XVII Domenica – Anno C – “Signore insegnaci a pregare” - 24 luglio 2016
Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a capire quanto sia forte il potere della preghiera e il dono più grande che ci viene dato quando preghiamo è lo Spirito Santo che il Signore stesso riversa nel nostro cuore.
La prima lettura, tratta dal libro della Genesi, ci riporta lo stupendo dialogo tra Dio e Abramo che implora la salvezza di Sòdoma e Gomorra, in un crescendo di ardite richieste: si cercano i giusti per salvare i peccatori.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Colossesi, afferma che Gesù Cristo, con la sua morte e risurrezione ci ha liberato dal peso dei nostri peccati e con Lui siamo diventati nuove creature
Nel Vangelo, Luca introduce come sfondo una richiesta avanzata da un discepolo che chiede a Gesù di insegnare loro a pregare. La preghiera del Padre nostro che Gesù propone chiarisce molto bene che si prega non solo per noi stessi, ma per il prossimo e nella misura che noi perdoniamo agli altri saremo perdonati. Poi Gesù racconta due parabole per esemplificare la fiducia totale che l’orante deve avere nei confronti di Dio Padre. Dio non è un estraneo indifferente, a Lui ci si può rivolgere con l’audacia e la serenità che si ha con una persona amata, avendo la certezza che nessuno può amarci più di Lui.
Dal libro della Genesi
In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore. Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».
Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».
Gn 18,20-32
Questo brano è il proseguimento della scena di domenica scorsa in cui dopo la bella ospitalità che Abramo aveva offerto ai suoi ospiti la promessa di un figlio era divenuta certa: “Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio”. Nel momento del congedo Abramo accompagna i tre ospiti verso il monte da dove si poteva vedere il panorama di Sodoma, la regione prospera dove risiedeva il nipote Lot.
Qui inizia il brano liturgico la cui scena si carica di tensione e paura. Dio parla ad Abramo come ad un amico fedele confidandogli i suoi propositi: “Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave…” dalle città di Sodoma e Gomorra sale a Dio come un respiro un grido di peccato e di ingiustizia. Troviamo un’immagine dalle caratteristiche umane quando Dio continua dicendo: Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere”
Ma Abramo, consapevole della tragedia imminente, apre una specie di trattativa con Dio per allontanare la distruzione finale. Nel dialogo con il Signore sembra quasi percepire come il cuore di Abramo sia pieno di emozione: è molto titubante all'inizio, poi man mano la sua preghiera diventa più intensa, pressante, profonda perché ha compreso la disponibilità del Signore a voler perdonare più che punire.. In sei tappe i giusti richiesti passano da 50 a 10, mentre ogni volta Abramo inizia la sua richiesta con parole sempre più umili e nello stesso tempo ardite. Si può notare che nella sua trattativa Abramo non osa abbassare al di sotto di 10 il numero dei giusti, forse perchè sentiva che dei veri giusti non c’erano, ma il numero 10 era anche il numero minimo per costituire nell’ebraismo una comunità
Nota
Troveremo circa mille anni dopo, che Dio parlando a Geremia (5,1) si dichiara disposto a perdonare a Gerusalemme, se vi trovasse almeno un solo giusto: “Percorrete le vie di Gerusalemme,osservate bene e informatevi,cercate nelle sue piazze se trovate un uomo,uno solo che agisca giustamente e cerchi di mantenersi fedele,e io le perdonerò, dice il Signore”.
E’ in Isaia (c.53) diventa realtà che un solo giusto (il Servo del Signore) può salvare tutto il popolo.
Salmo 137 Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano.
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.
Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall'assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: "Non agli dèi, ma a te voglio cantare".
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: "Il Signore farà tutto per me". Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l'opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell'amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Colossesi
Fratelli, con Cristo sepolti nel battesimo,con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.
Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
Col 2,12-14
Continuando la sua lettera ai Colossesi, Paolo dopo aver affermato che in Gesù abita tutta la pienezza della divinità ed essi hanno avuto parte alla sua pienezza, che fa di lui il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col 2,9-10) e continuato sottolineando che in lui essi hanno ricevuto non una circoncisione fatta da mano di uomo mediante la spogliazione del corpo di carne, cioè la circoncisione fisica, ma la vera circoncisione di Cristo (Col 2,11), egli spiega in che cosa consiste la circoncisione di Cristo: con lui (Cristo) sepolti nel battesimo,con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.” Diversamente dalla circoncisione fisica, la “circoncisione di Cristo” ha luogo in rapporto con Cristo e in unione con Lui. Essa consiste nel battesimo, che è presentato da Paolo, nella polemica contro i giudaizzanti, come la vera circoncisione (Fil 3,3).
Paolo riprende questa immagine definendo il battesimo come un essere sepolti con Cristo, cioè come una partecipazione alla sua morte, e come una risurrezione con lui.
Gli effetti del battesimo vengono così descritti “Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce”. Prima di diventare cristiani, i pagani erano morti a causa delle loro colpe e della loro incirconcisione. L’idea qui espressa si riferisce chiaramente a Gal 2,15 dove Paolo definisce così la differenza tra giudei e gentili: “Noi che per nascita siamo Giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno”.
Al termine del brano, nell’ultima parte omessa dalla liturgia “avendo privato della loro forza i Principati e le Potestà ne ha fatto pubblico spettacolo dietro al corteo trionfale di Cristo”, Paolo afferma che così facendo Dio ha spogliato i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo.*
Con la sua morte in croce e la sua resurrezione, Gesù ha aperto dunque nuove prospettive che non hanno più nulla a che fare con la legge e con il peccato.
* Nota:
Dietro la legge ebraica, Paolo scorge, secondo una vecchia tradizione, le potenze angeliche ( Gal 3,19+). Esse avevano usurpato, nello spirito dell’uomo (cf. v 18), l’autorità del creatore. Sopprimendo con la croce di Suo Figlio il sistema della legge, Dio ha sottratto a queste potenze lo strumento del loro dominio; esse appaiono ormai sottomesse al Cristo.
Dal Vangelo secondo Luca
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione”». Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
Lc 11,1-13
Il brano del Vangelo di Luca ci presenta la versione del Padre Nostro che è più breve rispetto a quella di Matteo che tutti conosciamo a memoria. Il fatto che ci siano due versioni del Padre Nostro ci fa capire che Gesù non ha dato una preghiera fissa, con parole precise (come facevano tutti i rabbini del tempo) ma piuttosto una traccia, alcuni punti su cui orientarsi.
