Le letture liturgiche di questa domenica convergono su di uno dei nostri bisogni più profondi: una vita sicura.
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, vediamo che dopo la liberazione dall’Egitto, gli Israeliti, durante il loro lungo peregrinare nel deserto, scoraggiati e delusi gridano contro Mosè rimpiangendo la vita da schiavi che facevano, perchè almeno avevano da mangiare. Dio fornisce loro il cibo dal cielo “la manna” facendo così sentire la Sua presenza efficace, ma nello stesso tempo li invita a non fare assegnamento soltanto sui nutrimenti terreni, che, come la manna, ad un certo punto stancano e diventano insipidi.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo li esorta ad un comportamento ispirato alla novità ricevuta nel battesimo e che non deve risentire dell’”uomo vecchio”, corrotto e invischiato nel peccato.
Nel Vangelo di Giovanni, Gesù riferendosi all’episodio biblico della “manna” nel deserto, annuncia che il Padre sta ora offrendo all’umanità affamata “il pane vero”, l’unico che veramente discende dal cielo e dà la vita al mondo.
Cristo offre all’uomo il “pane di vita” e l’acqua che cancella ogni sete. Contro la tentazione del cibo e della bevanda, che simboleggiano certe ideologie appariscenti, ma che non saziano le coscienze, contro certe forme religiose consolatorie o esotiche che stordiscono ma non guariscono, contro il godimento che offusca la mente e il cuore, questo brano del vangelo di oggi ci propone una forte e decisa esperienza del Cristo, della Sua persona e della Sua Parola.
Dal libro dell’Esodo:
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».
Allora il Signore disse a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge.
Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così:
“Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».
La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mosè disse loro: «È il pane che il Signore vi ha dato in cibo».
Es 16,2-4,12-15
Il Libro dell'Esodo è il secondo libro del Pentateuco (Torah ebraica), è stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli e nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai. Il libro si apre con la descrizione dello stato di schiavitù del popolo ebreo in Egitto e giunge con il suo racconto sino al patto di Dio con il popolo e alla promulgazione della legge divina, e si conclude con lunghe sezioni legali. Gli studiosi collocano questi avvenimenti tra il 15^ e il 13^ secolo a.C.
Questo brano riporta il malcontento e l’insofferenza degli Israeliti. Il loro brontolare è privo di fede e fine a se stesso, stanno perdendo di vista l'obiettivo del cammino - la terra promessa - perché ora tutto ciò che interessa loro è il cibo, infatti rimpiangono persino la loro condizione di schiavi in Egitto e si lamentano dicendo: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece …”. Di fronte a una simile situazione, Dio dice a Mosè: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge.” Dio esaudisce dunque le necessità del popolo (perchè la fame può fare sragionare) con un intervento speciale, un fenomeno in cui essi vedranno un segno della presenza di Dio destinato a rassicurarli, e che per bocca di Mosè dice al popolo: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”.
Il popolo aveva sfidato Dio e Dio risponde manifestando la Sua potenza, con il dono di quell’alimento speciale, che è anche un insegnamento che impartisce al Suo popolo per educarlo mettendolo alla prova.
Dando a Israele questo mezzo di sostentamento, Dio esprime la Sua presenza efficace, e nello stesso tempo invita l’uomo, di ogni tempo e di ogni luogo, a non fare assegnamento soltanto sui nutrimenti terreni, che come la manna, ad un certo punto stancano e diventano insipidi.
C’è un altro cibo misterioso che viene dal cielo di cui la manna è simbolo: La Parola di Dio (Dt 8,25).
Gesù nel deserto ricorderà questo avvenimento quando risponderà al diavolo: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”.(Mt 4,4) e rinnova questo insegnamento nutrendo il popolo di Dio, con il “pane vero”, l’unico che veramente “discende dal cielo e dà la vita al mondo”.
Salmo 77 Donaci, Signore, il pane del cielo.
Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato
non lo terremo nascosto ai nostri figli,
raccontando alla generazione futura
le azioni gloriose e potenti del Signore
e le meraviglie che egli ha compiuto.
Diede ordine alle nubi dall’alto
e aprì le porte del cielo;
fece piovere su di loro la manna per cibo
e diede loro pane del cielo.
L’uomo mangiò il pane dei forti;
diede loro cibo in abbondanza.
Li fece entrare nei confini del suo santuario,
questo monte che la sua destra si è acquistato.
Questo non è usato dall’Ufficio Divino perché il suo contenuto lo si ritrova nei salmi 104 e 105. Il salmo, che ha una sua identità, venne scritto come affermazione rivolta ai Samaritani che Dio aveva scelto la tribù di Giuda e il monte Sion a sede del suo santuario, e aveva dato la regalità a Davide su tutto Israele.
Il salmo assolve l’obbligo di narrare “alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che ha compiuto”, ma con un tono penitenziale facendo risaltare il continuo peccare di Israele e in particolare le responsabilità della tribù di Efraim, dalla quale vennero poi i Samaritani. La datazione del salmo risale con tutta probabilità al tempo della riforma di Giosia, che tentò di liberare la Samaria dal suo stato di scissione con Giuda (2Re 23,15-19).
Il salmo denuncia che la tribù di Efraim, nel cui territorio sorse il santuario di Silo, prima sistemazione della tenda del deserto con l’arca dell’alleanza, non partecipò alla lotta contro l’avanzata dei Filistei, forse delusa nelle aspettative di una egemonia sulle altre tribù, già accennata al tempo di Giosuè e dei Giudici (Gs 3,37; 4,5; 7,24; 8,1), cosicché ebbe l’umiliazione di veder distrutto il santuario di Silo per mano dei Filistei.
