Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore del rifiuto della parola di Dio.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo che Dio affida al profeta la missione di andare dagli Israeliti, definiti popolo di ribelli, pur sapendo che non sarà ascoltato. Il fine per cui Dio lo manda è uno solo far sapere che in mezzo a loro c’è un profeta e Dio, che è fedele, non li ha abbandonati.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Corinto, Paolo contro i suoi calunniatori, rivendica con forza la sua dignità d apostolo. L’autenticità del suo ministero è confermata dalle persecuzione e dalla “spina nella carne” permessa da Dio per rendere fecondo il suo servizio al Vangelo, e afferma che proprio quando è debole, è allora che è forte.
Nel Vangelo, Marco ci racconta che gli abitanti di Nazareth rifiutano di riconoscere in Gesù Cristo il Messia atteso: l’incredulità, l’indifferenza, l’ostilità di fronte alla Parola, la presa di posizione nei suoi confronti appartengono quanto mai al mistero della libertà umana. Gesù suggella tutto questo con l’espressione «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».
Dal libro del profeta Ezechièle
In quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava. Mi disse:
«Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi.
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Ez 2,2-5
Ezechiele era di stirpe sacerdotale e fu fra i primi deportati dopo il primo assedio di Gerusalemme conclusosi nel 596 a.C. Il suo ministero ha due fasi ben distinte, prima dell'esilio e durante l'esilio.
Inizia il suo ministero nel 593 a.C., quinto anno dell'esilio del re Ioiachin, e prosegue certamente fino al 571 a.C. anno della presa di Tiro da parte di Nabucodonosor, (avvenimento esplicitamente citato in 29,18).
Il ministero di Ezechiele è segnato da un unico drammatico avvenimento, lasciando il resto degli eventi storici al ruolo di contorno: la profanazione e la distruzione del Tempio nel corso del secondo e definitivo assedio di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor, nel 586 a.C.. Tale avvenimento segna la fine del regno di Giuda e uno spartiacque fra due epoche per la storia degli ebrei.
Il suo libro è diviso in due da questo evento: la prima parte contiene quasi esclusivamente oracoli che minacciano l'inevitabile punizione delle gravi colpe di Giuda, mentre la seconda parte, accaduto l'irreparabile, lascia filtrare bagliori di speranza in un futuro riscatto non troppo lontano, concludendosi con la visione della nuova Gerusalemme e del suo nuovo Tempio.
Rispetto agli altri due grandi profeti scrittori, Isaia e Geremia, Ezechiele introduce alcuni elementi nuovi, accanto agli oracoli, fra cui la “visione” ed il “mimo”.
La visione è uno dei mezzi con cui DIO comunica con il profeta, che di solito esce sconvolto dall'esperienza, senza però mai abbandonare la sua missione. Come in un sogno o un delirio, Ezechiele vede l'aspetto visibile della gloria del Signore. È da notare come questi elementi non vengano mai legati fra loro a dare un'immagine antropomorfa di Dio, che rimane ineffabile come il Suo nome.
Il mimo è invece un mezzo che DIO stesso suggerisce al profeta per trasmettere il proprio messaggio ai suoi compagni di esilio: di volta in volta, Ezechiele mette in scena complesse rappresentazioni che però, per quanto comprese dai suoi compagni, vengono di regola ignorate o prese con sufficienza, quando non con disprezzo e scherno. Ezechiele, comunque, non si perde d'animo e porta avanti la missione affidatagli.
Ezechiele fu certamente un profeta di un rinnovamento profondo che fa presentire l’annuncio del Mistero di Gesù, specialmente come lo vede S.Giovanni. Si comprende come il IV Vangelo e l’Apocalisse utilizzino abbondantemente le immagini e le formule di Ezechiele.
Il brano che abbiamo, tratto dalla seconda relazione della chiamata profetica di Ezechiele, con l’espressione “Figlio dell’uomo” cara al profeta, viene svelato già il destino sconcertante del chiamato. Infatti intorno a lui si stringerà solo un popolo ostinato e peccatore, una vera e propria razza di ribelli, desiderosa solo di segni comodi e di parole inoffensive e neutre. Eppure anche se “Ascoltino o non ascoltino” – non potranno far tacere o ignorare la voce scomoda del profeta. La parola infatti che il profeta comunica non è sua, ma quella di Dio stesso: Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio…” La fermezza nell’ostilità e nell’isolamento sarà, infatti, la caratteristica di questo profeta, “pastore degli esuli” a Babilonia, lontano dalla sua terra in mezzo a connazionali ottusi e incattiviti dalla schiavitù. Egli sa che la sua predicazione non sarà accettata, ma lui nonostante tutto deve parlare ugualmente affinché sappiano che Dio non li ha abbandonati. Egli è un Dio fedele per questo è sempre presente!
Salmo 122 I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.
Il salmo riflette una situazione di dolore e di smarrimento alla quale l'orante reagisce con una grande fiducia in Dio.
Molto probabilmente si tratta di eventi dell'epoca Maccabaica. Quando venne ucciso Giuda Maccabeo i rinnegati di Israele, quelli passati ai costumi ellenistici, ripresero forza con Bacchide, che perseguitò coloro che si erano uniti nella fedeltà all'alleanza (1Mac 9,22-26). Stessa situazione si ebbe dopo la morte del successore di Giuda Maccabeo, Gionata (1Mac 12,52).
In quel tempo mancavano profeti e i fedeli in attesa di una guida che li conducesse alla vittoria guardavano a Dio per sapere come muoversi, come reagire.
Commento di P. Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”
Cor 12,7-10
Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, ed aver esortati gli abitanti di Corinto alla generosità, si vede costretto anche a fare, nei versetti precedenti questo brano, il proprio elogio e parla del suo rapimento al terzo cielo. – “Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa - se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio - fu rapito fino al terzo cielo” (12,2…) Paolo qui offre una testimonianza straordinaria. Il suo spirito fu elevato alla più alta contemplazione dei misteri divini, che nessuna parola umana può descrivere. Fu rapito al terzo cielo, cioè nel più alto dei cieli, fu tirato come fuori di sé, fino a perdere ogni sentimento della propria vita corporea, tanto il suo spirito era stato investito in questa esperienza. Questo avvenne intorno all’anno 42, a cinque anni quindi dalla conversione. Paolo era allora in Siria o in Cilicia, e mancavano ancora alcuni anni all’inizio delle sue grandi missioni.
Il brano liturgico, che è uno dei più discussi a causa di certe particolari espressioni, inizia riportando una situazione molto tormentata: “affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia”
Non si sa molto bene cosa fosse questa spina nella carne, probabilmente una malattia – dalla quale Cristo non ha voluto guarirlo e che moltiplica le difficoltà della sua vita apostolica. Altri esperti pensano non tanto ad una malattia quanto che l’inviato di satana potrebbe essere un oppositore dell’apostolato di Paolo, inviato appunto da satana: quindi, qualcuno che gli sta creando problemi nell’apostolato.
Paolo non esita a presentarsi come uomo, soggetto agli attacchi di Satana nella carne. E' salito al terzo cielo, ha avuto rivelazioni luminosissime, avrebbe desiderato rimanere in quello stato di estasi, ma ecco che gli attacchi del nemico gli ricordano che è ancora in cammino e che ha una carne contro la quale combattere con volontà decisa e preghiera incessante affinché il Signore lo allontani da questo nemico. “Ma il Signore gli risponde: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”, cioè “ti deve bastare la mia forza, che agisce in te. Sono io che opero in te perché sei in comunione con me, ed essere in comunione con me è un mio dono d’amore”.
Il Signore perciò gli fa capire che la spina nella carne (questa afflizione) è parte di quella debolezza che rientra nel disegno mirabile di salvezza e permette alla potenza di Dio di manifestarsi pienamente.
Paolo così può affermare: “perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.”
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Mc 6, 1-6
L’evangelista Marco ci narra in questo brano la visita di Gesù nella Sua patria che riprende il tema della mancanza di fede del popolo ebraico.
Appena arrivato di sabato a Nazareth con i suoi discepoli, Gesù si reca subito alla sinagoga per poter insegnare. Anche se non si conosce il contenuto del suo discorso si può immaginare che cerca di educare i Suoi concittadini prima di compiere miracoli e guarigioni. Marco ci riferisce subito la reazione dei numerosi uditori che stupiti commentano: “Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?”
Gli abitanti di Nazareth credono di conoscere Gesù meglio di chiunque altro perchè lo hanno visto crescere ed esercitare il suo mestiere. Incontrano ogni giorno sua madre e i membri della sua famiglia di cui conoscono nomi, vita e miracoli. Di fronte a Gesù si sentono turbati, imbarazzati, persino irritati. Rifiutano di lasciar mettere in discussione il loro piccolo mondo e la valutazione che si erano fatta sulla sua persona. Non sanno aprirsi al Gesù reale, perché restano caparbiamente attaccati al ritratto che si erano fatto di lui.