Non conosciamo il nome del discepolo (forse perchè ognuno di noi si possa sentire coinvolto in prima persona) che aveva atteso che Gesù finisse di pregare per farsi avanti e chiedergli a nome degli altri: «Signore, insegnaci a pregare.. Sul modo di pregare anche Giovanni Battista istruiva i suoi seguaci, per cui il richiedente attendeva un insegnamento vivo, carico di esperienza. In risposta riceve non la presentazione di un metodo, ma l'indicazione di un atteggiamento.: «Quando pregate, ..“ Gesù insegna una preghiera rivolta a Dio Padre, perché questa era la sua missione: far conoscere il Padre e farlo amare dagli uomini. In apertura Gesù raccomanda: "...dite" perché il Figlio eterno di Dio è Lui solo, noi ci possiamo considerare figli di Dio in quanto sue creature e per assimilazione a Lui Figlio unigenito del Padre.
In che modo e con quale disposizione i discepoli debbano pregare Luca lo chiarisce con le due parabole che seguono il Padre Nostro. Nella prima, racconta di un uomo a cui gli si è presentato un ospite nel bel mezzo della notte, ma non ha nulla da offrirgli, (cosa penosa per un orientale dato che l'ospitalità è una caratteristica importante per la loro cultura). Allora va da un suo amico e, anche se sa di procurargli un bel fastidio, non se ne preoccupa e lo fa lo stesso. Con questa parabola Gesù ci invita a rivolgerci a Dio come ad un amico, anche in modo insistente persino fastidioso. A Dio possiamo chiedere tutto, possiamo raccontare tutto, anche ciò di cui ci vergogniamo... Egli, come un vero buon amico, ci ascolterà e ci accoglierà. Nella preghiera non ci sono confini, c'è spazio per tutto.
La seconda parabola spiega cosa significa avere Dio per padre. Ogni padre sa (o dovrebbe saperlo) che cosa è bene per i propri figli. Nessun padre darà una pietra al posto del pane, o un serpente al posto del pesce, o uno scorpione al posto di un uovo, questo è ovvio. Dio che è il nostro Padre non ci darà mai nulla che possa nuocerci. Forse noi siamo bloccati da esempi terreni di padri e di madri indegni di portare questo nome, e non ci rendiamo conto fino a che punto possa arrivare l’amore di Dio che è Padre sì, ma è anche Madre. Per bocca del profeta Isaia Dio ce lo dice: Si dimentica forse una donna del suo bambino,così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Is 49,15
Allora dobbiamo entrare in confidenza con Lui imparare a chiedere anche se non sempre Dio risponde come noi vorremmo. Capita che a volte bussiamo e Lui ci apre delle porte e ci invita a percorrere delle strade che non avremmo mai avuto coraggio di percorrere, ma in quella strada Lui si fa nostro compagno di viaggio e ci aiuta a percorrere un cammino, che da soli non avremmo mai neanche osato percorrere.
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"Bisogna «pregare il Padre», il Padre «nostro» «che ti ha generato, che ti ha dato la vita, a te, a me», «che ti accompagna nel tuo cammino» e «conosce tutta la tua vita». «Se non incominciamo la preghiera con questa parola non detta dalle labbra, ma detta dal cuore, non possiamo pregare come cristiani».
“Quando si prega”, ha spiegato il Pontefice riprendendo il Vangelo, “non c’è bisogno di sprecare tante parole: Gesù «dice che il Padre che è in cielo “sa di quali cosa avete bisogno, prima ancora che glielo chiediate”». Dunque, la prima parola sia «“Padre”. Questa è la chiave della preghiera. Senza dire, senza sentire questa parola, non si può pregare». Ma, si è chiesto, è «un Padre solo mio? No, è il Padre nostro, perché io non sono figlio unico. Nessuno di noi lo è. Se io non posso essere fratello, difficilmente potrei diventare figlio di questo Padre, perché è un Padre di sicuro mio, ma anche […] dei miei fratelli»; ecco perché «se io non sono in pace con i miei fratelli, non posso dire Padre a Lui. E così si spiega come Gesù, dopo averci insegnato il Padre Nostro, dice subito: “Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”». Tuttavia, anche se «è tanto difficile perdonare gli altri», ha concluso, «Gesù ci ha promesso lo Spirito Santo. È lui che ci insegna da dentro, dal cuore, come dire “Padre” e come dire “nostro”», e come dirlo «facendo la pace con tutti i nostri nemici».
Papa Francesco
parte dell’omelia della Messa alla Casa Santa Marta 20 giugno 2013
1. Ricordiamo che il 29 Giugno – Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo - per la diocesi di Roma è Festa di precetto e pertanto le Sante Messe saranno celebrate secondo l'orario festivo. Le offerte che si raccoglieranno in questa giornata saranno destinate alla caria del Papa.
2. A partire dal 30 Giugno, per la celebrazione delle Sante Messe, entrerà in vigore l'orario estivo.
Giorni feriali: ore 8.00 – 18.30
Giorni festivi: ore 9,00 – 11.00 – 18.30
3. L'Associazione „Voglia di vivere” vi ringrazia per la generosità e la solidarietà; hanno raccolto infatti 824,00 €
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta richiamano la missionarietà di tutta la Chiesa e non solo di alcuni suoi membri. L’invio in missione dei discepoli da parte di Gesù coinvolge oggi la Chiesa intera, non solo alcuni suoi membri. Tutti possono essere missionari, tutti possono sentire quella chiamata di Gesù e andare avanti e annunciare il Regno!
Nella prima lettura, il profeta Isaia dopo il ritorno dall’esilio, ricorda agli sfiduciati la promessa divina: Gerusalemme sarà una città di prosperità e di gioia; in essa Dio si presenterà come consolatore del suo popolo. La pace, cioè la prosperità, la benedizione, è per coloro che l’aspettano e accolgono il vangelo.
Nella seconda lettura, San Paolo concludendo la sua lettera ai Galati, parla ancora di coloro che annunciano un altro vangelo e afferma che per lui non c’è altro vanto che la croce di Cristo. Solo la croce infatti, e chi la vive nella propria vita, può abbattere ciò che è vecchio e donare al mondo una nuova vita, che è fatta di unità e di pace.
Nel Vangelo, Luca ci racconta della scelta, dell’invio e del ritorno dei settantadue discepoli inviati a Gesù “in ogni città e luogo dove stava per recarsi”. L’ultima parte del brano evangelico ci fa pensare all’’esperienza della comunità cristiana che nei secoli vede diffondersi la parola d’amore del Cristo come un seme che germoglia e cresce, sconfiggendo il male.