“Tanis” è una città del basso Egitto. Al tempo dell’esilio serviva da residenza del Faraone. La “regione di Tanis" indica il distretto di cui Zoan era la capitale.
“Diede ordine alle nubi dall’alto e aprì le porte del cielo”, si tratta della pioggia per la poca vegetazione del deserto alimento del bestiame, e per alimentare le sorgenti delle oasi.
“Il pane del cielo" è la manna; è detta “pane dei forti” perché data per sostenere nel cammino e non per essere valutata sulla base delle voglie del palato (Cf. Nm 21,5).
Per tutto il resto si veda il libro dell’Esodo e dei Numeri.
Commento di P. Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.
Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità.
Ef 4,17.20-24
Paolo, proseguendo la sua lettera agli Efesini, continua ad esortarli a comportarsi in maniera degna della vocazione ricevuta. Il loro comportamento, ora che hanno abbracciato la fede, non può più essere quello di prima, di quando erano pagani.
Il brano inizia con parole solenni e accorate: Fratelli, vi dico e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri.
Paolo chiede di abbandonare la condotta dei pagani, i quali si perdono nella venerazione delle realtà naturali. Nei versetti non presenti nel brano tratteggia la condotta morale dei pagani “accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità
Poi prosegue “Voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù”,
Gli Efesini non hanno conosciuto il loro Dio attraverso la sfrenatezza dei costumi e l'immoralità. Gesù si impara, si ascolta, in Lui si è istruiti, conoscere Cristo è vivere, Lui è la verità che ti cambia la vita.
“ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli,”
Questa conoscenza è un concreto programma di vita, che ti porta ad abbandonare l'uomo vecchio, l'uomo pagano che segue i piaceri e le passioni. Passioni ingannevoli perché non portano a una vera felicità.
“a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.
Gesù Cristo è l'"uomo nuovo" che non cambia mai, Egli è la "stella polare", è anche l'ancora a cui aggrapparsi nei momenti difficili, è il faro che illumina nella notte oscura.
Quando ci affidiamo a Gesù, la vita riprende con gioia e solo con Lui possiamo fare l'esperienza di diventare creature nuove.
Quando nella nostra vita, nelle dure prove che abbiamo incontrato, alla fine ci siamo abbandonati completamente al Cristo risorto, ci siamo sentiti veramente in pace con Lui, con noi stessi e con tutti gli altri.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Gv 6, 24-35
Questo brano, tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, inizia riportando che la folla, che aveva assistito al miracolo della moltiplicazione dei pani, si era accorta che solo i discepoli erano partiti con la barca, e al mattino si erano resi conto che anche Gesù non si trovava più in quel luogo e lo cercano a Cafarnao. Quando incontrandolo, gli manifestano la loro sorpresa, in quanto non lo avevano visto allontanarsi con i suoi discepoli. Gesù non risponde alla loro domanda, ma invece osserva: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.”
Come era capitato con la samaritana a proposito dell’acqua, essi lo hanno frainteso e cercano unicamente un vantaggio materiale. Egli perciò aggiunge: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Con queste parole li esorta a procurarsi un altro tipo di cibo, che diversamente da quello materiale che perisce, dura per la vita eterna; si tratta di un cibo che solo il Figlio dell’uomo può dare, perché in lui il Padre ha messo il suo sigillo, cioè ha stabilito con lui un rapporto unico e indivisibile, facendo di lui il suo rappresentante.
I presenti allora gli chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.Abituati al compimento delle opere prescritte dalla legge, essi interpretano le parole di Gesù come un invito a compiere qualche altra opera a loro ancora sconosciuta. Al che Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Ancora una volta Gesù deve correggere un malinteso dovuto sicuramente per avere usato la parola “opera” di (voluta da) Dio. Non è che essi debbono compiere qualcosa di particolare, ma che credano in colui che Egli ha mandato. In realtà, infatti, il cibo che dura per la vita eterna non si ottiene operando, ma credendo in colui che lo dona, il Figlio dell’uomo che Dio stesso ha inviato. La fede richiesta da Gesù non consiste nell’accettazione di qualche nuova concezione religiosa, ma nel lasciarsi coinvolgere pienamente nella Sua persona e nel progetto di salvezza da Llui manifestato.
L’invito a credere in Lui suscita nei giudei una nuova richiesta: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai”.
La richiesta di un’opera straordinaria che dia loro una garanzia della Sua autorevolezza come inviato di Dio si trova nello stesso racconto anche in Mc 8,11-12. Evidentemente la moltiplicazione dei pani, appena compiuta da Gesù, non viene considerata come un segno adeguato, forse perché aveva preceduto il Suo invito a credere in lui.
Questo brano, tratto dal capitolo sesto del Vangelo di Giovanni, inizia riportando che la folla, che aveva assistito al miracolo della moltiplicazione dei pani, si era accorta che solo i discepoli erano partiti con la barca, e al mattino si erano resi conto che anche Gesù non si trovava più in quel luogo e lo cercano a Cafarnao. Quando incontrandolo, gli manifestano la loro sorpresa, in quanto non lo avevano visto allontanarsi con i suoi discepoli. Gesù non risponde alla loro domanda, ma invece osserva: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati.”
Come era capitato con la samaritana a proposito dell’acqua, essi lo hanno frainteso e cercano unicamente un vantaggio materiale. Egli perciò aggiunge: “Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo”. Con queste parole li esorta a procurarsi un altro tipo di cibo, che diversamente da quello materiale che perisce, dura per la vita eterna; si tratta di un cibo che solo il Figlio dell’uomo può dare, perché in lui il Padre ha messo il suo sigillo, cioè ha stabilito con lui un rapporto unico e indivisibile, facendo di lui il suo rappresentante.