Questo episodio naturalmente va al di là del rifiuto di un piccolo paese della Galilea, prefigura infatti il rifiuto dell'intero Israele (Gv 1,11). Che un profeta poi sia rifiutato dal suo popolo non è una novità, se perfino un proverbio, nato da una lunga esperienza che ha accompagnato tutta la storia d'Israele, lo afferma, e trova la sua più clamorosa dimostrazione nella storia del Figlio di Dio e che continuerà a ripetersi continuamente nella storia umana.
Marco riporta con un tono di tristezza il commento di Gesù quando dichiara: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”.
E conclude che Gesù “lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Da questo particolare vediamo che Gesù si rende disponibile anche per quei pochi malati, guarendoli. Il Signore guarda sempre l’umile e l’oppresso anche se fa parte di una comunità che non lo accetta: Lui guarda nei cuori e non giudica per sentito dire.
******************
In che cosa consiste l’incredulità dei nazaretani?
Di solito si dice che è difficile credere in Gesù per coloro che non lo hanno visto, né sentito o accostato, diversamente da come è accaduto ai suoi contemporanei e concittadini: Questi lo hanno ben osservato e sono vissuti con lui. Il loro disappunto non deriva dunque dal non aver sperimentato concretamente la sua presenza e la sua azione.
Si tratta di un’incredulità più profondamente marcata, che sgorga dall’interno dell’animo, nascosta in quell’angolo interiore dove l’uomo ritrova il senso radicale di sé e di Dio. Là dove si depositano le aspirazioni, i risentimenti, le passioni più sincere. E’ l’incredulità di colui che non vuol decifrare, capire, meditare, approfondire le realtà divine che si rivelano attraverso la semplicità e la naturalezza che si fa immanente e si inserisce nell’esistenza quotidiana. Un Dio che si fa vicino e accanto all’uomo esiste in quell’uomo, Gesù di Nazareth, il figlio di Maria.
Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole
Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore la fede, la vita e la morte.
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, troviamo una riflessione sul perchè Dio ci ha creati: per la vita sicuramente, e la morte non può venire da Lui, infatti viene affermato: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo esorta i cristiani di Corinto a dare un significato spirituale cristiano alla generosità materiale della colletta fatta per soccorrere la povertà della chiesa-madre di Gerusalemme.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco descrivendoci i due miracoli intende presentarci diversi livelli della fede: quella imperfetta, come quella della donna che vuole toccare il mantello di Gesù per essere guarita e quella disperata di chi nella disperazione più completa è sicuro che Gesù potrà intervenire a favore della sua figlioletta, ormai moribonda. Di fronte alla sua fede, scatta il miracolo: il Signore Gesù compie ciò che è umanamente impossibile: ridona la vita.
I miracoli di Gesù non sono solo segni della Sua potenza, prova della Sua natura divina, sono atti di compassione e d’amore. Lo possiamo notare con quale dolcezza si rivolge all’emorroissa chiamandola: “Figlia…” e all’umanissima premura perchè alla bambina appena risuscitata si dia da mangiare.
Si allega anche il commento alle letture della Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, che la Chiesa di Roma li festeggia come santi Patroni.
Dal Libro della Sapienza
Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.
Sa 1,13-15; 2,23-24
Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico.
È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”). L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco e si compone di 19 capitoli che si possono ricondurre a tre parti principali:
Nella Prima parte (cap. 1-5), da dove viene tratto il brano che la liturgia ci presenta, viene presentata la possibilità di due diversi atteggiamenti che derivano dal senso che si dà all’esistenza e cioè:
- o siamo nati per caso, per cui dopo questa vita non esiste niente;
- oppure veniamo da Dio e a Lui ritorniamo conducendo una vita santa, restando saldi nel Suo amore.
Al di fuori di tale sapienza vi è la morte, ma Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi, poiché il Signore non vuole la morte ma la vita.
La Seconda parte (cap. 6,1-11,3) ci invita a ricercare la Sapienza di Dio, “amica degli uomini”, così da farne “la compagna della nostra vita”, lasciandoci attirare dalla sua bellezza. Il re Salomone tesse un elogio alla Sapienza con parole che di fatto non sono sue. L’autore del libro, infatti, per sviluppare il tema, usa la storia del re così come viene riferita nel 1 libro dei Re al cap. 3 e dal secondo libro delle Cronache. In base ai due racconti, Salomone trascorse la notte in preghiera nel santuario in cima al monte Gabon, per chiedere al Signore la saggezza necessaria per governare il suo popolo. In questa seconda parte la Sapienza si rivela come presenza di Dio nel mondo e nell’uomo, per condurre quest’ultimo sulle vie di Dio.
Nella Terza parte (cap. 11,4 - 19,22) la Sapienza sembra quasi scomparire dalla storia del popolo israelita. L’autore allora tenta di dimostrare la grandezza di Dio e la missione del popolo in un momento in cui nuove culture lo stanno seducendo. Secondo l’autore l’uomo saggio è l’uomo giusto chiamato a vivere nell’eternità di Dio. E poiché la Sapienza è una realtà misteriosa nascosta nel cuore del mondo, essa si rivela a chi la ricerca con tutto il cuore ed è concessa proprio come dono di Dio.
Dio partecipa all’uomo la Sapienza con cui ha creato il mondo, ma per riceverla in dono è necessario che l’uomo stia lontano dal male allontanandosi dalle cose terrene effimere, e troppo superficiali. La Sapienza non è dunque una filosofia che insegna l’arte del vivere, piuttosto indica una scelta di fede che permette di entrare in contatto con Dio e rimanere in relazione con Lui.
Salmo 29 - Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato
Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato,
non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me.
Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi,
mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.
Cantate inni al Signore, o suoi fedeli,
della sua santità celebrate il ricordo,
perché la sua collera dura un istante,
la sua bontà per tutta la vita.
Alla sera ospite è il pianto
e al mattino la gioia.
Ascolta, Signore, abbi pietà di me,
Signore, vieni in mio aiuto!
Hai mutato il mio lamento in danza,
Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.
L’autore del salmo riconosce di essere stato nel passato ampiamente beneficato da Dio, ma aveva peccato di presunzione dicendo tra sé: “Mai potrò vacillare!”.
Per questo Dio l’aveva abbandonato e gli aveva nascosto per “un istante” il suo volto. Per “un istante” l’aveva esposto ai suoi nemici, i quali giunsero ad un sol passo dal prevalere su di lui, ma Dio gli diede “vita” e così poté sfuggire alla morte. Per questo egli è diventato un testimone della bontà del Signore: “Cantate inni al Signore, o suoi fedeli”.
Permane però nelle insidie ed egli si rivolge a Dio chiedendo di conservarlo in vita, perché non ne trarrebbe nessun vantaggio dalla sua morte: “Quale guadagno dalla mia morte, dalla mia discesa nella fossa? Potrà ringraziarti la polvere e proclamare la tua fedeltà?”. La sua missione, il suo proclamare la fedeltà di Dio, sarebbe interrotta anzitempo. Umile, invoca misericordia, e lascia il lamento sperimentando ancora una volta la fedeltà del Signore. Conclude confermandosi nell’amore per il Signore: “Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
2Cor 8,7,9,13-15
Paolo continuando la sua seconda lettera al Corinzi, dopo aver percorso nei primi 6 capitoli la sua vocazione di predicatore del Vangelo e della situazione che si era creata con la comunità di Corinto, nel capitolo ottavo esorta gli abitanti di Corinto alla generosità con temi che gli sono cari: la povertà, fonte di arricchimento per gli altri, l’esempio di Cristo, il dono di Dio, che suscita il dono dei cristiani.
Il brano liturgico inizia con l’esortazione:
Fratelli, come siete ricchi in ogni cosa, nella fede, nella parola, nella conoscenza, in ogni zelo e nella carità che vi abbiamo insegnato, così siate larghi anche in quest’opera generosa.
Paolo riconosce nella comunità di Corinto una fede viva che travalica i confini della città e si riversa nel mondo circostante perché la comunità ha saputo fondare la propria vita di credenti sulla parola, sulla fede, sulla scienza, sullo zelo, sulla carità. Questa modo di vivere è l’essenza del Vangelo ed è stata insegnata loro da Paolo!
Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Con questa espressione Paolo passa ad un esame vero e proprio sulla consistenza dell’essere cristiani, perchè tramite l’opera di carità si saprà chi veramente cammina dietro Cristo per imitarlo, e chi invece va dietro di Lui solo per qualche interesse umano. Il cristianesimo è prima di ogni altra cosa sequela di Cristo, imitazione di Lui. Chi vuole essere cristiano non solo deve camminare dietro Cristo, deve anche imitarlo, poiché è nell’imitazione di Cristo che si raggiunge la perfezione morale, si raggiunge la pienezza nella fede, nella speranza, nella carità.