Dal libro del profeta Isaìa
Rallegratevi con Gerusalemme,
esultate per essa tutti voi che l’amate.
Sfavillate con essa di gioia
tutti voi che per essa eravate in lutto.
Così sarete allattati e vi sazierete
al seno delle sue consolazioni;
succhierete e vi delizierete
al petto della sua gloria.
Perché così dice il Signore:
«Ecco, io farò scorrere verso di essa,
come un fiume, la pace;
come un torrente in piena, la gloria delle genti.
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»
Is 66,10-14c
Questo brano appartiene al "Terzo Isaia" (TritoIsaia) (capitoli 56-66), il profeta della situazione successiva al ritorno dall'esilio babilonese. Dopo l’editto di Ciro che autorizzava il ritorno dall’esilio e la ricostruzione di Gerusalemme, il profeta vede di nuovo la città della storia della salvezza avvolta dall’amore di Dio e rivolge il suo messaggio agli israeliti impegnati a ricostruire la comunità religiosa di Gerusalemme.
Il profeta si presenta come l’inviato dello Spirito del Signore per annunciare la buona notizia ai poveri e a prendersi cura dei disperati (61,1). Davanti al problema del rifiuto e del disprezzo nei confronti degli stranieri, alcuni suoi scritti rivelano un atteggiamento eccezionalmente aperto verso di loro, accetta addirittura che partecipino al culto insieme alla comunità (56,3-7). In altri invece annuncia un giudizio tremendo contro le nazioni straniere (63,1-6; 66,14-16; 66,24). A partire dal c. 60, emerge una svolta impressionante: se prima abbondavano gli oracoli di giudizio e di castigo, ora sono le promesse di salvezza a caratterizzare i suoi interventi. I cc. 63-64 sono una meditazione sulla storia come luogo della rivelazione di Dio, e nei cc. 65-66 (da cui è preso il nostro brano liturgico) si avverte un clima pieno di speranza e gioia. Israele ha un valido motivo per sperare in un futuro migliore: Dio non abbandonerà il suo popolo. Alla fine del libro, la prospettiva si universalizza come mai in precedenza: tutti i popoli formano con Israele una grande comunità cultuale e liturgica: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria”
I versetti del brano liturgico sono un vero inno di gioia per la rinascita di Gerusalemme. Anzitutto il profeta invita coloro che amano la città santa a rallegrarsi con lei. L’invito è rivolto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, soprattutto quelli che erano desolati e depressi per la situazione di rovina in cui era caduta la città. Ora tutto è cambiato, la città è risorta, ed essi devono rallegrarsi. Gerusalemme è immaginata come una madre che allatta i suoi figli, li riempie di consolazione e li inonda della sua gloria.
L’abbondanza di cui gode la città non è frutto del lavoro dei suoi abitanti, ma il segno di una benevolenza divina che raggiunge abbondantemente tutti i suoi abitanti. Infatti essa deriva direttamente da Dio, il quale farà scorrere verso di essa, come un fiume ricco d’acqua, la pace, e con questa la gloria delle genti
Viene qui ripreso un tema tipico del Terzo Isaia che descrive il futuro radioso di Gerusalemme come l’arrivo dei gentili che, in pellegrinaggio, si recano al tempio per adorare il Dio di Israele portando con sé in dono tutti i loro beni (Is 60,1-22). Ritorna poi nuovamente l’immagine della madre che allatta i suoi figli, li porta in braccio, li fa sedere sulle sue ginocchia e li accarezza. Questa volta il soggetto non è più direttamente la città, ma Dio stesso che ha profuso in essa i suoi doni. Nei confronti degli abitanti di Gerusalemme, Dio è come una madre che consola i suoi figli, e lo fa proprio nella città in cui vivono. Infine Dio fa' una solenne promessa: Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».
Si può notare come in un momento nel quale in primo piano si trova la preoccupazione per la ricostruzione del tempio, questo brano va veramente contro corrente. In esso l’accento viene posto non sull’edificio materiale, ma sulla nascita di un popolo fedele a Dio. Senza di esso il tempio non ha ragione di esistere. Non si tratta però dell’effetto di un’iniziativa umana, ma di un’opera compiuta direttamente da Dio. Solo Dio infatti può dare vita a un popolo. Si tratta quindi di un dono straordinario, di fronte al quale non c’è altro da fare che rallegrarsi con animo grato perchè la nascita di una comunità giusta e santa, prospera e pacifica, è un vero miracolo di Dio. La nascita di una tale comunità è una cosa meravigliosa e inattesa, è questa la speranza che il Terzo Isaia coltiva e mantiene viva tra i giudei rimpatriati a Gerusalemme.
Salmo 65 - Acclamate Dio, voi tutti della terra.
Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».
«A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.
Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.
Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio, che non ha respinto
la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.
Il salmo è stato scritto nel postesilio, come è facile ricavare dalla menzione di grandi prove nazionali:
“Ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”. L’universalismo del salmo è espresso nell’invito a tutta la terra a dare gloria a Dio. Il salmista anima poi il gruppo orante che lo attornia a presentare a Dio il desiderio che sia celebrato in tutta la terra: “Dite a Dio: ”. Il salmista riprende il suo invito a tutte le genti, invitandole ad avvicinarsi ad Israele per udire le grandi opere che Dio ha compiuto per il suo popolo, compresa la liberazione da Babilonia: “Venite e vedete le opere di Dio, terribile nel suo agire sugli uomini. Egli cambiò il mare in terra ferma…”. Dio ha piegato i nemici del suo popolo, compresi i babilonesi: “contro di lui non si sollevino i ribelli”. Il salmista ancora invita i popoli a lodare Dio: “Popoli, benedite il nostro Dio, fate risuonare la voce della sua lode…”. Poi il salmista si rivolge direttamente a Dio facendo memoria della catastrofe della deportazione a Babilonia: “O Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai purificati come si purifica l’argento (…). Hai fatto cavalcare uomini sopra le nostre teste (…), poi ci hai fatto uscire verso l'abbondanza”. Il cavalcare uomini sopra le teste era una efferatezza egizia, assira, babilonese e poi anche persiana. I vinti venivano legati e calpestati dai carri dei vincitori. Il salmista, dopo essersi rivolto a Dio nella memoria dei grandi avvenimenti della nazione, che sente suoi per appartenenza, si riferisce a Dio come persona singola, che ha una sua storia di dolore, e che nell’angoscia ha pronunciato voti. Questi voti li assolverà perché è stato beneficato da Dio secondo il suo desiderio espresso nella preghiera, ma anche secondo la giustizia di Dio: “Se nel mio cuore avessi cercato il male, il Signore non mi avrebbe ascoltato”.