I presenti allora gli chiedono: “Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?”.Abituati al compimento delle opere prescritte dalla legge, essi interpretano le parole di Gesù come un invito a compiere qualche altra opera a loro ancora sconosciuta. Al che Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato”. Ancora una volta Gesù deve correggere un malinteso dovuto sicuramente per avere usato la parola “opera” di (voluta da) Dio. Non è che essi debbono compiere qualcosa di particolare, ma che credano in colui che Egli ha mandato. In realtà, infatti, il cibo che dura per la vita eterna non si ottiene operando, ma credendo in colui che lo dona, il Figlio dell’uomo che Dio stesso ha inviato. La fede richiesta da Gesù non consiste nell’accettazione di qualche nuova concezione religiosa, ma nel lasciarsi coinvolgere pienamente nella Sua persona e nel progetto di salvezza da Lui manifestato.
L’invito a credere in Lui suscita nei giudei una nuova richiesta: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai”.
La richiesta di un’opera straordinaria che dia loro una garanzia della Sua autorevolezza come inviato di Dio si trova nello stesso racconto anche in Mc 8,11-12. Evidentemente la moltiplicazione dei pani, appena compiuta da Gesù, non viene considerata come un segno adeguato, forse perché aveva preceduto il Suo invito a credere in lui.
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"In questa domenica continua la lettura del capitolo sesto del Vangelo di Giovanni.
Dopo la moltiplicazione dei pani, la gente si era messa a cercare Gesù e finalmente lo trova presso Cafarnao. Egli comprende bene il motivo di tanto entusiasmo nel seguirlo e lo rivela con chiarezza: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati». (In realtà, quelle persone lo seguono per il pane materiale che il giorno precedente aveva placato la loro fame, quando Gesù aveva fatto la moltiplicazione dei pani; non hanno compreso che quel pane, spezzato per tanti, per molti, era l’espressione dell’amore di Gesù stesso. Hanno dato più valore a quel pane che al suo donatore. Davanti a questa cecità spirituale, Gesù evidenzia la necessità di andare oltre il dono, e scoprire, conoscere il donatore. Dio stesso è il dono e anche il donatore. E così da quel pane, da quel gesto, la gente può trovare Colui che lo dà, che è Dio. Invita ad aprirsi ad una prospettiva che non è soltanto quella delle preoccupazioni quotidiane del mangiare, del vestire, del successo, della carriera. Gesù parla di un altro cibo, parla di un cibo che non è corruttibile e che è bene cercare e accogliere. Egli esorta: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna che il Figlio dell’uomo vi darà”. Cioè cercate la salvezza, l’incontro con Dio.
E con queste parole, ci vuol far capire che, oltre alla fame fisica l’uomo porta in sé un’altra fame – tutti noi abbiamo questa fame – una fame più importante, che non può essere saziata con un cibo ordinario. Si tratta di fame di vita, di fame di eternità che Lui solo può appagare, in quanto è “il pane della vita”.
Gesù non elimina la preoccupazione e la ricerca del cibo quotidiano, no, non elimina la preoccupazione di tutto ciò che può rendere la vita più progredita. Ma Gesù ci ricorda che il vero significato del nostro esistere terreno sta alla fine, nell’eternità, sta nell’incontro con Lui, che è dono e donatore, e ci ricorda anche che la storia umana con le sue sofferenze e le sue gioie deve essere vista in un orizzonte di eternità, cioè in quell’orizzonte dell’incontro definitivo con Lui. E questo incontro illumina tutti i giorni della nostra vita. Se noi pensiamo a questo incontro, a questo grande dono, i piccoli doni della vita, anche le sofferenze, le preoccupazioni saranno illuminate dalla speranza di questo incontro. «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà sete, mai!»
E questo è il riferimento all’Eucaristia, il dono più grande che sazia l’anima e il corpo. Incontrare e accogliere in noi Gesù, “pane di vita”, dà significato e speranza al cammino spesso tortuoso della vita. Ma questo “pane di vita” ci è dato con un compito, cioè perché possiamo a nostra volta saziare la fame spirituale e materiale dei fratelli, annunciando il Vangelo ovunque. Con la testimonianza del nostro atteggiamento fraterno e solidale verso il prossimo, rendiamo presente Cristo e il suo amore in mezzo agli uomini.
La Vergine Santa ci sostenga nella ricerca e nella sequela del suo Figlio Gesù, il pane vero, il pane vivo che non si corrompe e dura per la vita eterna."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 agosto 2015
Le letture liturgiche di questa domenica hanno come filo conduttore il pane, il cibo necessario per vivere, e vediamo come Dio sazia la fame di ogni uomo.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, leggiamo che un uomo offre ad Eliseo, il profeta discepolo e successore di Elia, le primizie, quindi qualcosa che era destinato a Dio. Questo dono frutto del lavoro dell’uomo, ma anche della benedizione divina, si moltiplica e ce n’è a sazietà per tutti. E’ il simbolo dell’abbondanza dei banchetti messianici preannunciata dai profeti: la venuta del Messia avrebbe sfamato tutti gli uomini.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo li esorta a comportarsi in maniera degna della loro vocazione, e afferma che l’unità della Chiesa si realizza con il concorso attivo di tutti i credenti. Ognuno ha ricevuto dal Signore un dono di grazia per far crescere il corpo di Cristo nella carità.