Poi nel versetto seguente è più esplicito: Non si tratta di mettere in difficoltà voi per sollevare gli altri, ma che vi sia uguaglianza. La chiesa di Gerusalemme ha dato ai Corinzi i beni spirituali, la verità e la grazia di nostro Signore Gesù Cristo, è ben giusto che la comunità dei Corinzi doni alla chiesa di Gerusalemme quanto può perché sopravviva in un momento di così grave carestia.
Per il momento la vostra abbondanza supplisca alla loro indigenza, perché anche la loro abbondanza supplisca alla vostra indigenza, e vi sia uguaglianza, come sta scritto: «Colui che raccolse molto non abbondò e colui che raccolse poco non ebbe di meno».
L’abbondanza e l’indigenza sono su due piani differenti, si tratta di abbondanza spirituale e di indigenza materiale. La chiesa di Gerusalemme è sempre nell’abbondanza spirituale e questa abbondanza viene riversata sull’indigenza spirituale che accompagna la comunità di Corinto.
Paolo domanda infondo agli abitanti di Corinto solo il loro superfluo, mentre i cristiani di Macedonia (citati nei versetti 2-3 non riportati nel brano liturgico) nella loro “estrema povertà” hanno saputo dare “al di là dei loro mezzi”. Ma Paolo, proponendo l’esempio di Cristo, li invita discretamente a imitare la generosità dei loro fratelli macedoni.
Il messaggio che arriva a noi oggi è che solo con la condivisione può esserci la vera comunità che ci salva. Ogni uomo, per piccolo e povero che sia, ha qualcosa da dare agli altri e nessuno è così ricco da non poter più ricevere niente dagli altri.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina.
Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Mc 5,21-43
L’evangelista Marco in questo brano ci presenta due miracoli di Gesù intrecciati tra loro, quello della donna colpita da emorragia e la resurrezione della figlia di Giàiro, capo della sinagoga di Cafarnao. Gesù si trova nella cornice vociante e affollata di una località intorno al lago di Tiberiade, punto centrale della prima fase della sua missione. Negli episodi raccontanti precedentemente Marco aveva narrato la tempesta sedata dove i discepoli avevano commentato”, e subito dopo la guarigione dell’indemoniato. sbalorditi Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?
Questo brano dopo aver precisato che “Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, e la molta folla che si era radunata intorno a lui, ci riporta che “venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.”
Ora l’evangelista sposta la nostra attenzione su di un nuovo personaggio rappresentativo nel quale ognuno di noi si può immedesimare: “una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, “
Il sangue è la vita, e perdere sangue significa perdere la vita. Una donna in queste condizioni, secondo il Libro del Levitico (15,25), è una donna in perenne condizione di impurità. Se non è sposata non trova nessuno che la sposa, se è sposata non può avere rapporto con il marito, quindi è destinata alla sterilità, anzi il marito la può perfino ripudiare. Quindi una donna che non ha nessuna speranza; è impura, non può entrare nel tempio, è equiparata a un lebbroso. Allora, per la donna non ci sono speranze; se continua ad osservare la legge va incontro alla morte, ma lei, che “aveva sentito “parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata»”.
Ci prova di nascosto perché una donna che, nelle sue condizioni, pubblicamente e volontariamente, toccava un uomo, era passibile di morte, perché lo rendeva impuro. “E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male”.
Gesù avverte che una “forza era uscita da lui”, una forza di vita e “si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Il commento che fanno i suoi discepoli è quello di considerare Gesù quasi un insensato. I discepoli sono accanto a Gesù, ma non gli sono vicini, loro lo accompagnano, ma non lo seguono. Non basta stare accanto a Gesù per percepirne e riceverne la forza della vita.
“Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto” Impaurita perché sapeva di aver compiuto una trasgressione e quindi si aspettava sicuramente una punizione, “venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità”. Ecco, quello che, agli occhi della religione, è considerato un sacrilegio, agli occhi di Gesù invece … “Egli le disse “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”.
La donna sparisce dalla scena, è subito risucchiata dalla folla e scompare, lasciando viva la sua immagine in questa pagina evangelica.
Ora l’attenzione si sposta di nuovo su Gesù che aveva appena finito di parlare “quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Sicuramente lo sconforto invase l'animo del povero Giàiro e forse anche la sua fede divenne più debole. “Ma Gesù, udito quanto dicevano, gli disse “Non temere, soltanto abbi fede!”. E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo”, ossia i tre discepoli che in seguito saranno presenti alla sua trasfigurazione e alla sua angoscia mortale nel Getsemani. Dopo la risurrezione, essi potranno narrare queste cose, e allora anche la risurrezione della figlia di Giàiro apparirà sotto una nuova luce.
L’evangelista: annota: Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano.
Gli atti che Gesù compie una volta entrato in quella camera, dove giaceva il corpo esamine della bambina, nel silenzio e nella solitudine, dopo aver sicuramente allontanato il gruppo delle lamentatrici, dei musici, dei parenti afflitti, hanno le sue radici nel divino eterno. Cerchiamo di immaginare la scena: Egli stende la Sua mano, la stessa mano di Dio, e alla mano si aggiunge la parola efficace e creatrice. Bastano solo due parole pronunziate in una lingua umana, quella parlata da Gesù, l’aramaico: "Talita kum", Fanciulla, io ti dico: àlzati!» e la bambina si alzò e si mise a camminare. Davanti alla morte, nemica di Dio e dell’uomo, si è levata la voce di Cristo che ridona la vita. In questa bambina si anticipa simbolicamente il mistero della Pasqua in cui la morte è solo un “sonno”, come l’aveva chiamata Gesù, in attesa dell’incontro con l’eterno di Dio.
Da questi due racconti di miracolo esce un grande richiamo che ci invita ad avere una fede pura e totale, libera da magie e superstizioni, fiduciosa solo nel Dio della vita. Da imperfetta come quella della donna, persino da disperata come quella di Giàiro, la fede può crescere, maturare e diventare totale. E’ questo l’impegno fondamentale del cammino spirituale del cristiano, che tanto auspica Papa Francesco.
****
“Il Vangelo di oggi presenta il racconto della risurrezione di una ragazzina di dodici anni, figlia di uno dei capi della sinagoga, il quale si getta ai piedi di Gesù e lo supplica: «La mia figlioletta sta morendo; vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva».
In questa preghiera sentiamo la preoccupazione di ogni padre per la vita e per il bene dei suoi figli. Ma sentiamo anche la grande fede che quell’uomo ha in Gesù. E quando arriva la notizia che la fanciulla è morta, Gesù gli dice: «Non temere, soltanto abbi fede!». Dà coraggio questa parola di Gesù! E la dice anche a noi, tante volte: “Non temere, soltanto abbi fede!”. Entrato nella casa, il Signore manda via tutta la gente che piange e grida e si rivolge alla bambina morta, dicendo: «Fanciulla, io ti dico: alzati!». E subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare. Qui si vede il potere assoluto di Gesù sulla morte, che per Lui è come un sonno dal quale ci può risvegliare.
All’interno di questo racconto, l’Evangelista inserisce un altro episodio: la guarigione di una donna che da dodici anni soffriva di perdite di sangue. A causa di questa malattia che, secondo la cultura del tempo, la rendeva “impura”, ella doveva evitare ogni contatto umano: poverina, era condannata ad una morte civile. Questa donna anonima, in mezzo alla folla che segue Gesù, dice tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E così avviene: il bisogno di essere liberata la spinge ad osare e la fede “strappa”, per così dire, al Signore la guarigione.
Chi crede “tocca” Gesù e attinge da Lui la Grazia che salva. La fede è questo: toccare Gesù e attingere da Lui la grazia che salva. Ci salva, ci salva la vita spirituale, ci salva da tanti problemi. Gesù se ne accorge e, in mezzo alla gente, cerca il volto di quella donna. Lei si fa avanti tremante e Lui le dice: «Figlia, la tua fede ti ha salvata». E’ la voce del Padre celeste che parla in Gesù: “Figlia, non sei maledetta, non sei esclusa, sei mia figlia!”.
E ogni volta che Gesù si avvicina a noi, quando noi andiamo da Lui con la fede, sentiamo questo dal Padre: “Figlio, tu sei mio figlio, tu sei mia figlia! Tu sei guarito, tu sei guarita. Io perdono tutti, tutto. Io guarisco tutti e tutto”.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 28 giugno 2015
La solennità dei Santi Apostoli, Pietro e Paolo, definiti dai Padri della Chiesa come le due colonne sulle quali poggia la costruzione visibile della Chiesa, è antichissima, ed è stata inserita nel Santorale romano molto prima di quella di Natale. Già nel IV secolo si celebravano tre messe: una in S.Pietro in Vaticano, l’altra in S.Paolo fuori le mura, la terza alle catacombe di S.Sebastiano dove furono probabilmente nascosti per un certo tempo, all’epoca delle invasioni, i corpi dei due santi apostoli. La Liturgia li celebra insieme facendo memoria del loro glorioso martirio.