Il salmo, che noi recitiamo in Cristo, ci collega alla grande storia di Israele, alla quale siamo stati innestati per mezzo di Cristo (Cf. Rm 11,24), il quale è la ragione di ogni liberazione, di ogni grazia che viene dal Padre. Noi entriamo nelle sue chiese non offrendo sacrifici di montoni, capri e tori, ma il sacrificio di noi stessi, in unione al sacrificio del Cristo presente sugli altari (Cf. Ps 39,7). Perfettamente nostra è l’invocazione a tutte le genti a venire e vedere. A vedere in noi, nella Chiesa, la grande opera della redenzione.
commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo.
Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.
D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo.
La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.
Gal 6,14-18
Il brano liturgico è tratto dall’epilogo della lettera ai Galati nella quale Paolo traduce in termini esortativi le sue riflessioni sulla giustificazione per mezzo della fede e non delle opere. L’Apostolo inizia l’epilogo facendo notare che esso è scritto di sua mano, forse per sottolineare quanto lui tenga a quanto dice. Poi Paolo si lascia andare e torna ad accusare coloro che vogliono imporre ai Galati la circoncisione e questo per vari motivi di interesse personale, e sottolinea che, diversamente da quanto facevano i suoi avversari, il suo vanto consiste “nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo”. In altre parole, aderendo pienamente alla fede a Gesù crocifisso, egli ha rotto radicalmente con il mondo e con tutti i suoi desideri accettandone tutte le conseguenze in termini di sofferenze e di persecuzioni.
Paolo poi prosegue sottolineando che “Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura”. Con questa espressione, egli indica il nuovo rapporto con Dio, proprio dei tempi escatologici, che si consegue in forza della fede in Cristo (v. 2Cor 5,17). Paolo ribadisce dunque ciò che già prima aveva affermato: quello che importa non è la circoncisione, ma “la fede che opera per mezzo dell’amore” (Gal 5,6). A tutti coloro che condividono questo principio egli assicura quella pace e quella misericordia che saranno le prerogative dell’ “Israele di Dio”.
Egli conclude con una severa ammonizione: “D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo”. Le “stigmate di Gesù” non sono certo le ferite dei chiodi nelle mani e nei piedi, che sono state prerogativa di alcuni santi della storia cristiana, come S.Francesco d’Assisi e S.Pio, ma le conseguenze, visibili sul suo corpo, delle sofferenze e delle persecuzioni subite a causa di Cristo. Sono queste stigmate che per lui prendono il posto del marchio impresso nella carne dalla circoncisione (Gal 5,11). Nessuno dunque ha il diritto di porre ostacoli alla sua opera apostolica, accusandolo e denigrandolo presso le comunità da lui fondate. Dopo aver così fortemente riaffermato l’autenticità delle sue scelte, Paolo giunge ai saluti: La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.
In questa formula, si può facilmente intravedere l’affetto che l’apostolo conserva ai Galati essi restano per lui fratelli, con i quali vuole condividere fino in fondo la grazia di Gesù Cristo
Dal vangelo secondo Luca
[In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.] Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
Lc 10, 1-12, 17-20
In questo brano del Vangelo, Luca ci racconta che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, chiama a condividere la sua predicazione, altri settantadue discepoli, e il testo precisa:, " designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi” . Il n.72 è sicuramente simbolico e in questo caso viene preso per sottolineare l’aspetto universale della missione dato che la tradizione giudaica contemplava nel n. 72 tutte le nazioni pagane sparse per il mondo.
Poi Gesù fa le sue raccomandazioni e dice: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! “ L’immagine della messe ormai matura richiama il giorno del giudizio finale e la prospettiva è dunque escatologica: la fine è ormai vicina e Gesù cerca dei collaboratori che lo aiutino a raccogliere il popolo di Israele e condurlo incontro al suo Dio. Poi Gesù dà istruzioni sull’equipaggiamento dei discepoli missionari e prospetta loro anche l’eventualità del rifiuto: Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
Al rifiuto da parte di una città i discepoli devono reagire scuotendo sui responsabili la polvere dei loro piedi. L’atto di scuotere la polvere dei piedi equivale a un gesto profetico che indica l’esclusione dalla salvezza escatologica e la minaccia della condanna nel giudizio. La mancata adesione al vangelo comporta nel giorno del giudizio finale una sorte peggiore di quella toccata alla città di Sodoma, prototipo nell’A.T. della città maledetta da Dio per i suoi peccati.
Luca descrive il ritorno dei settantadue discepoli che tornarono pieni di gioia e dicevano: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». E’ evidente che ciò che più rallegra gli inviati è la sottomissione dei demoni.
Luca vede la missione essenzialmente come una liberazione dell’uomo dalle forze sataniche del male che secondo la mentalità corrente si rendevano palesi nelle malattie. In risposta a quanto riferiscono i discepoli Gesù commenta:«Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
La visione della caduta di satana risente del linguaggio apocalittico del tempo: in Is 14,12 la sconfitta del re di Babilonia viene immaginata come la caduta di Lucifero, la stella del mattino. Con questa immagine Gesù dichiara che, con la venuta del regno di Dio, che ha iniziato a esercitare la sua azione mediante la sua opera, le potenze del male sono private del loro dominio sull’umanità. Egli aggiunge: “Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi” Il potere conferito da Gesù si esercita su serpenti e scorpioni, che rappresentano le forze del male che si oppongono a loro e su ogni potenza del nemico senza esserne danneggiati.
Questa espressione è ricavata dal Salmo 91,13 che era stato citato esplicitamente da satana in occasione della tentazione di Gesù nel deserto (Lc 4,10-11).
Pur avendo ricevuto tale potere, i discepoli non devono rallegrarsi per questo, ma piuttosto perché i loro nomi sono scritti nei cieli cioè perché ad essi è riservato come ricompensa il regno di Dio. Ciò che conta non è il risultato dell’azione evangelizzatrice, ma lo spirito con cui è portata a termine.
Alla fine di ogni esperienza missionaria c’è la celebrazione universale della gloria di Dio e della salvezza del mondo: ma il cammino di questa esperienza (che si identifica con la nostra esperienza quotidiana di testimoni cristiani) è un cammino complesso e difficile. Gesù continua a ricordarci che: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai” … sono parole che oggi, in tempi di scarse vocazioni e di crescente egoismo e individualismo, risultano chiarissime e allarmanti. Quando poi Gesù dice: “ vi mando come agnelli in mezzo a lupi” ricorda a tutti che il cristiano sta dalla parte della mansuetudine, e deve farsi messaggero di pace in una società che esalta i conflitti e il proprio tornaconto.