Nel Vangelo di Giovanni, che per qualche settimana, prende il posto del Vangelo di Marco, colpisce il particolare che fu il poco cibo (cinque pani e due pesci) di un ragazzo prudente a diventare il cibo per la folla. La generosità di questo ragazzo permette al Signore di agire per tutti. Cristo è il protagonista, ma chiede sempre la nostra collaborazione. Il segno dei pani divisi fra tutti, realizza l’antica profezia, ma diventa a sua volta simbolo di un banchetto speciale: quello in cui il Signore si offre a noi nel segno del pane spezzato. Egli sazierà la fame di vita e di eternità che abbiamo in noi donandoci non solo un cibo materiale, ma il pane della vita eterna.
Dal secondo libro dei Re
In quei giorni, da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente». Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?». Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”». Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
2Re 4,42-44
Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, che operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche.
Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
In questo brano, tratto dal IV capitolo, dove vengono riportati alcuni miracoli del profeta Eliseo, leggiamo che nella regione di Galgala, non lontana dall'attuale Tel Aviv, è in atto una grave carestia. Un giorno “da Baal-Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia”. Eliseo ben cosciente della penosa situazione, non pensa di godere egoisticamente di quell'abbondanza, e ordina al suo servitore "Dallo da mangiare alla gente". In forza della ragione, e anche del buon senso, il servitore avanza dei dubbi: “Come posso mettere questo davanti a cento persone?”. Un pane d'orzo era infatti la razione solo per una persona e venti pani non potevano certo bastare per cento persone!
Eliseo quando replica per la seconda volta lo stesso comando lo accompagna dalla motivazione che spinge ad alzare lo sguardo dalla logica umana a quella divina: “Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare””.
La frequentazione del profeta con i progetti di Dio e con la Sua onnipotenza, gli dà l’incrollabile sicurezza che i problemi umani sono sempre risolvibili. "Nulla è impossibile a Dio" risuona più volte nella Sacra Scrittura e l'uomo di Dio vive di questa affermazione e la traduce in vita per sé e per gli altri.
Di fatto le cento persone “mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore. “
La parola decisiva e più importante è concentrata nell’ultima espressione "secondo la parola del Signore“ ma era essenziale che a questa Parola qualcuno ci credesse, che lo dicesse e convincesse anche gli altri. Allora è stato il compito di Eliseo ed è oggi deve essere il nostro compito, nel luogo in cui viviamo!
Salmo 144 - Apri la tua mano, Signore, e sazia ogni vivente.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.
Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa
e tu dai loro il cibo a tempo opportuno.
Tu apri la tua mano
e sazi il desiderio di ogni vivente.
Giusto è il Signore in tutte le sue vie
e buono in tutte le sue opere.
Il Signore è vicino a chiunque lo invoca,
a quanti lo invocano con sincerità.
Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano nella composizione di questo salmo, che tuttavia risulta bellissimo nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C.
Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re: “O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo.
Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia". Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Ef 4,1-6
Con questo brano ha inizio la seconda parte della lettera agli Efesini, che Paolo dedica all'esortazione. Dopo aver scritto della centralità del sacrificio di Cristo e della sua efficacia a riunire tutti i popoli in una sola Chiesa, si rivolge ai suoi destinatari ricordando loro di dare una testimonianza credibile della loro fede.
“Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto” Con queste parole Paolo esordisce ricordando la sua condizione di prigioniero a causa del Vangelo. E’ un particolare che lui ha sicuramente inserito anche per scuotere i suoi interlocutori, in più egli afferma il motivo: prigioniero proprio a causa del Vangelo che ha annunciato. Chiede con questo tono accorato agli Efesini di comportarsi in modo degno della loro nuova dignità. Essi fanno parte di un nuovo corpo, di una nuova realtà che vive di pace e riconciliazione.
“con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore”
Nella comunità cristiana essi devono nutrire la vita comune con alcune virtù fondamentali: l'umiltà, la dolcezza, la grandezza d'animo, che hanno il loro culmine nell'amore fraterno (agape)¸ che si esprime nel perdono e nella solidarietà verso gli altri.
“avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.” Questa seconda esortazione è un motivo portante, un elemento fondamentale all'interno della comunità: l'impegno a mantenere l'unità, a vivere la pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questi versetti suonano un po' come un inno, una professione di fede che forse si ripeteva nelle prime assemblee liturgiche. L'accento è posto sull'unità della comunità che si fonda su altre unità: quelle del corpo e dello Spirito che lo mantiene unito, quella della speranza, cioè del futuro a cui tutti tendono, fondata sull'unica chiamata che ha interessato tutti. Ancora questa unità si costruisce attorno all'unico Signore, a cui si aderisce con una sola fede e a cui si accede grazie all'unico battesimo. E' questa la parte più liturgica del piccolo inno. Infine si giunge all'unico Dio e Padre, da cui è partito il progetto di salvezza e che continua ad operare in tutti il suo piano di amore.
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Nel giorno conclusivo della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, (il 25 gennaio 2015) papa Francesco, proprio nella Basilica dedicata al grande Apostolo, ha lanciato il suo appello per la fine di ogni divisione nel popolo di Dio. Tra l’altro ha detto: È nel “cuore di Gesù Cristo” che “si incontrano la sete umana e quella divina e il desiderio dell’unità dei suoi discepoli appartiene a questa sete”, come si può riscontrare “nella preghiera elevata al Padre prima della Passione: «Perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21)”.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Gv 6, 1-15
Il Vangelo di Marco, che ci ha accompagnato finora durante le liturgie domenicali ora si interrompe per lasciare lo spazio al sesto capitolo del Vangelo di Giovanni. La ragione di tale inserzione è per approfondire il tema del "pane" a cui è giunta la narrazione di Marco.