Nella prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, Luca ci narra come Pietro è stato imprigionato da Erode, ma che la preghiera incessante dei credenti è stata esaudita da Dio con l’invio dell’angelo liberatore.
Nella seconda lettura, nella sua lettera a Timoteo, Paolo scrive con parole toccanti ciò che è stato definito il suo testamento: Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Tutti lo hanno abbandonato, solo il Signore Paolo sente vicino.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù mette alla prova i discepoli, chiedendo chi egli sia per loro. Pietro risponde confessando di riconoscere in lui il Figlio di Dio. La missione che Gesù affida a Pietro è descritta mediante i simboli della “pietra”, fondamento di ogni costruzione, delle “chiavi”, simbolo dell’autorità e del “legare e sciogliere”, cioè la responsabilità del decidere.
Dagli Atti degli Apostoli
In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Àzzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua.
Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.
Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Àlzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione.
Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.
Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».
At 12,1-11
L’evangelista Luca descrive in questo brano come la vita dei testimoni di Cristo riflette quella del Maestro. Erode (re della Giudea e della Samaria, nipote dell’Erode Antipa che si incontra nella passione di Gesù) fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. (Giacomo (il Maggiore) fu il primo degli apostoli a dare la vita per il Maestro, bevendo il calice del Signore, suo fratello Giovanni sarà l’ultimo degli apostoli a scomparire). Poi vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro.
Pietro è catturato nei giorni degli azzimi come Gesù.
Pietro, come tutti i testimoni, è sempre uno che dà fastidio, e come Gesù è esposto alla sofferenza e alla morte. Ma la missione di Pietro non termina qui.
Luca narra in questo brano come è stato liberato e la sua descrizione tocca uno dei tempi preferiti dall’evangelista: Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. E la preghiera è esaudita perché gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella….
Una Chiesa perseguitata prega come Gesù e come Gesù riceve forza dall’angelo.
Nota: San Giacomo il Maggiore dopo l'ascesa di Gesù al cielo iniziò la sua opera di evangelizzazione della Spagna spingendosi fino in Galizia. Terminata la sua opera Giacomo tornò in Palestina dove fu decapitato per ordine di Erode Agrippa nell'anno 44. I suoi discepoli, con una barca, guidata da un angelo, ne trasportarono il corpo nuovamente in Galizia per seppellirlo in un bosco vicino ad Iria Flavia, il porto romano più importante della zona. Nei secoli le persecuzioni e le proibizioni di visitare il luogo fanno sì che della tomba dell'apostolo si perdano memoria e tracce. Nell'anno 813 l'eremita Pelagio, preavvertito da un angelo, vide delle strane luci simili a stelle sul monte Liberon, dove esistevano antiche fortificazioni probabilmente di un antico villaggio celtico. Il vescovo Teodomiro, interessato dallo strano fenomeno, scoprì in quel luogo una tomba, probabilmente di epoca romana, che conteneva tre corpi, uno dei tre aveva la testa mozzata ed una scritta:"Qui giace Jacobus, figlio di Zebedeo e Salomé".»
Salmo 33 Il Signore mi ha liberato da ogni paura.
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore:
mi ha risposto e da ogni mia paura mi ha liberato.
L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia.
L’autore del salmo, ricco dell’esperienza di Dio indirizza il suo sapere ai poveri, agli umili, e in particolare ai suoi figli. Egli afferma che sempre benedirà il Signore e che sempre si glorierà di lui. Egli chiede di venire ascoltato e invita gli umili ad unirsi con lui nel celebrare il Signore: “Magnificate con me il Signore, esaltiamo insieme il suo nome”.
Egli comunica la sua storia dicendo che ha cercato il Signore e ne ha ricevuto risposta cosicché “da ogni timore mi ha liberato”. Per questo invita gli umili a guardare con fiducia a Dio, e dice: “sarete raggianti”. “Questo povero”, cioè il vero povero, quello che è umile, è ascoltato dal Signore e l’angelo del Signore lo protegge dagli assalti dei nemici: “L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono (Dio), e li libera”.
L’angelo del Signore è con tutta probabilità l’angelo protettore del popolo di Dio, chiamato così per antonomasia; sarebbe l’arcangelo Michele (Cf. Es 14,19; 23,23; 32,34; Nm 22,22; Dn 10,21; 12,1). Il salmista continua la sua composizione invitando ad amare Dio dal quale procede gioia e pace: “Gustate e vedete com'è buono il Signore, beato l’uomo che in lui si rifugia”.
L’orante moltiplica i suoi inviti al bene: “Sta lontano dal male e fà il bene, cerca e persegui la pace”. Cercala, cioè trovala in Dio, e perseguila comportandoti rettamente con gli altri.
Il salmista non nasconde che il giusto è raggiunto da molti mali, ma dice che “da tutti lo libera il Signore”. Anche dalle angosce della morte, poiché “custodisce tutte le tue ossa, neppure uno sarà spezzato”. Queste parole sono avverate nel Cristo, come dice il Vangelo di Giovanni (19,16). Per noi vanno interpretate nel senso che se anche gli empi possono prevalere fino ad uccidere il giusto e farne scempio, le sue ossa sono al riparo perché risorgeranno.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla seconda lettera di san Paolo a Timoteo
Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.
Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.
Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone.
Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli
Amen.
2 Tm 4,6-8.17.18
Paolo nel terminare la sua lettera a Timoteo volge lo sguardo al passato: io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Riguardo al suo passato, Paolo descrive la sua vita apostolica come una battaglia e come una competizione sportiva paragonando l'impegno e il rischio della sua missione alle gare nello stadio. Lo sguardo si volge poi al futuro, con il ricorso nuovamente alle immagini delle gare sportive: Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione. Per l’ambiente greco al vincitore di una gara spettava la corona di alloro, premio carico di significati come onore, gioia, immortalità e trionfo. Alla corona qui invece segue “di giustizia”: non si tratta dunque di un riconoscimento umano, ma di quello che viene da Dio.
Nella seconda parte del brano Paolo ritorna sulla sua situazione attuale: Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. In questo sfogo si sente il rammarico per l’abbandono da parte dei suoi, ma verso di loro Paolo ha parole di perdono. È difficile sapere se si tratta di un ricordo storico o del semplice motivo dell’abbandono dai suoi amici, come era stato per Gesù. La solitudine di Paolo però è riempita dalla vicinanza del Signore: Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Paolo è consapevole che solo con la grazia di Dio ha potuto portare a termine la sua missione. Questo risultato è espresso con l’immagine della lotta vittoriosa dei gladiatori contro i leoni nel circo. Non si tratta però di una vittoria umana, bensì del successo dell’opera di evangelizzazione, che può benissimo coesistere con l’imminente martirio. L’esperienza del conforto che gli viene dal Signore apre infine il cuore alla speranza: “Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen”. La liberazione a cui tende l’Apostolo non è più quella che si attua in questo mondo, ma quella che consiste nell’ingresso nel regno dei cieli, quando l’anima si ricongiunge definitivamente con Dio.
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Mt 16,13-19
In questo brano l’evangelista Matteo riferisce che Gesù, venendo nelle parti di Cesarea di Filippo, chiede ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» La risposta dei discepoli viene espressa con le stesse parole riportate anche nel Vangelo di Marco. Gesù viene così identificato, oltre che con il Battista, opinione condivisa da Erode Antipa, con Elia, atteso come precursore del Messia, oppure con uno degli antichi profeti ritornato in vita. A questi personaggi Matteo aggiunge però anche Geremia, considerato un grande intercessore e difensore d’Israele, forse perché aveva condiviso con il popolo le sofferenze dell’esilio.
Gesù non fa nessun commento a questa risposta, forse perchè non esclude le opinioni della gente, ma è più interessato a conoscere cosa i discepoli pensano di lui. La risposta di Pietro è molto diretta: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Matteo amplia la risposta asserita da Marco aggiungendo il Figlio del Dio vivente, come pure la risposta di Gesù a Pietro si trova solo in Matteo: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli». Gesù così afferma che la conoscenza che Simone ha di lui non proviene da «carne e sangue», cioè dalla sua intelligenza umana, ma da una rivelazione speciale del Padre
Gesù poi prosegue: E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».
All’iniziativa rivelatrice del Padre corrisponde ora quella di Gesù. Egli anzitutto dà a Pietro un nome nuovo. Il termine «Pietro», maschile di pietra, è la traduzione greca dell’aramaico Kephas (roccia), che nel NT è attribuito a Simone e Simone riceve il nome di Pietro perché su di lui, in quanto roccia, Gesù edificherà la sua chiesa (ekklêsia).