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Questi settantadue discepoli, che Gesù manda davanti a sé, chi sono? Chi rappresentano? Se i Dodici sono gli Apostoli, e quindi rappresentano anche i Vescovi, loro successori, questi settantadue possono rappresentare gli altri ministri ordinati, presbiteri e diaconi; ma in senso più largo possiamo pensare agli altri ministeri nella Chiesa, ai catechisti, ai fedeli laici che si impegnano nelle missioni parrocchiali, a chi lavora con gli ammalati, con le diverse forme di disagio e di emarginazione; ma sempre come missionari del Vangelo, con l’urgenza del Regno che è vicino. Tutti devono essere missionari, tutti possono sentire quella chiamata di Gesù e andare avanti e annunciare il Regno!
Dice il Vangelo che quei settantadue tornarono dalla loro missione pieni di gioia, perché avevano sperimentato la potenza del Nome di Cristo contro il male. Gesù lo conferma: a questi discepoli Lui dà la forza di sconfiggere il maligno. Ma aggiunge: «Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20). Non dobbiamo vantarci come se fossimo noi i protagonisti: protagonista è uno solo, è il Signore! Protagonista è la grazia del Signore! Lui è l’unico protagonista! E la nostra gioia è solo questa: essere suoi discepoli, suoi amici. Ci aiuti la Madonna ed essere buoni operai del Vangelo.
Cari amici, la gioia! Non abbiate paura di essere gioiosi! Non abbiate paura della gioia! Quella gioia che ci dà il Signore quando lo lasciamo entrare nella nostra vita, lasciamo che Lui entri nella nostra vita e ci inviti ad andare fuori noi alle periferie della vita e annunciare il Vangelo. Non abbiate paura della gioia. Gioia e coraggio!
Papa Francesco
parte dell’Angelus del 7 luglio 2013
Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a porre la nostra attenzione sulla sequela di Gesù: seguire il Signore è percorrere la sua stessa strada.
La prima lettura, tratta dal primo dei Re, il profeta Elia gettando il suo mantello sulle spalle del discepoli Eliseo, lo invita a seguirlo e lo riveste del suo stesso ministero profetico. Eliseo accetta e per lui si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo afferma che con Cristo siamo stati chiamati a libertà, e la libertà del cristiano dà la capacità di portare a compimento la legge e di mettersi al servizio del prossimo. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Nel Vangelo, San Luca ci fa comprendere che chi intende mettersi alla sequela di Gesù non deve più guardare al passato, ma è chiamato ad occuparsi di nuova vita. Deve perciò tagliare i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali, essere disposto a tutto, e avere il coraggio, di andare anche controcorrente.
Dal primo libro dei Re
In quei giorni, il Signore disse a Elìa: «Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto».
Partito di lì, Elìa trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elìa, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elìa, dicendogli: «Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò». Elìa disse: «Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te». Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elìa, entrando al suo servizio.
1Re19,16b, 19-21
Il primo libro dei re, come il secondo, è un testo contenuto sia nella Bibbia ebraica (Tanakh, dove sono contati come un testo unico) che in quella cristiana. Sono stati scritti entrambi in ebraico e secondo molti esperti, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte, in particolare della cosiddetta fonte deuteronomista del VII secolo a.C., integrata da tradizioni successive. E’ composto da 22 capitoli descriventi la morte di Davide, Salomone, la scissione del Regno di Israele dal Regno di Giuda, il ministero del Profeta Elia (nel nord) e i vari re di Israele e Giuda, eventi datati attorno al 970-850 a.C..
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 - 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico.
Riepilogando l’antefatto del brano che la liturgia ci propone, sappiamo che dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove Dio gli appare non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma “nel mormorio di un vento leggero” e questo significa che anche Elia, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, “pieno di zelo per il Signore”.
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a DIO. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo.
Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da DIO sull’Oreb: “Ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto”. La scena dell’incontro di Elia con Eliseo si svolge probabilmente nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Eliseo è intento a un impegnativo lavoro agricolo, infatti: “arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo”. Al vederlo, “Elìa, gli gettò addosso il suo mantello”.
La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia infatti lascia subito i buoi e corre dietro a Elìa, dicendogli: “Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò”. Elìa gli risponde: “Va’ e torna, perché sai che cosa ho fatto per te”.
Da quel momento la vita di Eliseo, contadino di Abel-Mecolà, villaggio della Transgiordania, è stravolta. Gli è stato consentito solo il congedo ufficiale dal suo nucleo familiare attraverso un pasto d’addio cotto proprio con gli attrezzi dell’aratro, che erano il simbolo della sua antica professione. Poi per Eliseo, si aprirà per sempre l’orizzonte nuovo, luminoso, ma anche tormentato della missione profetica
La chiamata di Eliseo dà un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo.
Salmo 15 - Sei tu, Signore, l’ unico mio bene.
Proteggimi, o Dio: in te mi rifugio.
Ho detto al Signore: «Il mio Signore sei tu».
Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
nelle tue mani è la mia vita.
Benedico il Signore che mi ha dato consiglio;
anche di notte il mio animo mi istruisce.
Io pongo sempre davanti a me il Signore,
sta alla mia destra, non potrò vacillare.
Per questo gioisce il mio cuore
ed esulta la mia anima;
anche il mio corpo riposa al sicuro,
perché non abbandonerai la mia vita negli inferi,
né lascerai che il tuo fedele veda la fossa.
Mi indicherai il sentiero della vita,
gioia piena alla tua presenza,
dolcezza senza fine alla tua destra.
L’intimità goduta con Dio dal sacerdote, autore certamente di questo carme, durante il culto del tempio di Gerusalemme, non può spegnersi con la morte. Nonostante le esitazioni della teologia dell’Antico Testamento, qui abbiamo, sia pure attraverso il ricorso a una simbologia spaziale (la via), una professione di fede nel destino glorioso del fedele. Sembra quasi che il salmista anticipi la speranza che pervade il cristiano il quale ha ascoltato le parole di Gesù: “Io vado a prepararvi un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perchè siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3)
Commento tratto da “Il Salmi” di Gianfranco Ravasi
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso».
Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri! Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Gal 5,1. 13-18
Paolo inizia la sua esortazione con una frase che è tutto un programma: “Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”
Dobbiamo tener presente che nel mondo ebraico la libertà era concepita come un dono di Dio, che dopo aver liberato il Suo popolo dalla schiavitù degli egiziani, lo aveva unito a sé mediante l’alleanza e gli aveva dato la Sua legge: lo scopo della legge infatti era quello di creare tra gli israeliti quello spirito di fratellanza e di solidarietà in forza del quale la libertà sarebbe diventata la prerogativa di tutti. In questa prospettiva essi consideravano il codice mosaico come il dono più grande che Dio aveva fatto al suo popolo e la chiamavano “legge di libertà”. Per Paolo è la liberazione ottenuta da Cristo che dà la libertà piena, infatti egli vede proprio nella liberazione dalla legge il punto di partenza di un cammino serio e impegnativo verso la libertà piena. Ciò si comprende solo ricordando che per lui il termine “legge”, designava un semplice elenco di precetti che l’uomo, con le sue sole forze, doveva compiere per rendersi gradito a Dio. In altre parole la legge, staccata dall’azione liberatrice di Dio, era diventata una pura norma incapace di dare la vita all’uomo peccatore, e come tale era paragonabile al pedagogo che controlla il bambino finché sopraggiunge il maestro (v.3,25) . Solo Cristo ha potuto togliere di mezzo la legge così intesa, in quanto ha liberato l’uomo dal suo peccato e lo ha fatto diventare figlio di Dio.
Nel brano non riportato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo aveva messo in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporla loro vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale: la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia.
Nel brano liturgico Paolo afferma: Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri. Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: «Amerai il tuo prossimo come te stesso”. I credenti non solo sono stati liberati, ma sono chiamati alla libertà: la libertà dunque non è solo un dono, ma anche un impegno. Questa libertà però non deve diventare un alibi per vivere secondo la carne, (cioè vivere senza regole e principi morali, in cui ogni cosa che si desidera è permessa), al contrario l’essere diventati liberi deve spingerli a mettersi a servizio gli uni degli altri nell’amore. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze. Purtroppo i galati non sono su questa strada, infatti l’apostolo li ammonisce dicendo: “Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!“ Essi vorrebbero praticare la legge, ma intanto vengono meno proprio al suo comandamento fondamentale, e così facendo si distruggono a vicenda.
Paolo passa poi a spiegare come la libertà dalla legge diventi effettiva solo in forza dello Spirito:”Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne.”
Per evitare di cedere ai desideri della carne, ossia ai desideri mondani, che sono all’origine di un comportamento peccaminoso, contrario alle esigenze della legge, il credente deve camminare secondo lo Spirito, cioè lasciarsi guidare dalla potenza di Dio che si manifesta nella sua azione. Questo concetto viene approfondito in questo modo: “La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste”. Con il termine “carne” Paolo qualifica l’uomo peccatore nel senso che ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce anche il comandamento del Decalogo “non desiderare” che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Paolo infine conclude: “Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.” Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più desideri mondani. La vittoria sul desiderio mondano, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente. Questa consiste fondamentalmente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge.
Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, in cui tutta la legge è riassunta
Ma la pratica dell’amore non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri del mondo con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (V. Rm 5,5; 8,1-4). Questo dono ha origine fondamentalmente dall’esempio di Cristo, dalla Sua totale dedizione al Padre e ai fratelli.
Solo chi assume lo Spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.
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Dal vangelo secondo Luca
Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
Lc 9, 51-62
Luca presenta l’inizio del viaggio di Gesù con una frase emblematica: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e precisa che Gesù “mandò messaggeri davanti a sé”. C’è un riferimento a Malachia (Ml 3,1) dove Dio invia un angelo a preparare la sua venuta nel tempio di Gerusalemme e Luca interpreta questo incarico come l’invio di messaggeri ufficiali davanti al Messia per preparargli la strada verso Gerusalemme, dove avrebbe portato a termine la Sua missione.
Gli inviati “si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme.” I samaritani erano i nemici tradizionali dei giudei e spesso ne ostacolavano il passaggio nella loro regione, per questo di solito i giudei evitavano di passare nel loro territorio. L’atteggiamento dei samaritani suscita la reazione dei discepoli Giacomo e Giovanni che reagiscono dicendo “«Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.” Gesù li rimprovera aspramente, e da questo episodio, che rivela il carattere impulsivo e vendicativo dei figli di Zebedeo, può far comprendere perchè Gesù diede loro il soprannome di Boanèrghes, cioè figli del tuono.
Dopo l’episodio dei samaritani Luca inserisce tre scene di vocazione.
Nella prima scena, a un certo punto si presenta a Gesù un tale che gli dichiara la sua ferma decisione di seguirlo dovunque egli vada. La risposta di Gesù è emblematica:”Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. Prima di decidersi a seguire Gesù bisogna riflettere seriamente, perché si tratta di una scelta che implica privazioni, rischi, mancanza di sicurezze terrene. Una vita comoda e tranquilla non si addice a chi intende mettersi al suo seguito.
Nella seconda scena è Gesù che rivolgendosi ad un altro dice : «Seguimi!». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». C’è da tenere presente che nella società ebraica non c’era solo il compito di adempiere a tutti i doveri connessi con la sepoltura del padre, ma anche di assisterlo nell’ultimo periodo della sua vita.
Tutte queste incombenze erano rese obbligatorie dal quarto comandamento, che prescrive di onorare il padre e la madre. A questo riguardo Gesù esprime il suo pensiero con un’affermazione paradossale, formulata in perfetto stile semitico, uno stile che usa colori accesi e dichiarazioni esplosive: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Mettendosi al seguito di Gesù il discepolo ha scelto la “vita” e non deve più immischiarsi in faccende che riguardano coloro che sono ancora spiritualmente “morti”. Gesù considera quindi la sequela come un impegno talmente decisivo e radicale da far passare in secondo ordine persino gli obblighi più importanti e i legami familiari più stretti.
L’ultima scena riguarda un tale che prendendo lui stesso l’iniziativa si rivolge a Gesù dicendogli: Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Costui si impegna a seguirlo, ma prima chiede di potersi accomiatare da quelli di casa sua. Ma Gesù risponde: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».
L’aratro, simbolo del lavoro abbandonato da Eliseo, diventa segno del nuovo lavoro dell’apostolo “coltivatore” (chiamando i primi discepoli Gesù aveva parlato di pescatore) di uomini. Ma c’è un’altra differenza più rilevante, tra queste scene di vocazione: nella chiamata per il Regno proposta da Cristo non c’è spazio per il “congedo da quelli di casa”.
Chi intende mettersi alla sequela di Gesù non guarda più al passato, è chiamato ad occuparsi di nuova vita; taglia i legami con le idee vecchie e con gli interessi individuali; deve essere mobile, disposto ad avventurarsi nel territorio del rinnovamento e della perfezione, affronta il rischio della novità, ama l’azzardo della libertà, il cui conseguimento è per lui fondamento di uno spirito di servizio e di solidarietà.
