamente al comportamento dei credenti a cui ribadisce: ”Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo. …
Per i cristiani, tentati di cedere alla stanchezza o scoraggiamento di fronte alle prove, è importante pensare alle sofferenze che ha sopportato Cristo. La perseveranza di Gesù è stata fortemente messa alla prova dai Suoi persecutori, ma non per questo Egli è venuto meno alla Sua scelta, perciò anche i Suoi seguaci devono imparare a non lasciarsi andare alla stanchezza e allo sconforto.
L’impegno nella fede deve dunque consistere non solo nel tirarsi fuori da un mondo ancora dominato dal peccato, ma nel lottare con tutte le proprie forze, fino all’effusione del sangue, contro le strutture di peccato presenti nel mondo, pur sapendo che la liberazione definitiva avverrà solo alla fine dei tempi. E in questo impegno la loro forza non può derivare se non dall’esempio di Gesù.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».
Lc 12,49-53
Questo brano fa ancora parte del discorso di Gesù sulla fiducia in Dio. Dopo il discorso sul distacco dai beni terreni, la fiducia nella provvidenza e l’attesa del Signore che viene (12,32-48) il testo che abbiamo ha come tema la “sfida del tempo presente”.
I primi due detti di Gesù sono piuttosto enigmatici: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!” Nel primo detto, il fuoco portato da Gesù poteva indicare originariamente, in chiave escatologica, il giudizio divino purificatore, che rappresentava un aspetto essenziale del regno annunziato da Gesù. È possibile anche che questa attesa fosse collegata con il tema della parola di Dio che Gesù predicava con il desiderio che essa raggiungesse quanto prima il suo scopo. Nel contesto attuale il fuoco può rappresentare la venuta nel giorno di Pentecoste dello Spirito (At 2,3) che, dopo la prova dolorosa della passione-morte di Gesù, spingerà i discepoli ad annunziare il vangelo in tutto il mondo. L’immersione di Gesù nel battesimo indica invece la sua morte imminente: è l’immersione nel destino di sofferenza e di morte, che lo attende a Gerusalemme, dove è diretto. Poi Luca attribuisce a Gesù un altro detto il più provocatorio che Gesù abbia mai pronunciato: “Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”.
E’ chiaro che Gesù non è venuto a portare la divisione e la guerra, ma la sua venuta è ugualmente divisione e contrasto, perchè egli mette le persone davanti alla decisione: con Lui o contro di Lui. Il vecchio Simeone lo aveva predetto quando lo aveva preso in braccio da bambino: Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. Lc 2,35. Gesù dice che questa divisione può passare anche dentro la famiglia… e purtroppo sappiamo che questo è vero, ma sappiamo anche che molto spesso la fede riunisce la famiglia in una unità e concordia più bella e profonda.
Facciamo fatica a pensare ad un Gesù angosciato! Gesù è quel fuoco che si è acceso sulla terra. Il fuoco di un amore che arde e non si consuma, ma dobbiamo anche tenere presente che Gesù era Dio ma anche uomo...e la sensazione di angoscia è tipicamente umana. Gesù è consapevole che dovrà passare attraverso le onde della sofferenza e della morte per la salvezza degli uomini, ma Lui berrà tutto il suo calice amaro come una resa totale e incondizionata al progetto del Padre.
Dobbiamo ammettere che questo breve brano di Vangelo ci lascia un po’ sconcertati. Ma il Vangelo è anche questo: non rendere la nostra vita facile, ma suscitarci dei continui interrogativi, delle inquietudini che non ci possono lasciare tranquilli. Gesù come uomo-Dio ha provato anche Lui angoscia e sarà proprio Lui che ci aiuterà a superare le nostre!
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La Parola di Dio di questa domenica contiene anche una parola di Gesù che ci mette in crisi, e che va spiegata, perché altrimenti può generare malintesi. Gesù dice ai discepoli: «Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione» (Lc 12,51). Che cosa significa questo? Significa che la fede non è una cosa decorativa, ornamentale; vivere la fede non è decorare la vita con un po’ di religione, come se fosse una torta e la si decora con la panna. No, la fede non è questo. La fede comporta scegliere Dio come criterio-base della vita, e Dio non è vuoto, Dio non è neutro, Dio è sempre positivo, Dio è amore, e l’amore è positivo! Dopo che Gesù è venuto nel mondo non si può fare come se Dio non lo conoscessimo. Come se fosse una cosa astratta, vuota, di referenza puramente nominale; no, Dio ha un volto concreto, ha un nome: Dio è misericordia, Dio è fedeltà, è vita che si dona a tutti noi. Per questo Gesù dice: sono venuto a portare divisione; non che Gesù voglia dividere gli uomini tra loro, al contrario: Gesù è la nostra pace, è la nostra riconciliazione! Ma questa pace non è la pace dei sepolcri, non è neutralità, Gesù non porta neutralità, questa pace non è un compromesso a tutti i costi. Seguire Gesù comporta rinunciare al male, all’egoismo e scegliere il bene, la verità, la giustizia, anche quando ciò richiede sacrificio e rinuncia ai propri interessi. E questo sì, divide; lo sappiamo, divide anche i legami più stretti. Ma attenzione: non è Gesù che divide! Lui pone il criterio: vivere per se stessi, o vivere per Dio e per gli altri; farsi servire, o servire; obbedire al proprio io, o obbedire a Dio. Ecco in che senso Gesù è «segno di contraddizione» (Lc 2,34).