Infine Gesù promette a Pietro di dargli le chiavi del regno dei cieli in modo tale che quanto egli legherà sulla terra sarà legato nei cieli e quanto scioglierà sulla terra sarà sciolto nei cieli .
Questo episodio è quanto mai importante perché proprio qui, al centro del vangelo, Gesù viene proclamato pubblicamente come il Messia di Israele e il Figlio di Dio.
**********************
Pensiero di Papa Francesco
"I Padri della Chiesa amavano paragonare i santi Apostoli Pietro e Paolo a due colonne, sulle quali poggia la costruzione visibile della Chiesa. Entrambi hanno suggellato con il proprio sangue la testimonianza resa a Cristo con la predicazione e il servizio alla nascente comunità cristiana. Questa testimonianza è messa in luce dalle Letture bibliche della liturgia odierna, Letture che indicano il motivo per cui la loro fede, confessata e annunciata, è stata poi coronata con la prova suprema del martirio.
Il Libro degli Atti degli Apostoli racconta l’evento della prigionia e della conseguente liberazione di Pietro. Egli sperimentò l’avversione al Vangelo già a Gerusalemme, dove era stato rinchiuso in prigione dal re Erode «col proposito di farlo comparire davanti al popolo». Ma fu salvato in modo miracoloso e così poté portare a termine la sua missione evangelizzatrice, prima nella Terra Santa e poi a Roma, mettendo ogni sua energia al servizio della comunità cristiana.
Anche Paolo ha sperimentato ostilità dalle quali è stato liberato dal Signore. Inviato dal Risorto in molte città presso le popolazioni pagane, egli incontrò forti resistenze sia da parte dei suoi correligionari che da parte delle autorità civili. Scrivendo al discepolo Timoteo, riflette sulla propria vita e sul proprio percorso missionario, come anche sulle persecuzioni subite a causa del Vangelo.
Queste due “liberazioni”, di Pietro e di Paolo, rivelano il cammino comune dei due Apostoli, i quali furono mandati da Gesù ad annunciare il Vangelo in ambienti difficili e in certi casi ostili. Entrambi, con le loro vicende personali ed ecclesiali, dimostrano e dicono a noi, oggi, che il Signore è sempre al nostro fianco, cammina con noi, non ci abbandona mai. Specialmente nel momento della prova, Dio ci tende la mano, viene in nostro aiuto e ci libera dalle minacce dei nemici.
Ma ricordiamoci che il nostro vero nemico è il peccato, e il Maligno che ci spinge ad esso. Quando ci riconciliamo con Dio, specialmente nel Sacramento della Penitenza, ricevendo la grazia del perdono, siamo liberati dai vincoli del male e alleggeriti dal peso dei nostri errori. Così possiamo continuare il nostro percorso di gioiosi annunciatori e testimoni del Vangelo, dimostrando che noi per primi abbiamo ricevuto misericordia.
Alla Vergine Maria, Regina degli Apostoli, rivolgiamo la nostra preghiera, che oggi è soprattutto per la Chiesa che vive a Roma e per questa città, di cui Pietro e Paolo sono i patroni. Essi le ottengano il benessere spirituale e materiale. La bontà e la grazia del Signore sostenga tutto il popolo romano, perché viva in fraternità e concordia, facendo risplendere la fede cristiana, testimoniata con intrepido ardore dai santi Apostoli Pietro e Paolo."
Angelus del 29 giugno 2017
Questa domenica ricordiamo la figura di S. Giovanni Battista. Solo di lui, oltre di Gesù e di Sua Madre Maria, si fa memoria della sua nascita nella liturgia cristiana. Questo conferma il suo legame con Gesù, al punto che non si può pensare l’uno senza pensare all’altro.
La festa è talmente grande che la liturgia dedica al Battista due celebrazione oltre alla messa del giorno anche la messa vespertina nella Vigilia.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, possiamo considerare che Geremia, prima del Battista, ha ricevuto la missione di essere portavoce di Dio presso il popolo d’Israele per guidarlo verso la salvezza.
Nella seconda lettura, nella sua prima lettera l’apostolo Pietro esorta i credenti in Cristo ad esultare di gioia indicibile in attesa di raggiungere la mèta della propria fede: la salvezza delle anime.
Nel Vangelo di Luca, troviamo il racconto dell’annuncio a Zaccaria della nascita straordinaria di un figlio. Per la sua incredulità Zaccaria resterà muto, ma Dio non si ferma di fronte alla incredulità umana, anche se a dubitare è un Suo sacerdote, ma per Sua misericordia, realizzerà ciò che ha promesso.
Nella Messa del giorno, nella prima lettura, il profeta Isaia sembra illustrare nella presentazione della sua chiamata, la figura del Battista, in quanto anch’egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno, per la restaurazione morale e spirituale del popolo d’Israele, nell’attesa del Cristo.
Nella seconda lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, l’Apostolo Paolo, afferma che Giovanni Battista, predicando il battesimo di penitenza preparò i figli di Abramo e tutti i timorati di Dio alla venuta del Salvatore.
Nel Vangelo di Luca, viene raccontata la gioia della nascita di Giovanni Battista, la conferma del nome da parte di suo padre Zaccaria e la sua vita austera in vista della missione.
*********************
Messa vespertina della vigilia 23 maggio
Dal Libro del Profeta Geremia
Nei giorni del re Giosia
mi fu rivolta questa parola del Signore:
Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”.
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.
Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare».
Ger 1,4-10
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T. a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
Questo brano è tratto dal racconto che si trova all’inizio della prima sezione del libro di Geremia e che contiene una serie di oracoli appartenenti alla fase più antica del suo ministero, cioè al tempo del re Giosia, famoso per la sua riforma religiosa. Molti di questi oracoli infatti sono rivolti al regno di Israele, già conquistato dagli assiri nel 722 a.C., e risentono i toni della predicazione di Amos e Osea.
Il racconto è autobiografico è lui stesso il profeta, che ricorda che il Signore gli ha rivolto la Sua parola, senza specificare il tempo e il luogo in cui ciò è avvenuto.
Geremia racconta che il Signore lo ha conosciuto prima di formarlo nel grembo materno, lo ha consacrato prima che uscisse alla luce e lo ha costituito profeta per le genti.
I due verbi “conoscere” e “consacrare” indicano il rapporto specialissimo che il Signore stabilisce con lui. Il fatto che Geremia sia stato conosciuto e consacrato da Dio prima della nascita, anzi addirittura prima del suo concepimento nel seno materno indica la particolarità della sua vocazione.
Di sua iniziativa Dio lo ha scelto e lo ha costituito “profeta delle nazioni”; egli sarà dunque il suo portavoce, inviato non solo a Israele, ma anche alle altre nazioni.
Ciò non vuol dire che Geremia sia stato inviato ad annunziare i messaggi divini anche alle nazioni straniere, ma che egli si è interessato anche di loro, descrivendo il loro ruolo nel piano di Dio e rivolgendo ad esse minacce e promesse. Testimoni di questa missione sono soprattutto gli oracoli da lui composti contro le nazioni (vv. Ger 46-51).
Alla chiamata divina, Geremia oppone come ostacolo il fatto di essere giovane e di non saper parlare: in altre parole la sua giovane età gli impedirebbe la possibilità stessa di prendere la parola in pubblico.
Nell’antichità infatti solo l’anziano aveva diritto di parola e di decisione.
Questa obiezione richiama, anche se con particolari diversi, quella avanzata da Mosè al momento della sua vocazione (vv. Es 4,10); essa sottolinea la totale inadeguatezza del prescelto di fronte al compito che gli viene affidato.
Per tutta risposta Dio lo esorta a non temere e gli promette la Sua assistenza e protezione.
Poi il Signore tocca la bocca di Geremia e dichiara: “Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca…” quanto più lo strumento è inadeguato, tanto più si manifesta la potenza divina che opera in lui!
Infine Dio gli dà potere su Israele e “autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare”.
Il fatto che, per indicare la parte negativa della sua missione, sono usati quattro verbi e due soltanto per quella positiva, mostra già chiaramente che egli è mandato agli israeliti soprattutto per annunziare la sventura che li sovrasta.
La chiamata di Dio per Geremia avviene in un momento estremamente difficile della storia di Israele, per meglio dire del sopravvissuto regno di Giuda. Ormai si sta avvicinando la catastrofe, presto i babilonesi conquisteranno la Giudea, Gerusalemme sarà distrutta e la popolazione deportata. Il compito di Geremia sarà quello di mostrare come questa sventura sia stata provocata dal peccato del popolo, il quale potrà salvarsi in extremis solo sottomettendosi agli invasori. Ma proprio questa direttiva di carattere religioso-politico non sarà gradita dalla classe dirigente di Giuda, perché significa la perdita del suo potere e dei suoi privilegi. Geremia non potrà fare a meno di annunziare terribili sventure a persone che, rifiutando il messaggio divino, faranno di tutto per rendergli difficile la vita. Il suo compito sarà dunque estremamente gravoso e drammatico, in quanto i suoi avversari arriveranno al punto di accusarlo di essere un disertore e di collaborare con i nemici.