Facendo riferimento alla parole del Vangelo di questa domenica, nell’Angelus del 30 giugno 2013, Papa Francesco ha precisato che nel decidere di andare a Gerusalemme Gesù sa di andare verso la meta finale.
“Alle persone che incontra e che gli chiedono di seguirlo, dice chiaramente quali sono le condizioni: non avere una dimora stabile; sapersi distaccare dagli affetti umani; non cedere alla nostalgia del passato”.
Lui fa la volontà del padre e chiede ai suoi discepoli di annunciare senza imporre nulla “Gesù non impone mai, Gesù è umile, Gesù invita. Se tu vuoi, vieni. L’umiltà di Gesù è così: Lui invita sempre, non impone”.
In questo contesto, il papa Francesco ha spiegato che Gesù ha un grande rispetto della coscienza di ognuno. Lui non è telecomandato, ha preso la decisione insieme al Padre. “Tutto questo ci fa pensare. Ci dice, ad esempio, l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e seguirla. “E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino”.
“In quella decisione Gesù era libero” – ha sottolineato il Papa ed ha aggiunto “Gesù vuole noi cristiani liberi come Lui”.
“Gesù ci vuole liberi e questa libertà dove si fa? Si fa nel dialogo con Dio nella propria coscienza. Se un cristiano non sa parlare con Dio, non sa sentire Dio nella propria coscienza, non è libero, non è libero.”
La Liturgia di questa domenica ci esorta a contemplare la missione salvifica di Gesù con gli occhi di Dio, altrimenti non potremo essere in grado di seguire il Maestro che cammina verso Gerusalemme incontro ad un destino di sofferenza e di morte.
Nella prima lettura, facciamo l’incontro con un profeta minore, Zaccaria, che annunzia a Israele che Dio consolerà e salverà il suo popolo sofferente dopo che avrà conosciuto “colui che hanno trafitto” l’agnello sacrificale in cui si prefigura Cristo. La sofferenza, più che la vittoria sarà sorgente di salvezza.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Galati, San Paolo, afferma che la salvezza è solo in Cristo Gesù che mediante il battesimo ci unisce al suo mistero di morte e vita. La nostra conformità a Cristo ci rende figli di Dio e fratelli in Cristo e annulla ogni diversità e discriminazione.
Nel Vangelo, San Luca ci presenta Gesù che sembra voler fare un’inchiesta su come la gente pensa di Lui e alla fine, ricevute le risposte vaghe sull’opinione degli altri, la domanda la pone direttamente ai suoi discepoli: Ma voi chi dite che io sia?” A questa domanda risponde Pietro «Il Cristo di Dio», ma con la sua risposta raggiunge solo in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è una prima luce gettata nel mistero di Gesù. Questa domanda è sempre attuale e Gesù la pone ad ognuno di noi: Tu, chi dici che sono io? Lui che ci conosce più di quanto noi conosciamo noi stessi, conosce i nostri limiti, e sa che potremo solo balbettare il mistero che lo circonda, ma solo Lui può prenderci per mano e aiutarci nel nostro cammino, quando la luce che lo illumina si fa oscura.
Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore: «Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto.
Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.
In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo.
In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità».
Zc 12,10-11;13,1
Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute.
Il Libro che porta il suo nome, è un testo contenuto anche nella Bibbia ebraica ed è composto di 14 capitoli. I primi otto contengono una serie di visioni concernenti il ritorno del popolo di Dio in Gerusalemme ed accompagnano la ricostruzione dopo l'esilio. I capitoli dal 9 al 14 hanno un'ambientazione diversa e contengono delle visioni relative alla venuta del Messia, gli ultimi giorni, la riunificazione di Israele, l'ultima grande guerra. Sono pagine tempestate di immagini, di simboli e di parole divenute celebri nella rilettura cristiana: si pensi all’azione simbolica del pastore giusto e di quello perverso, ai trenta sicli d’argento ricevuti come saldo per il gregge del pastore giusto, al re-messia umile e mansueto che cavalca un asino e porta al mondo la pace, all’acqua che sgorga dal tempio fecondando deserto e mare.
Il brano liturgico inizia con un oracolo in cui il Signore per mezzo del profeta, annunzia “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione” La parola “grazia”, indica il favore di Dio, cioè una manifestazione della benevolenza divina, non una disposizione dell’uomo. La parola “consolazione” (forse sarebbe meglio dire di pietà e di implorazione) indica sempre una disposizione dell’animo con cui l’uomo si rivolge a Dio per invocarlo, supplicarlo, pregarlo, compiere, insomma, un atto religioso. L’oracolo divino dunque annuncia che Dio, mediante l’effusione del suo Spirito, effettuerà nella comunità di Gerusalemme un cambiamento profondo. Si tratta quindi di un oracolo che riprende quelli di Gioele (Gl 3,1-5) e di Ezechiele (Ez 36), sulla linea del noto testo di Geremia sulla nuova alleanza (Ger 31,31-34).
Nei versetti: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito”,appare un’immagine cara alla tradizione cristiana: è il pastore giusto trafitto, verso cui il gregge ribelle si rivolge e si converte. Questo cambiamento farà sì che gli abitanti di Gerusalemme si pentano guardando a “colui che hanno trafitto” e ne facciano un lutto grande come si fa per un primogenito. L’era della salvezza dipende dunque da una sofferenza e morte misteriosa, paragonabile a quella del Servo del Signore (Is 52,13-53,12).
Salmo 62 - Ha sete di te, Signore, l’anima mia.
O Dio, tu sei il mio Dio,
dall’aurora io ti cerco,
ha sete di te l’anima mia,
desidera te la mia carne
in terra arida, assetata, senz’acqua.
Così nel santuario ti ho contemplato,
guardando la tua potenza e la tua gloria.
Poiché il tuo amore vale più della vita,
le mie labbra canteranno la tua lode.
Così ti benedirò per tutta la vita:
nel tuo nome alzerò le mie mani.
Come saziato dai cibi migliori,
con labbra gioiose ti loderà la mia bocca.
Quando penso a te che sei stato il mio aiuto,
esulto di gioia all’ombra delle tue ali.
A te si stringe l’anima mia:
la tua destra mi sostiene.
Il salmo presenta un pio giudeo, che fin dal primissimo mattino si pone in orazione. Egli cerca Dio, perché gli si è rivelato a lui per mezzo del dono della fede e delle Scritture, e ora cerca l’unione con lui, l’intima conoscenza di lui, in un “cercare” in cui il “trovare” spinge ancor più a cercare.