Dunque, questa parola del Vangelo non autorizza affatto l’uso della forza per diffondere la fede. E’ proprio il contrario: la vera forza del cristiano è la forza della verità e dell’amore, che comporta rinunciare ad ogni violenza. Fede e violenza sono incompatibili! Fede e violenza sono incompatibili! Invece fede e fortezza vanno insieme. Il cristiano non è violento, ma è forte. E con che fortezza? Quella della mitezza, la forza della mitezza, la forza dell’amore.
Papa Francesco Angelus 18 agosto 2013
le letture liturgiche di questa domenica ci invitano a riflettere sulla dimensione dell’attesa che è parte costitutiva ed essenziale della vita cristiana. Nell’attesa del Signore dobbiamo evitare la frenesia del fare e la freddezza dell’attesa. Il Signore ci invita alla vigilanza attiva facendo il bene in ogni luogo ed in ogni occasione che ci si presenta.
La prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, fa memoria della liberazione dalla schiavitù in Egitto, e ricorda le promesse fatte da Dio ai Padri. In forza di questa fede nella parola di Dio i figli di Israele vivono nella sicurezza e nella speranza della salvezza.
La seconda lettura, tratta dalla lettera Ebrei, presenta la fede modellata dai patriarchi antichi. “La fede” – sottolinea l’autore – “è fondamento delle cose che si sperano e prova delle cose che non si vedono”: la fede dà dunque una grande sicurezza che l’uomo acquisisce attraverso il tentativo di conoscere “le cose che non si vedono” e il tentativo di realizzare “le cose che si sperano” .
Nel Vangelo di Luca, Gesù completa l’insegnamento sulla condotta del cristiano nei confronti dei beni di questo mondo. Le parole di Gesù su questo tema sono in un primo tempo generali e valevoli per tutti i discepoli: ignorando il tempo della venuta del Signore, il discepolo deve tenersi sempre pronto. Ma l’intervento del solerte Pietro, fa si che il Signore applichi i principi enunciati alla condizione di coloro che sono i capi della comunità. A costoro che hanno ricevuto di più Dio richiederà di più nel giorno del giudizio.
riporto ancora il sito della parrocchia in cui opero. Potete collegarvi e trovare notizie sulla sua storia e altre attività.
Dal libro della Sapienza
La notte [della liberazione]
fu preannunciata ai nostri padri,
perché avessero coraggio,
sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà.
Il tuo popolo infatti era in attesa
della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici.
Difatti come punisti gli avversari,
così glorificasti noi, chiamandoci a te.
I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto
e si imposero, concordi, questa legge divina:
di condividere allo stesso modo
successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.
Sap 18, 6-9
Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. E’ stato scritto in greco, caso unico in tutto l’Antico Testamento, ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo. Si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) ed è composto da 19 capitoli. L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele.
Nella prima parte del libro l’autore descrive l’atteggiamento che gli uomini assumono di fronte alla sapienza (Sap 1,1 - 6,21) e in una seconda parte spiega in modo ampio e articolato che cos’è la sapienza in rapporto sia con l’individuo che con il popolo (Sap 6,22 - 10,21). Nella terza parte (11,1 - 19,22) la sapienza è vista all’opera nei fatti dell’esodo, mediante i quali Dio ha rivelato, in rapporto sia agli egiziani che agli israeliti, qual è il suo modo di guidare la storia.
In questo brano l’autore richiama il preannunzio della Pasqua fatto ai patriarchi: “Quella notte fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà”.
Con queste parole egli interpreta la notte pasquale come il compimento di una parola già annunciata ai patriarchi (Gn 15,13-14). Alle promesse fatte ai patriarchi fa riscontro l'attesa del popolo: “Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te”.