Il brano inizia con un’indicazione riguardante gli spostamenti di Gesù: Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. In questa traversata i discepoli non sono menzionati, mentre per i sinottici Gesù si era recato con loro in un luogo solitario perché avessero un po’ di riposo (v. Mc 6,31). Sono invece menzionate le folle, di cui si dice che lo seguivano perché avevano visto i segni che faceva sugli infermi: si tratta quindi di un interesse egoistico, su cui Gesù ritornerà all’inizio del discorso successivo. L’evangelista aggiunge poi che egli, giunto a destinazione, salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
L’allusione alla pasqua si trova solo in Giovanni, sebbene ad essa alludano Marco e Matteo quando parlano dell’erba verde su cui Gesù fa sedere la folla. Il racconto prosegue in modo conciso: Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Giovanni vuole concentrare l’attenzione non sulla predicazione di Gesù e sui suoi miracoli, ma sul segno che Gesù sta per fare. È Gesù stesso che prende l’iniziativa di sfamare la folla, senza aspettare, come nei sinottici, che i discepoli gli chiedano di congedarla e mette alla prova Filippo ponendogli quella domanda, mentre egli sapeva già quello che stava per fare.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Alla risposta desolata di Filippo si aggiunge la proposta di Andrea, che interviene dicendo: C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Andrea dà questa informazione non perchè pensa di risolvere qualcosa ma solo per far presente che si tratta di una cosa da nulla, vista l’entità della folla. Risulta chiaro così che, umanamente parlando, non si può far nulla per sfamare i presenti.
Gesù allora fa sedere la folla, e l’evangelista, annota che vi era molta erba in quel luogo, e aggiunge che i presenti erano circa cinquemila uomini, numero citato anche dai sinottici.
L’esistenza di molta erba, ricordata anche da Marco e Matteo, si ricollega all’imminenza della pasqua, che cade nel periodo primaverile; in questo accenno si può riconoscere un riferimento a Dio, pastore di Israele, che conduce il suo gregge all’erba verdeggiante (V. Sal 23,2; Ez 34,14; Mc 6,34).
Stranamente l’intervento di Andrea offre una base alla soluzione infatti: Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
A differenza dei Vangeli sinottici, ove sono incaricati i discepoli, qui è Gesù stesso che prende i pani e li distribuisce. Senza dubbio l'evangelista vuole sottolineare il rapporto diretto, personale e immediato, che c'è tra il pastore e le sue pecore. Un altro particolare colpisce: Gesù non agisce dal nulla, lo poteva fare, ma non l’ha fatto. Ha avuto bisogno di quei cinque pani e due pesci (il contributo umano di un ragazzo prudente) per operare il miracolo.
Quando tutti sono sazi, Gesù disse ai suoi discepoli: “Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto”. Con i pezzi avanzati, si riempirono dodici ceste, segno di grande abbondanza (V. 2Re 4,42-44).
Al termine del pasto i presenti, avendo visto il segno compiuto da Gesù, riconoscono in lui il profeta escatologico e vanno a prenderlo per proclamarlo re, ma egli si ritira da solo sulla montagna
In questa breve nota si nota la differenza tra l’attesa giudaica del profeta escatologico (V. Dt 18,15-18) e quella del re-messia (v. 2Sam 7). Non ci si deve dunque meravigliare che, dopo averlo riconosciuto come profeta, la folla voglia incoronarlo come re-messia. L’attesa messianica, pur essendo di origine religiosa, aveva per la gente anche un forte significato politica: per questo motivo la proclamazione regale di Gesù avrebbe fatto automaticamente di lui il capo della lotta anti-romana. Gesù invece spiegherà a Pilato che egli è veramente re, ma la sua regalità non consiste nell’esercizio del potere politico, bensì nel rendere testimonianza alla verità (v. Gv 18,37).
La cornice cronologica del miracolo evoca anche, come abbiamo visto, la Pasqua vicina, il pane è citato ben cinque volte, e i gesti di Gesù ricordano quelli dell'’ultima cena “prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti”.
L’evangelista vuole sicuramente farci capire che la celebrazione comunitaria non sarà solo un “ricordo” della morte e risurrezione di Gesù, ma metterà i discepoli, anche dopo la Sua scomparsa, direttamente a contatto con la persona viva del Maestro.
Si può dire ancora per concludere che il gesto di Gesù è anche segno di un’altra fame saziata, Cristo, in veste di pastore-profeta messianico, imbandisce con pienezza quella mensa che sazierà definitivamente la fame interiore dell’uomo, la sua antica e mai conclusa ricerca di Dio.
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“Il Vangelo di questa domenica presenta il grande segno della moltiplicazione dei pani, nella narrazione dell’evangelista Giovanni.
Gesù si trova sulla riva del lago di Galilea, ed è circondato da «una grande folla», attirata dai «segni che compiva sugli infermi». In Lui agisce la potenza misericordiosa di Dio, che guarisce da ogni male del corpo e dello spirito. Ma Gesù non è solo guaritore, è anche maestro: infatti sale sul monte e si siede, nel tipico atteggiamento del maestro quando insegna: sale su quella “cattedra” naturale creata dal suo Padre celeste.
A questo punto Gesù, che sa bene quello che sta per fare, mette alla prova i suoi discepoli. Che fare per sfamare tutta quella gente? Filippo, uno dei Dodici, fa un rapido calcolo: organizzando una colletta, si potranno raccogliere al massimo duecento denari per comperare del pane, che tuttavia non basterebbe per sfamare cinquemila persone.