Egli verrà quindi colpito in prima persona da prove terribili che preannunzieranno e anticiperanno la tragedia del suo popolo. Si può da qui capire come la vita di Geremia non è stata certo facile.
Geremia fu il profeta del dolore e della misericordia, che preannuncia più di ogni altro la figura di Gesù. Egli fu anche l’esempio di una incorruttibile fedeltà alla propria vocazione, qualunque siano le difficoltà
Salmo 70 Dal grembo di mia madre sei tu il mio sostegno
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.
Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.
Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.
Il salmista vive in un tempo di gravi contrasti nei quali si trova coinvolto per la sua fedeltà a Dio. Probabilmente si è al tempo immediatamente precedente la presa di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Le sofferenze di questo giusto avvengono in patria, per mano di suoi connazionali, che sono ormai ribelli a Dio e guardano ai culti idolatrici introdotti nel tempio (Cf. 2Re 21,4). Questo giusto si adopera per una riforma dei costumi che può vedersi nell’esito felice della riforma di Giosia.
Il salmista per rafforzare la sua fiducia in Dio non evoca le grandi opere di Dio verso la nazione, ma guarda alla sua storia. Egli è stato educato alla fede in Dio fin da quando la madre lo teneva stretto sul grembo: “Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno” E Dio lo ha accompagnato, lo ha istruito con la sua grazia, fin dalla giovinezza: “Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito”. Il salmista trova motivo alla sua fedeltà proprio alla fedeltà di Dio su di lui…
Egli, pur anziano e debole, e in pericolo, si dà forza, con l’aiuto di Dio, di annunciare la giustizia di Dio, la sua fedeltà alle promesse fatte, l’immutabilità della sua parola: “La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare”; “Venuta la vecchiaia e i capelli bianchi, o Dio, non abbandonarmi, fino a che io annunci la tua potenza, a tutte le generazioni le tue imprese".
La giustizia di Dio, dice il salmista, “è alta come il cielo”; cioè non è come quella umana, cedevole, imperfetta, ed esposta ai cedimenti.
Le angosce che Dio ha permesso si abbattessero su di lui sono state veramente grandi poiché dice: “Molte angosce e sventure mi hai fatto vedere: tu mi darai ancora vita, mi farai risalire dagli abissi della terra”. Dagli “abissi della terra”, per dire che la sua situazione è di un finito, di un morto, di cui nessuno più si preoccupa.
Ma la fede in Dio sostiene il salmista e pieno di ferma speranza dice: “Allora io ti renderò grazie al suono dell’arpa, per la tua fedeltà, o mio Dio; a te canterò sulla cetra, o Santo d’Israele”.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, voi amate Gesù Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite.
A loro fu rivelato che, non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.
1Pt 1,8-12
La Prima lettera di Pietro è un testo scritto alla fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma secondo gli esperti è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire a Pietro o al suo ambiente. Non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale, che si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 - 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 - 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 - 5,11).
Nella prima di queste parti vengono affrontati i seguenti temi: la salvezza mediante Cristo (1,6-12); la santità dei credenti (1,13-21); la rigenerazione mediante la parola (1,22 - 2,3); il sacerdozio dei credenti (2,4-10).
Il brano liturgico è ricavato dalla prima di queste parti e tratta dell’Amore e fedeltà nei confronti del Cristo ed inizia con l’esortazione: ”Carissimi, voi amate Gesù Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime”.
Credere senza pretendere di vedere è beatitudine, poiché ciò è frutto di un cuore convertito e colmato dalla fede in Cristo. Ciò è a fondamento della perfetta letizia, che è “indicibile”, cioè che non può essere espressa a parole né con paragoni umani.
“Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata;” La salvezza che già ora opera nei credenti in Cristo è un dono sul quale “indagarono e scrutarono i profeti“ sulla base delle parole loro date da Dio, ma non la poterono vedere attuarsi in essi: solo l’attesero, la desiderarono. Pietro dice che l’Antico Testamento non dava la salvezza che ora opera nei credenti in Cristo. Anche se essi erano nella salvezza per mezzo del futuro donarsi di Cristo fino alla morte di croce, non ne poterono però gustare la sua forza trasformante.
“essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”.
Pietro allude probabilmente alla ricerca sulle settanta settimane del profeta Daniele (Dn 9,24s), ma la cosa viene generalizzata ed esprime la viva attesa degli eventi della salvezza, che presentavano le sofferenze di Cristo (Is 53,4s). Pietro ribadisce che le sofferenze di Gesù morto sulla croce erano state annunciate e che perciò i Giudei sbagliavano quando asserivano che Gesù non poteva essere il Messia perché crocifisso. Ma accanto alle sofferenze di Cristo i profeti avevano annunciato la gloria della risurrezione, la gloria della nuova ed eterna alleanza.
“Lo Spirito di Cristo che era in loro”, non era in loro come lo fu nei discepoli per la Pentecoste, ma era in loro in quanto parte essenziale del loro essere profeti. Pietro dice pure che quello era “Lo Spirito di Cristo”, cioè lo Spirito Santo agiva in virtù di Cristo. Anche le grazie concesse agli uomini prima di Cristo scaturiscono dal sacrificio di Cristo.
“ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo”. Le verità annunciate dai profeti si ritrovano negli evangelizzatori, che agiscono mediante l’azione dello Spirito Santo inviato dal cielo.
“cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.” I credenti in Cristo devono ben rendersi conto di quanto sia grande il dono di essere in Cristo, dal momento che gli angeli “desiderano fissare lo sguardo” sul mistero di Cristo capo della Chiesa e centro del disegno del Padre (v. 1Cor 4,9).
“Fissare lo sguardo” non vuol dire certo che i credenti in Cristo devono indagare per scoprire, ma illuminati dalla potenza dello Spirito Santo gioire nella contemplazione delle grandi opere di Dio.
Dal Vangelo secondo Luca
Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso.
Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».
Lc 1,5-17
L’evangelista Luca presenta il suo vangelo dell’infanzia prima con gli annunzi (1,5-56) e poi con le nascite di Giovanni il Battista e poi di Gesù.
Il primo annunzio inizia riportando che “Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Una coppia, Zaccaria ed Elisabetta, immagine di un popolo che osserva scrupolosamente tutte le leggi del Signore, infatti l’evangelista precisa: “Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”. Per gli ebrei la sterilità era una grave disgrazia, tanto che c’era la possibilità di ripudiare la moglie e di fare figli con le schiave, perchè la discendenza era molto importante.
L’evangelista descrive l’ambiente poco prima dell’intervento del messaggero di Dio che entra nella vita di quella coppia ormai stanca di attendere: Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. E proprio mentre Zaccaria, nella sua veste di sacerdote officiava nel tempio con l’offerta dell’incenso che “Apparve a lui un angelo del Signore”… Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni…
Il brano liturgico termina con la descrizione di come sarà grande questo bambino, ma sappiamo dell’incredulità di Zaccaria, forse lui non attendeva più nulla dalla vita e come reazione dice all’angelo: “Io sono vecchio e mia moglie è avanzata negli anni”. (1,18). L’attesa è stata troppo lacerante da spegnere ogni speranza umana! L’intervento di Dio turba e sorprende, ma non smuove una fede irrigidita e messa molto alla prova. Ma Dio non ha regole, viene quando vuole ed apre nuovi orizzonti, a volte imprevedibili.
La storia della salvezza inizia con l’incredulità del sacerdote: proprio lui, che più degli altri, aveva confidenza con il Mistero, si trova spiazzato. Dio lo raggiunge quando si trova nel luogo più sacro della Santa Dimora, dove pochi avevano il privilegio di entrare. E tuttavia, la mancanza di fede, anche momentanea, gli impedisce di accogliere la Parola dell’angelo. Si trova dentro la casa di Dio ma non è pronto ad entrare nella storia di Dio. Questo fatto deve servire come un ammonimento anche per tutti noi oggi!
L’angelo gli annuncia che Dio non si ferma però alla sua incredulità e, per Sua misericordia, realizzerà ciò che ha promesso. Dobbiamo riconoscere che la storia della salvezza è il frutto dell’ostinata fedeltà di Dio.
Messa del giorno
Dal libro del profeta Isaia
Ascoltatemi, o isole,
udite attentamente, nazioni lontane;
il Signore dal seno materno mi ha chiamato,
fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome.
Ha reso la mia bocca come spada affilata,
mi ha nascosto all’ombra della sua mano,
mi ha reso freccia appuntita,
mi ha riposto nella sua faretra.
Mi ha detto: «Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Io ho risposto: «Invano ho faticato,
per nulla e invano ho consumato le mie forze.
Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore,
la mia ricompensa presso il mio Dio».
Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».
Is 49,1-6
Il libro del Deuteroisaia (probabilmente discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia intorno al 550 a.C. insieme agli altri esiliati) si apre con il lieto annunzio del ritorno degli esuli a Gerusalemme (40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio. Il libro contiene una raccolta di oracoli, alcuni composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1-54,17).
Il brano liturgico riporta l’introduzione del carme, in cui il Servo si rivolge alle isole, alle nazioni lontane, che ora vengono chiamate metaforicamente a dare un giudizio oggettivo su quanto è accaduto.
Anzitutto il Servo presenta la sua vocazione: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome…”. Come Geremia, egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno (Ger 1,5), cioè quando non poteva avere ancora alcun merito che motivasse la sua chiamata, e anche a lui, come ai profeti che lo hanno preceduto, è assegnato il compito di combattere contro i nemici di Dio.
Il Servo ricorda anzitutto a Dio le sue promesse: “Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria”. Nel Servo e mediante la sua opera, Dio vuole manifestare la Sua gloria, cioè il Suo progetto di salvezza. Nella sua risposta, il Servo dice che, pur essendo stato scelto e preparato, è andato incontro a un fallimento: la sua fatica e il suo impegno non hanno portato i frutti sperati. Ciò è dovuto al fatto che il popolo non è preparato ad accettare la proposta di Dio riguardante il ritorno nella terra dei padri. Il Servo non ha colpa di tale insuccesso e il Signore non potrà non riconoscere la sua innocenza e gli conferirà la ricompensa promessa. Il Servo riferisce allora che Dio interviene una seconda volta e prima di riferire il suo messaggio, il Servo lo introduce con queste parole: “Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza”. In questa introduzione il Servo riprende per la seconda volta il tema della sua vocazione, e il suo compito specifico di riportare a Dio il popolo di Israele. Questo compito rappresenta per lui un grande onore e gli garantisce l’assistenza divina. Dopo questa introduzione vengono riportate le parole di Dio: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Nonostante il suo insuccesso, Dio lo ha tanto apprezzato e stimato da ritenere troppo piccolo per lui il compito di radunare Israele e di ricondurlo a lui. Il Signore vuole conferirgli una missione ancora più grande, che riguarda tutta l’umanità. Egli dovrà essere “luce delle nazioni”, cioè far risplendere anche su di loro la rivelazione della Sua gloria e far giungere così la salvezza “fino all’estremità della terra”.
Questa estensione della missione del Servo, non significa certo che egli dovrà svolgere un'attività missionaria presso i pagani, ma piuttosto che, dopo il suo momentaneo fallimento, porterà a termine la sua opera con tale successo da suscitare lo stupore e l'ammirazione anche delle altre nazioni, coinvolgendole nella salvezza offerta prima a Israele (45,14-25).
Salmo 138/139 - Io ti rendo grazie: hai fatto di me una meraviglia stupenda.
Signore, tu mi scruti e mi conosci
Tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo.
Intendi da lontano i miei pensieri,
Osservi il mio cmamino e il mio riposo,
Ti sono note tutte le mie vie
Sei tu che hai formato i miei reni
E mi hai tessuto nel grembo di mia madre
Io ti rendo grazie:
Hai fatto di me una meraviglia stupenda.
Meravigliose sono le tue opere,
Le riconosce pienamente l’anima mia.
Non ti erano nascoste le mie ossa
Quando venivo formato nel segreto,
Ricamato nelle profondità della terra.
La tradizione vuole che questo salmo sia stato scritto da Davide. Alcuni aramaismi, invece, indicherebbero che il salmo sia stato scritto nel tardo postesilio, ma non con conclusione certa.
Il salmista sa di essere alla presenza di Dio e sa che a lui nulla sfugge: “Tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo...”. Egli sa che Dio coglie il suo pensiero prima che trovi espressione vocale: “Intendi da lontano i miei pensieri”; “La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta”. Dio circonda l'uomo con la sua presenza, e su di lui esercita la sua sovranità: “Poni su di me la tua mano”. Il salmista vede questo non come un'oppressione, ma come l'esercizio di un disegno ricolmo di saggezza che non sa comprendere, cioè esaurire nella sua ricchezza infinita: “Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile"; “Quanto profondi per me i tuoi pensieri...”.
Se egli volesse allontanarsi dallo “spirito” di Dio, sottrarsi alla conoscenza di Dio e alla sua sovranità non potrebbe. Il tema del fuggire dalla presenza di Dio non è soltanto un espediente per dire l'onnipresenza e onniscienza di Dio, ma è connesso al peccato, alla volontà di fare senza Dio. Adamo si nascose dalla presenza di Dio (Gn 3,8).
Il salmista attinge all'immaginazione: “Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti”. Egli immagina di volare con la velocità del chiarore dell'aurora e di giungere all'estremità del mare per abitarci. Egli in tal modo dovrebbe far perdere le sue tracce allo sguardo di Dio, ma sarebbe solo un'illusione: “anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra”; Dio sarebbe sua guida anche là, pur afferrandolo, cioè pur esercitando la sua sovranità. Si deve notare che Dio non solamente afferra, perché sarebbe solo un punire, ma anche guida con la sua mano, cioè orienta nuovamente l'uomo verso di lui e lo guida nel cammino della salvezza.
Il peccatore vorrebbe non avere limiti, essere come Dio. Vorrebbe salire in cielo; scendere nelle profondità degli inferi; raggiungere un punto e l'altro della terra con la velocità del chiarore dell'aurora. Ma anche se potesse far ciò non si potrebbe sottrarre a Dio.
Può solo restare sulla terra, e allora vorrebbe che Dio non lo scrutasse, che le tenebre gli impedissero di vederlo, ma continua a vederlo: “"Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte"; nemmeno le tenebre per te sono tenebre...”.
Il salmista, terminata la sequenza dei tentativi immaginari del sottrarsi dalla presenza di Dio, passa a vedersi come creatura di Dio: “Sei tu che hai formato i miei reni...”. Egli loda Dio che l'ha fatto come “una meraviglia stupenda”; con capacità di conoscere, di dominare le cose, di costruire, di inventare, di ordinare, di amare, di cantare, di comunicare il suo pensiero mediante la parola, di creare mediante l'arte, di procreare. Il salmista però non sosta sulle sue opere, ma su quelle grandi di Dio: "le riconosce pienamente l'anima mia". Il salmista è stupito del disegno di Dio sull'uomo, tanto alto che sorpassa le sue capacità di intendere: “Quanto profondi per me i tuoi pensieri...”. “erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati". Dio conosce da sempre tutto ciò che l'uomo liberamente farà nei suoi giorni, e conosce anche quanti saranno i suoi giorni.
Il salmista passa a guardare la terra compromessa dalla presenza dei peccatori, che odiano Dio: “Parlano contro di te con inganno, contro di te si alzano invano”, e pronuncia il desiderio della loro distruzione: “Se tu, Dio, uccidessi i malvagi!”
La parte finale del salmo non fa parte della recitazione cristiana. Dio colpirà i peccatori nel giudizio particolare, al termine della vita di ciascuno, e universale alla fine del mondo, ma ora lascia che il grano cresca con l'erba cattiva.
Cristo, via, verità e vita, è il disegno del Padre sull'uomo.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dagli Atti degli Apostoli
In quei giorni, (nella sinagoga di Antiòchia di Pisidia) Paolo diceva: Dio suscitò per i nostri padri Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”.
Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele. Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”.
Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza.
At 13,22-26
Questo brano tratto dalla terza parte degli Atti, riporta parte dell'annuncio che Paolo fece di Cristo nel suo primo viaggio missionario insieme a Barnaba, mentre si trovava nella sinagoga di Antiochia di Pisidia, una zona dell'attuale Turchia.
Rivolgendosi ai Giudei nella sinagoga, Paolo, come Stefano, ricorda la storia d’Israele, ripercorrendo le varie tappe fino ad arrivare a presentare Gesù come il compimento delle promesse di Dio. In questa ripresa della storia della salvezza un ruolo importante è riconosciuto a Giovanni Battista, e mostra come Dio ha compiuto in Gesù le promesse fatte a Davide.
“Dio suscitò per i nostri padri Davide come re, al quale rese questa testimonianza: “Ho trovato Davide, figlio di Iesse, uomo secondo il mio cuore; egli adempirà tutti i miei voleri”.
Paolo sottolinea il fatto che Davide era gradito a Dio, a differenza di Saul. Si cita qui il Salmo 89,21 e 1Sam 13,14, il passo in cui Samuele annuncia a Saul che non era stato fedele a Dio e che quindi Dio avrebbe scelto un altro re (Davide appunto) al suo posto.