L’attesa dunque è duplice: della salvezza per i giusti e della rovina per i nemici. Sullo sfondo vi è già l'evento pasquale, che riguarda non più l'epoca patriarcale, bensì l’ultimo tempo del soggiorno in Egitto.
L’autore definisce gli israeliti come “tuo popolo” e “giusti”. Nel linguaggio biblico “popolo” è un appellativo quasi esclusivo di Israele, ma ciò che lo determina è lo stretto rapporto con Dio. È in questa particolare relazione con Dio che Israele in quanto popolo nasce, è qualificato e trova la sua vera identità.
L'appellativo “i giusti” a partire da Sap 10,20 fino alla fine si riferisce sempre a Israele, ma si tratta di un Israele ideale, sistematicamente contrapposto agli egiziani e si identifica storicamente con la figura del giusto dei primi capitoli del libro. È questo popolo che, nonostante la persecuzione, Dio glorifica, cioè lo conduce al successo. Infine la chiamata e la glorificazione di Israele sono ulteriormente precisate nella descrizione della celebrazione pasquale: I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri.
L’autore rilegge dunque la Pasqua alla luce dell'alleanza, facendola diventare il momento dell'unità, dove attorno all‘alleanza e alla circoncisione il popolo ritrova la sua vera identità.
In questo brano la storia di Israele, da Abramo fino ai tempi dell’autore, viene riletta in chiave di salvezza, cioè come frutto di un intervento costante di Dio che si manifesta soprattutto nella celebrazione pasquale. Questa era stata promessa ai patriarchi, si è realizzata nel contesto dell’esodo e continua ad essere celebrata come espressione di un dono divino. Nella Pasqua Dio si mostra sempre disponibile a intervenire in favore del Suo popolo, glorificandolo e chiamandolo a sé. L’intervento divino comporta la punizione dei suoi avversari, ma questa non rappresenta lo scopo dell’iniziativa divina: essa è semplicemente l’altra faccia della medaglia, cioè la conseguenza non voluta della salvezza donata a Israele. La fede di questo popolo consiste dunque nella certezza che Dio non lo abbandona mai, nonostante le dolorose traversie della storia.
Salmo 32 - Beato il popolo scelto dal Signore.
Esultate, o giusti, nel Signore;
per gli uomini retti è bella la lode.
Beata la nazione che ha il Signore come Dio,
il popolo che egli ha scelto come sua eredità.
Ecco, l’occhio del Signore è su chi lo teme,
su chi spera nel suo amore,
per liberarlo dalla morte
e nutrirlo in tempo di fame.
L’anima nostra attende il Signore:
egli è nostro aiuto e nostro scudo.
Su di noi sia il tuo amore, Signore,
come da te noi speriamo.
Questo carme è un inno indirizzato al Creatore del Cosmo e al Signore della storia, un inno alla parola divina che crea e che guida la storia, soprattutto quella di Israele e dei giusti. E’ un canto che esalta la coerenza del mondo fisico e di quello morale vincolati al progetto supremo di Dio....
Il Salmo si chiude con un’antifona che è divenuta anche la finale del Te Deum cristiano “Su di noi sia il tuo amore, Signore, come da te noi speriamo… nel latino liturgico: Fiat misericordia tua, Domine, super nos, quem ad modum speravimus in te.
Grazia divina e speranza umana si incontrano e si abbracciano. Anzi, la fedeltà amorosa di Dio “è su di noi”, simile a un manto che ci avvolge, ci protegge, ci riscalda.
Commento tratto da “I Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera agli Ebrei
Fratelli, la fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio.
Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava.
Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso.
Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso. Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare.
Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città.
Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: «Mediante Isacco avrai una tua discendenza». Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo.
Eb 11,1-2, 8-19
L’autore della Lettera agli Ebrei è rimasto anonimo, anche se nei primi tempi si è pensato a Paolo di Tarzo, ma sia la critica antica che moderna, ha escluso concordemente questa attribuzione.
L’autore è certamente di origine giudaica, perchè conosce perfettamente la Bibbia, ha una fede integra e profonda, una grande cultura, ma tutte le congetture fatte sul suo nome rimangono congetture, si può solo dedurre che nel cristianesimo primitivo ci furono notevoli personalità oltre agli apostoli, anche se rimaste sconosciute. Quanto ai destinatari – ebrei – è certo che l’autore non si rivolge agli ebrei per invitarli a credere in Cristo, il suo scopo è invece quello di ravviare la fede e il coraggio ai convertiti di antica data, con tutta probabilità di origine giudaica. Infatti per discutere con essi, l’autore cita in continuazione la Scrittura e richiama incessantemente le idee e le realtà più importanti della religione giudaica .