I discepoli ragionano in termini di “mercato”, ma Gesù alla logica del comprare sostituisce quell’altra logica, la logica del dare.
Ed ecco che Andrea, un altro degli Apostoli, fratello di Simon Pietro, presenta un ragazzo che mette a disposizione tutto ciò che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla.
Ma Gesù aspettava proprio questo. Ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prese quei pani e quei pesci, rese grazie al Padre e li distribuì
Questi gesti anticipano quelli dell’Ultima Cena, che danno al pane di Gesù il suo significato più vero. Il pane di Dio è Gesù stesso. Facendo la Comunione con Lui, riceviamo la sua vita in noi e diventiamo figli del Padre celeste e fratelli tra di noi. Facendo la comunione ci incontriamo con Gesù realmente vivo e risorto! Partecipare all’Eucaristia significa entrare nella logica di Gesù, la logica della gratuità, della condivisione. E per quanto siamo poveri, tutti possiamo donare qualcosa. “Fare la Comunione” significa anche attingere da Cristo la grazia che ci rende capaci di condividere con gli altri ciò che siamo e ciò che abbiamo.
La folla è colpita dal prodigio della moltiplicazione dei pani; ma il dono che Gesù offre è pienezza di vita per l’uomo affamato. Gesù sazia non solo la fame materiale, ma quella più profonda, la fame di senso della vita, la fame di Dio.
Di fronte alla sofferenza, alla solitudine, alla povertà e alle difficoltà di tanta gente, che cosa possiamo fare noi? Lamentarsi non risolve niente, ma possiamo offrire quel poco che abbiamo, come il ragazzo del Vangelo.
Abbiamo certamente qualche ora di tempo, qualche talento, qualche competenza... Chi di noi non ha i suoi “cinque pani e due pesci”? Tutti ne abbiamo! Se siamo disposti a metterli nelle mani del Signore, basteranno perché nel mondo ci sia un po’ più di amore, di pace, di giustizia e soprattutto di gioia. Quanta è necessaria la gioia nel mondo! Dio è capace di moltiplicare i nostri piccoli gesti di solidarietà e renderci partecipi del suo dono.
La nostra preghiera sostenga il comune impegno perché non manchi mai a nessuno il Pane del cielo che dona la vita eterna e il necessario per una vita dignitosa, e si affermi la logica della condivisione e dell’amore. La Vergine Maria ci accompagni con la sua materna intercessione.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 26 luglio 2015
La liturgia di questa domenica ci illumina per conoscere meglio il cuore di Gesù, il cuore di Dio, la Sua umanità.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Geremia, il profeta denuncia apertamente i pastori malvagi che, sordi all’insegnamento del Signore, invece di curarsi delle pecore loro affidate le hanno disperse e scacciate. Il Signore, tramite il suo profeta annunzia che manderà un pastore che radunerà quel gregge disperso, lo raccoglierà in una terra sicura, e lo guiderà con giustizia e amore.
Nella seconda lettura, nella sua lettera agli Efesini, Paolo, contemplando il mistero della Croce di Gesù Cristo, annuncia che tutti i popoli possono unirsi e diventare così un solo popolo riconciliato con Dio.
Nel Vangelo, Marco ci dice che Gesù mentre si prende cura degli apostoli per formarli secondo il suo cuore, non trascura la folla, anzi si commuove perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Dal Libro del profeta Geremia
«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo del Signore.
Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore. Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore.
Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –
nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto,
che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra.
Nei suoi giorni Giuda sarà salvato
e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome:
Signore-nostra-giustizia».
Ger 23,1-6
Nel libro del profeta Geremia troviamo raccontata in modo autobiografico la sua vita. Sappiamo così che la sua chiamata avvenne intorno al 626 a.C. quando ancora era un ragazzo e desiderava sposarsi con la sua Giuditta, ma Dio stesso glielo proibisce, ed è per questo che è stato l’unico profeta celibe dell’A.T a differenza di tutti gli altri. Aveva un carattere mite e, all'inizio della sua missione, in cui era giovane inesperto, dovette affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene però accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico.
In questo brano, tratto dal capitolo degli oracoli messianici, Geremia pronuncia parole durissime nei confronti dei pastori del suo tempo: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere.”
A distanza di 26 secoli, possiamo sentire quanto mai attuali queste parole. Se infatti la domenica entriamo nelle nostre chiese, vedendole spesso sempre più vuote, soprattutto di famiglie e di giovani, non possiamo non renderci conto del crescente disinteresse delle persone, non tanto nei confronti del fatto religioso che pure gode di una certa attrazione, quanto piuttosto nei confronti della Chiesa, intesa come Istituzione ecclesiale, considerata lontana non soltanto dal pensare comune, ma anche e soprattutto dalla vita reale e faticosa delle persone. In questo disinteresse (che non è, come si sente spesso affermare, causata solo dal processo di secolarizzazione in atto) c’è spesso, come sempre, un fondo di verità, che il Signore peraltro aveva previsto quando per bocca di Geremia aveva detto: Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno… Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. ”
Queste parole dopo tanti secoli sono ancora rivolte a noi, ad ognuno di noi. Ma possiamo anche in coscienza riconoscere che non tutti i nostri pastori sono così. Quanti pastori, attraversano nel nascondimento nella povertà, nell’umiltà, la dura fatica dell’esistere, in compagnia dei poveri, degli emarginati dalla società e dalla Chiesa, sempre disposti ad accogliere, a perdonare, a fare comunione con loro, pastori che hanno assorbito con il tempo l’odore delle proprie pecore, come dice Papa Francesco, che vanno alla ricerca delle 99 pecore che si sono smarrite, e non restano nell’ovile a coccolare l’ultima pecora che non si è allontanata.