L’orante è presentato come un assetato in mezzo ad un deserto. Ma l’assetato del salmo sa dov’è la fonte, non è disorientato; sa che la fonte della pace e della gioia è Dio: Dio stesso è questa fonte.
L’orante ha un punto di riferimento: il tempio; e così vi si reca per trarre ristoro nella contemplazione Dio: “Così nel santuario ti ho contemplato, guardando la tua potenza e la tua gloria”. L’orante cerca Dio, ama Dio, non tanto i benefici di Dio. Ama lui, e lo dichiara poiché dice che la comunione con lui (“il tuo amore") “vale più della vita”. Questa dolce consapevolezza è la molla della sua lode: “Le mie labbra canteranno la tua lode”; “Così ti benedirò per tutta la vita”. Egli, ritornato dal tempio alla sua dimora, probabilmente distante da Gerusalemme, ha come pensiero dolce e vivo Dio, e così “nelle veglie notturne”, quando il sonno è assente, non si agita, ma pensa a Dio, cerca Dio.
Ha tanti nemici che cercano di ucciderlo, che probabilmente sono con bande di predoni Idumei (Cf. Ps 58), ma ha la ferma speranza che i nemici non avranno vittoria e che il re trionferà e insieme a lui chi gli è fedele: “Chi giura per lui” (Cf. 1Sam 17,55; 25,2; 2Sam 11,11; 15,21; ecc.). Gli ultimi versetti, per le loro dure espressioni, non entrano nella recitazione cristiana.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Galati
Fratelli, tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
Gal 3,26-29
In questo brano della lettera ai Galati, Paolo vuole dimostrare che eredi di Abramo e delle promesse a lui conferite non si diventa mediante la legge, come i Galati erano portati a pensare. Per esprimere la liberazione dalla legge Paolo si rifà a un rito del battesimo:
“tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo.”
La dignità più alta conferita a chi crede in Cristo, Figlio di Dio, consiste nel diventare “figli di Dio”. La fede cristiana infatti non è un’adesione soltanto mentale al mistero di Cristo, ma coinvolge anche il corpo del credente, facendolo diventare membro del corpo di Cristo, unendolo al mistero della Sua morte e risurrezione (Rm 6,3-14). Diversamente dalla circoncisione, il battesimo non è un semplice rito, ma il segno di un rapporto esistenziale che si instaura tra due persone, quella del credente e quella di Cristo. Il battesimo però non opera soltanto un cambiamento di relazione, ma anche un cambiamento nell’essere, che Paolo esprime con il verbo “rivestire”. L’espressione “vi siete rivestiti di Cristo” potrebbe far pensare ad un cambiamento soltanto esterno, superficiale, ma qui la metafora del vestito è usata per esprimere l’idea di un cambiamento interiore. Il rivestirsi di Cristo implica dunque una trasformazione profonda che comporta conseguenze di ordine comunitario che Paolo esprime con:
“Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.”
Con queste parole egli proclama l’abolizione, in Cristo, di tre barriere che dividono gli esseri umani, sul piano religioso, tra giudeo e greco, sul piano civile, tra schiavo e uomo libero, sul piano sessuale, tra maschio e femmina. L’eliminazione di queste barriere, afferma Paolo, avvengono, “in Cristo Gesù”!.
È nel Cristo risorto, cioè nella comunità, che è corpo di Cristo, che queste distinzioni non hanno più motivo di esistere.
Dal vangelo secondo Luca
Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».
Lc 9, 18-24
Dal Vangelo della Domenica scorsa (la XI) a questa, nel Vangelo di Luca c’è un notevole salto (quasi 70 vv) in cui c’è stato il discorso delle parabole, una serie di miracoli come la guarigione dell’indemoniato e di un’emorroissa, la risurrezione della figlia di Giairo, l’invio dei dodici in missione, la moltiplicazione dei pani. Ora viene proposto questo episodio denominato la professione di fede di Pietro.
Il brano inizia riportando che Gesù era in un luogo appartato in preghiera e ai discepoli che erano con Lui pone una domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. ed essi risposero: “Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto”.
Poi arriva la domanda diretta, esplicita: “Ma voi chi dite che io sia?” preceduta da un “ma”, come se i discepoli appartenessero ad un'altra logica. Gesù non vuol avere una risposta compiacente, ma vuole sapere ciò che in realtà già conosce, cioè chi lo ascolta e lo segue ha capito chi è, quale sia la sua missione?
La risposta non è affatto immediata, anzi quando arriva è vaga, perché il mistero è grande. Pietro rispondendo “Il Cristo di Dio”, raggiunge solo in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è una luce gettata nel mistero di Gesù, ma una luce ancora striata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che letteralmente significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia”, pur sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro è ancora incompleta: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”.
Poi c’è un secondo momento in cui Gesù impone il silenzio attorno alla professione di fede di Pietro perchè Egli la vuole illuminare di una strana sconcertante luce. Certo, Egli è il messia Salvatore; ma un Salvatore che non imbocca la strada del trionfo umano, bensì quella della donazione della stessa vita per la salvezza delle persone amate, un messia che attua la sua opera gloriosa consacrandosi nel sangue e nella morte più infamante, la morte di croce. Un profeta perfetto e definitivo che è totalmente rifiutato dai responsabili e dalle autorità del popolo. Si apre allora, nelle parole di Gesù, segnate dalla passione, il terzo quadro, destinato direttamente ai discepoli, che devono comprendere quanto sia impegnativa quella professione di fede pronunziata con le labbra.
Ripensiamo alla domanda, preceduta dal “Ma”, che è sempre viva e attuale perchè Gesù continua a ripeterla ad ognuno di noi: “Ma Chi sono io per te?» Lui non aspetta la giusta definizione di chi sia veramente, perchè Dio non lo si potrà mai definire, ma quanto di Lui vive nell’esistenza di ognuno di noi Gesù ci educa alla fede attraverso domande, prove, non servono studi, letture, catechismi, ma fame di pane e di assoluto. Ognuno che ha Dio nel sangue, può dare la sua risposta.
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Ma voi chi dite che io sia?». La domanda di Gesù ai suoi discepoli raggiunge, dopo duemila anni, ciascuno di noi e pretende una risposta vissuta. Una risposta che non si trova nei libri come una formula ma nell’esperienza di chi segue davvero Gesù, con l’aiuto di un «grande lavoratore», lo Spirito Santo.
Papa Francesco
Dalla meditazione mattutina nella cappella della
domus sanctae marthae - 20 febbraio 2014
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)