Nella prima parte della lettera si descrive il ruolo di Cristo nel piano di Dio (1,5 - 2,18) e nella seconda parte si presenta Gesù come sommo sacerdote (3,1 - 5,10). La salvezza da lui portata è delineata nella parte centrale della lettera (5,11 - 10,39) e dopo (11,1 - 12,13), l’autore affronta il tema della risposta che la comunità deve dare a questa salvezza. Questa risposta consiste essenzialmente nella fede perseverante, mediante la quale si ha accesso ai beni che il sacrificio di Cristo ha acquistati.
In questo brano l’autore inizia con un’affermazione solenne:
La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede.
In questa espressione la fede è presentata come la certezza di ottenere un giorno quelle realtà che, proprio perché non si vedono, sono oggetto di speranza. In altre parole l’autore intende affermare che il credente è colui che non si ferma alle realtà visibili e materiali, ma si orienta con piena fiducia verso beni futuri (trascendenti), non ancora visibili ma attestati dalla parola di Dio e quindi sicuramente disponibili.
Nella parte che il brano liturgico non riporta, l’autore ricorda i nomi di patriarchi pre-abramitici poi presenta; Abramo, Sara, Isacco e Giacobbe. L’esperienza di Abramo mostra chiaramente che la fede, vissuta come apertura a un futuro che Dio promette, consiste in un rapporto personale con Lui, in forza del quale è possibile superare la precarietà e la miseria di una vita segnata inesorabilmente dalla morte.
È così che Abramo. proprio per aver accettato per fede la morte del figlio, ottiene una specie di risurrezione anticipata, che troverà compimento nella risurrezione di Cristo e di coloro che crederanno in Lui. La fede dei patriarchi è quindi solo una prefigurazione della fede di cui godono i credenti in Cristo.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno.
Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».
Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».
Lc 12, 32-48
Questo brano fa ancora parte del discorso abbastanza lungo di Gesù sulla fiducia in Dio. Dopo la parabola del ricco stolto e l'invito ad arricchire davanti a Dio, il lungo brano di oggi si divide in due parti. La prima prosegue e conclude il discorso sul distacco dai beni terreni, iniziato nel vangelo della scorsa domenica, e ribadisce che per il cristiano Dio deve avere il primato su tutto. La seconda parte verte su un tema tipico della tradizione cristiana e di Luca: la vigilanza.
Luca scrive il suo vangelo in un momento in cui la venuta in gloria del Signore Gesù, ritenuta imminente nei primi tempi della comunità cristiana, risulta sempre più lontana, con il conseguente rischio di un affievolimento dell'attesa o addirittura della dimenticanza. Ebbene - viene detto attraverso le tre parabole del brano dette appunto "della vigilanza" - occorre essere sempre all'erta, pronti, come se il Signore potesse sopraggiungere da un momento all'altro.
L'introduzione del brano è ricca di tenerezza: Gesù invita a non temere, chiamando i suoi amici "piccolo gregge". Poi Gesù usa immagini un po' distanti, che non indicano un'attesa positiva: il servo che attende il padrone; la casa che attende il ladro. Colpisce subito l’immagine del padrone che parte e affida la sua casa ai servi dimostrando di non avere sospetti e di avere piena fiducia in loro. Dio è come questo padrone che ha un cuore colmo di amore e ci affida la casa, le persone, il mondo.. Dio non smetterà mai di avere fede nell'uomo e Gesù commenta Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli.
Non è certo scontato stare svegli, non è un fatto dovuto o un obbligo. Quell'attesa fino all'alba però ha il potere di emozionare e sorprendere Dio. Genera infatti in Lui una reazione quasi eccessiva, sorprendente, perchè accade l'impensabile: Dio da padrone diventa servitore..è Gesù che lo dice in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. Possiamo perciò dedurre che Dio non è il Padrone dei padroni, è il servitore della vita.
Con una domanda Pietro interrompe la serie delle parabole: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Con l’intervento di Pietro, portavoce degli apostoli e rappresentante dell'autorità ecclesiale, l'evangelista vuole chiarire chi siano i destinatari dell'insegnamento parabolico: sono tutti i credenti, ma in modo speciale i responsabili della comunità ai quali Luca dedica l’ultima parabola, quella dell’amministratore fedele che rappresenta tutti i capi delle comunità. A costoro che hanno ricevuto di più, Gesù dice: A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più”. Ossia Dio chiederà molto a colui a cui ha dato molto, perchè i carismi ricevuti sono doni da amministrare a favore degli altri.
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Beati quei servi
che il padrone, al suo ritorno,
troverà ad aspettarlo:
Sarà Lui a servirli alla sua mensa.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)