Salmo 22 - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille.
L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti.
La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui.
La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. Quella casa, giuridicamente, è della Diocesi, della Curia, ma è innanzi tutto del Signore, e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Ef 2,13-18
Paolo continuando la lettera agli Efesini, dopo l’inno iniziale di lode, dedicato all'importanza di Cristo nella storia della salvezza, in questo brano dopo aver descritto, nei versetti precedenti con toni forti la situazione disperata in cui si trovavano i fedeli prima dell'unificazione attuata dalla morte liberatrice di Gesù, afferma: ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Questo avvicinamento si chiama Gesù Cristo. Nella Sua morte, nel Suo sangue, si attua questa alleanza nuova che fonde ebrei e pagani in una sola salvezza.
Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne.”
Dio infatti per mezzo della croce di Cristo, ha annullato ogni inimicizia e divisione tra gli uomini, ha unito gli esclusi dall’alleanza e dalle promesse – i pagani convertiti – con i Giudei convertiti e ne ha fatto un popolo nuovo, la Chiesa.
Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace.
Il muro divisorio si può identificare nella Legge, in particolare nei 613 precetti della Torah, che regolavano i rapporti con gli altri e con il mondo estraneo dei pagani e faceva del popolo ebraico una specie di apartheid religiosa e sociale. In conclusionea questo non produceva altro che discriminazione e ostilità tra ebrei e i pagani.
e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. In senso positivo il sacrificio di Cristo, unisce due mondi, crea un nuovo organismo vitale, la comunità cristiana. Questo avviene grazie al loro inserimento vitale in Cristo, nella sua carne.
Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini..
C'è un vangelo, un annuncio di pace che quindi raggiunge i lontani, cioè i pagani, e i vicini, cioè gli ebrei. E' una realtà che porta ai beni salvifici, di cui la riconciliazione, l'unità, l'incontro con Dio sono gli effetti più sensibili.
“Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito”
In questo versetto è espressa la meta finale dell'opera pacificatrice di Gesù: l'incontro di tutti gli uomini con il Padre in un solo Spirito. Abbattute le barriere religiose e sociali che separavano gli ebrei dai pagani, nella persona di Gesù si apre la nuova via per accedere a Dio. Gesù è il nuovo tempio dove gli uomini senza discriminazioni possono incontrare Dio.
Accogliere questo messaggio anche oggi significa annullare ogni sentimento di razzismo e di lotta di classe e riconoscere che la riconciliazione con Dio passa attraverso la riconciliazione con tutti gli uomini, di ogni razza di ogni cultura.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare. Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Mc 6,30-34
Nel brano di domenica scorsa era iniziato il tema dell’espandersi dell’annunzio del regno di Dio, mediante l’opera dei dodici discepoli. Questa parte termina con il ritorno dei Dodici, riportata in questo brano. Tra l’invio dei discepoli e il loro ritorno, Marco ha inserito il racconto della morte del Battista, l’ultimo dei profeti inviati da Dio al Suo popolo, che simboleggia il destino di Gesù, profeta anch’egli rifiutato dal suo popolo.
Il brano inizia riferendo che “gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato.”
E’ da notare che per la prima volta Marco usa per i discepoli l’appellativo di “apostoli”. Attribuendo questo appellativo ai Dodici, Marco intende forse presentarli come modello dei futuri predicatori cristiani. Nell’espressione “avevano fatto e insegnato” emerge l’orientamento dell’evangelista, per il quale le opere hanno un primato rispetto alle parole.
Gesù allora invita i discepoli a recarsi con Lui “in un luogo deserto” e di riposarsi un po’”, perché la folla era talmente numerosa da impedire loro persino di mangiare. Questi dati servono da collegamento con il seguito del racconto, caratterizzato dalle due moltiplicazioni dei pani.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Il viaggio di Gesù con i suoi discepoli si svolge sulla riva occidentale del lago. Non è stata perciò una traversata vera e propria. Ciò è confermato dal fatto che molti, intuendo quale fosse il luogo verso cui erano diretti, vi si recano a piedi e giungono prima di loro. L’espressione “luogo deserto”, indica simbolicamente la liberazione e l’alleanza, in quanto evoca il deserto che Israele ha percorso al momento dell’esodo e del ritorno dall’esilio.
Al Suo arrivo nel luogo prescelto, Gesù vi trova una grande folla e ne ha compassione perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Questa folla proviene dai villaggi della Galilea e quindi è presumibilmente composta di giudei. Il verbo “avere compassione” (che è l ’equivalente dei vocaboli ebraici (specialmente rahamîm, riham e rahûm) con cui si indica la misericordia di Dio verso Israele, la sua elezione e il perdono dei suoi peccati (V. Es 34,6-7) usato per Gesù sta ad indicare che Lui agisce quindi come l’inviato di Dio che raduna Israele, Suo popolo e lo chiama alla salvezza escatologica. Il fatto che Gesù “si mise a insegnare” richiama il tema dell’alleanza e della legge, designata in ebraico con il termine Torah, che significa propriamente “istruzione, insegnamento”: mediante il Suo inviato DIO manifesta a Israele la Sua volontà.
In questo brano colpisce molto la compassione di Gesù che non può sottrarsi né restare indifferente di fronte a questo popolo sfruttato dai politici, disprezzato dagli intellettuali, ignorato dai sacerdoti. Sa benissimo che, ancor prima di pane per sfamarsi e di guarigioni, quella gente ha bisogno di una voce che li conforti, di una parola che li faccia sperare, di una persona che li ami!