“Dalla discendenza di lui, secondo la promessa, Dio inviò, come salvatore per Israele, Gesù. Giovanni aveva preparato la sua venuta predicando un battesimo di conversione a tutto il popolo d’Israele.”
Qui Giovanni viene ricordato però in modo sintetico, ripetendo di fatto ciò che di lui si dice nei quattro vangeli. Egli aveva preparato la venuta di Cristo (come aveva predetto il profeta Malachia 3,1-2), attraverso un battesimo di conversione, proposto al solo popolo di Israele.
Si può notare che Paolo nelle sue lettere non parla mai di Giovanni Battista, questo perchè lui si rivolgeva per lo più a cristiani provenienti dal paganesimo, per i quali Giovanni Battista non aveva molta importanza.
“Diceva Giovanni sul finire della sua missione: “Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali”.
Qui viene riportato ciò che affermava Giovanni alla fine della propria missione, a quanti pensavano fosse lui il Messia, di non essere colui che loro supponevano e precisava che dopo di lui sarebbe venuto uno al quale lui (Giovanni) non era degno di slacciare i sandali.
Giovanni afferma in modo deciso la superiorità assoluta del Messia: egli ne è solo il testimone e di fronte a Lui si sente meno di uno schiavo. Giovanni non rivendica nulla per se stesso e dichiara di essere solo "una voce che grida" al servizio del Messia. Il Precursore è stato soltanto un dito puntato verso il Messia, lo ha indicato presente e poi si è ritirato.
“Fratelli, figli della stirpe di Abramo, e quanti fra voi siete timorati di Dio, a noi è stata mandata la parola di questa salvezza”
Con i versetti finali del brano, Paolo si rivolge direttamente al suo pubblico perché sta per parlare direttamente di Gesù e della sua azione. I suoi uditori sono i figli della stirpe di Abramo, cioè gli ebrei, coloro che attendevano la realizzazione della promessa, e anche coloro che erano timorati di Dio, i simpatizzanti del giudaismo, quanti si interrogavano profondamente sull'esistenza di Dio. Per tutti loro è stata mandata questa parola, una parola che salva, che guarisce!
Dal Vangelo secondo Luca
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome».
Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose.
Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.
Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
Lc 1, 57-66.80
L’evangelista Luca presenta nel suo vangelo dell’infanzia prima gli annunzi (1,5-56) e poi le nascite, prima di Giovanni il Battista e poi di Gesù.
In questo brano liturgico viene ricordata in modo molto sintetico la nascita di Giovanni.
“Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei”.
Anche per il parto di Rebecca (Gen 25,24) si usa la stessa formula “si compì il tempo del parto”. Il parto viene appena accennato per aggiungere subito dopo che in questa nascita tutti hanno riconosciuto una manifestazione straordinaria della misericordia di Dio e per sottolineare la gioia che essa ha provocato nei vicini e nei parenti, esattamente come l’angelo aveva preannunciato a Zaccaria (1,14).
“Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria.” Nel giorno fissato dalla Legge, l’ottavo dopo la nascita (Lv 12,3) parenti e amici vennero da Zaccaria per la circoncisione del bambino che, secondo l’evangelista, comportava anche l’imposizione del nome. Anche se per gli israeliti di solito il nome si assegnava al momento della nascita, Luca ha fatto coincidere circoncisione ed imposizione del nome, ma ha anche semplificato le cose dicendo che gli amici “volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria”.
Elisabetta invece interviene ed esige che sia dato al bambino il nome “Giovanni”, cosa che desta la meraviglia di molti. Normalmente dare il nome spettava al padre e solo qualche volta alla madre; spesso era assegnato il nome del nonno, raramente quello del padre. Il nome “Giovanni” dato da Elisabetta era quindi non adatto, oltre che inaspettato, come appare dalla reazione di alcuni dei presenti, i quali commentano: “Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome”.
Dato che Zaccaria era rimasto sordomuto, i presenti gli “domandavano con cenni come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome»”.
Così il padre e la madre concordano perfettamente sul nome da dare al bambino. Stando al racconto, non appare che Elisabetta e Giovanni abbiano potuto mettersi d’accordo prima. Per Luca il nome di Giovanni è di origine divina e tutto avviene sotto il segno della Provvidenza.
L’atto di fede e di obbedienza fatto da Zaccaria imponendo il none al proprio figlio ha unna rispondenza dall’alto perchè “All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio.
Il racconto termina con una reazione di timore da parte dei presenti, che “furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose” e alla fine commentano” «Che sarà mai questo bambino?».
Il brano liturgico non riporta i versetti del Benedictus, il salmo profetico di Zaccaria, che ripieno anch’egli di Spirito santo come Elisabetta, rende grazie a Dio
Luca conclude il racconto con una espressione tipica della crescita: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.”
Qui troviamo l’eco di alcune espressioni prese dai racconti dell’infanzia di Isacco e di Ismaele (Gn 21,8.20), di Sansone (Gdc 13,24-25) e di Samuele (1Sam 2,21-26; 3,19).
Parlando della presenza di Giovanni “in regioni deserte”, Luca preannuncia direttamente l’attività del Battista, per lui tutto è compimento dell’antica profezia, tutto è annunzio e preparazione dell’avvenire, Luca è l’uomo della storia e soprattutto dei tempi della salvezza!
Possiamo riconoscere che il racconto è tutto un inno alla fedeltà del Signore. La nascita di Giovanni viene accolta da tutti come un segno della Sua misericordia per Israele. Il nome stesso di Giovanni viene presentato come un nome inatteso, la cui scelta avviene per un’ispirazione divina. Il nome infatti significa “JHWH fa grazia” e indica in sintesi la grazia di Dio che, dopo essersi rivelata nell’Antico Testamento, giunge ora a compimento con la nascita del precursore.
***************
"Oggi, 24 giugno, celebriamo la solennità della Nascita di San Giovanni Battista. Se si eccettua la Vergine Maria, il Battista è l’unico santo di cui la liturgia festeggia la nascita, e lo fa perché essa è strettamente connessa al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Fin dal grembo materno, infatti, Giovanni è precursore di Gesù: il suo prodigioso concepimento è annunciato dall’Angelo a Maria come segno che «nulla è impossibile a Dio», sei mesi prima del grande prodigio che ci dà salvezza, l’unione di Dio con l’uomo per opera dello Spirito Santo. I quattro Vangeli danno grande risalto alla figura di Giovanni il Battista, quale profeta che conclude l’Antico Testamento e inaugura il Nuovo, indicando in Gesù di Nazaret il Messia, il Consacrato del Signore. In effetti, sarà lo stesso Gesù a parlare di Giovanni in questi termini: «Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, / davanti a te egli preparerà la via. In verità io vi dico: fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11,10-11).
Il padre di Giovanni, Zaccaria – marito di Elisabetta, parente di Maria –, era sacerdote del culto dell’Antico Testamento. Egli non credette subito all’annuncio di una paternità ormai insperata, e per questo rimase muto fino al giorno della circoncisione del bambino, al quale lui e la moglie dettero il nome indicato da Dio, cioè Giovanni, che significa «il Signore fa grazia».
Animato dallo Spirito Santo, Zaccaria così parlò della missione del figlio: «E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo / perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, / per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza / nella remissione dei suoi peccati»
Tutto questo si manifestò trent’anni dopo, quando Giovanni si mise a battezzare nel fiume Giordano, chiamando la gente a prepararsi, con quel gesto di penitenza, all’imminente venuta del Messia, che Dio gli aveva rivelato durante la sua permanenza nel deserto della Giudea. Per questo egli venne chiamato «Battista», cioè «Battezzatore» (cfr Mt 3,1-6). Quando un giorno, da Nazaret, venne Gesù stesso a farsi battezzare, Giovanni dapprima rifiutò, ma poi acconsentì, e vide lo Spirito Santo posarsi su Gesù e udì la voce del Padre celeste che lo proclamava suo Figlio (cfr Mt 3,13-17). Ma la missione del Battista non era ancora compiuta: poco tempo dopo, gli fu chiesto di precedere Gesù anche nella morte violenta: Giovanni fu decapitato nel carcere del re Erode, e così rese piena testimonianza all’Agnello di Dio, che per primo aveva riconosciuto e indicato pubblicamente.
Cari amici, la Vergine Maria aiutò l’anziana parente Elisabetta a portare a termine la gravidanza di Giovanni. Ella aiuti tutti a seguire Gesù, il Cristo, il Figlio di Dio, che il Battista annunciò con grande umiltà e ardore profetico."
Benedetto XVI Parte dell’Angelus del 24 giugno 2012
O Madonnina cara che sei apparsa a La Salette,
grazie per averci riunito nella celebrazione della S. Messa proprio il 19, data solenne a Te dedicata,
volgi il Tuo sguardo benigno su noi, sulla parrocchia e sul mondo intero perché possa ritornare da Te e dal Tuo Figlio,
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)