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"Il Vangelo di oggi ci dice che gli Apostoli, dopo l’esperienza della missione, sono tornati contenti ma anche stanchi. E Gesù, pieno di comprensione, vuole dare loro un po’ di sollievo; e allora li porta in disparte, in un luogo appartato perché possano riposare un po’ .. «Molti però li videro partire e capirono… e li precedettero». E a questo punto l’evangelista ci offre un’immagine di Gesù di singolare intensità, “fotografando”, per così dire, i suoi occhi e cogliendo i sentimenti del suo cuore, e dice così l’evangelista: «Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose».
Riprendiamo i tre verbi di questo suggestivo fotogramma: vedere, avere compassione, insegnare. Li possiamo chiamare i verbi del Pastore. Vedere avere compassione, insegnare. Il primo e il secondo, vedere e avere compassione, sono sempre associati nell’atteggiamento di Gesù: infatti il suo sguardo non è lo sguardo di un sociologo o di un fotoreporter, perché egli guarda sempre con “gli occhi del cuore”. Questi due verbi, vedere e avere compassione, configurano Gesù come Buon Pastore. Anche la sua compassione, non è solamente un sentimento umano, ma è la commozione del Messia in cui si è fatta carne la tenerezza di Dio. E da questa compassione nasce il desiderio di Gesù di nutrire la folla con il pane della sua Parola, cioè di insegnare la Parola di Dio alla gente. Gesù vede, Gesù ha compassione, Gesù ci insegna. E’ bello questo!"
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 19 luglio 2015
La liturgia di questa domenica ci ricorda che la Chiesa peregrinante è per sua natura missionaria ed ogni credente ha il dovere di diffondere la fede esaltando soprattutto la radice profonda, quella che affonda nel mistero stesso di Dio. Un antico proverbio rabbinico diceva: “l’inviato è come se fosse colui che lo invia”.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Amos, ci presenta il profeta che oppone un netto rifiuto all’imposizione del sacerdote di Betel di abbandonare la terra d’Israele, dove è stato mandato per predicare. Egli svolgerà la sua missione, anche se la sua parola potrà dispiacere a quelli che governano.
Nella seconda lettura, scrivendo ai cristiani di Efeso, Paolo inizia la sua lettera con una solenne benedizione e andando alla ricerca della sorgente di ogni vocazione cristiana la ritrova in un atto d’amore di Dio. Nel silenzio dell’essere, all’interno dell’infinito e dell’eterno di Dio, risuona quella voce suprema che crea e “predestina”, cioè definisce in anticipo il grande destino di gloria a cui è chiamato ogni uomo. Ogni uomo infatti è chiamato da Dio per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.
Nel Vangelo, l’evangelista Marco ci parla degli apostoli inviati dal Signore Gesù ad annunciare la buona notizia della salvezza. Essi non vanno di propria iniziativa, e saranno ora accolti, ora contestati, ma sono fiduciosi che non mancherà loro la protezione del Signore.
Dal libro del profeta Amos
In quei giorni, Amasìa, [sacerdote di Betel,] disse ad Amos: «Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno». Amos rispose ad Amasìa e disse:
«Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
Il Signore mi prese,
mi chiamò mentre seguivo il gregge. Il Signore mi disse:
Va’, profetizza al mio popolo Israele».
Am 7,12-15
Il profeta Amos vissuto nel VII secolo a. C., è il primo profeta la cui predicazione è stata riportata in un libro. Originario di Tekoa, una cittadina vicino Betlemme, il profeta Amos, benché fosse del Sud, esercitò il ministero profetico nel territorio del Nord dove, al suo tempo, dilagava l’idolatria e l’ingiustizia sociale. Lui stesso si presenta così: “Io non sono profeta, né figlio di profeta; sono un mandriano e coltivo i sicomori” (7:14), e così descrive la sua chiamata: “Il Signore mi prese mentre ero dietro al gregge e mi disse: ‘Va', profetizza al mio popolo, a Israele’” (7:15).
Amos denunciò il culto formale ed esteriore: I santuari erano sì frequentati e i riti erano eseguiti alla perfezione, ma non vi era un’autentica esperienza di Dio. Cercare il Signore, affermava il profeta, equivale a cercare la persona umana e a prendersene cura.
La predicazione del profeta Amos riprendeva i temi del Deuteronomio, soprattutto quelli che proponevano una società equa, che non ammetteva sfruttamento e oppressione. La situazione sociale che Amos descriveva è desolante. La rottura dell’alleanza di Dio con il popolo avvenuta sul Sinai, che garantiva a tutti gli israeliti uguale dignità, provocava una catena di situazioni sociali peccaminose.
Amos predicava il diritto e la giustizia che consistono nei rapporti sociali fondati sulla misericordia che genera la solidarietà e la promozione dell’altro.
La profezia di Amos può essere ricondotta intorno a quattro verbi fondamentali, intorno ai quali si sviluppa il suo messaggio:
Dire: il Signore parla; ascoltare: il popolo deve ascoltare;
vedere: il profeta vede la situazione nella sua realtà di peccato;
ricostruire e piantare: il Signore dopo il castigo per il peccato farà ritornare gli esuli, le città saranno ricostruite e la terra sarà piantata e coltivata.
Questo brano narra l’incontro tra Amasìa, sacerdote del santuario reale di Betel e Amos, proveniente da un paese straniero. Amasìa si rivolge ad Amos con modi duri: “Vattene, veggente, ritìrati nella terra di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno”.
La replica di Amos, a questo freddo e interessato burocrate del culto, è tagliente: egli è consapevole che alla radice della sua vocazione profetica non c’è una sua scelta personale, né un gusto particolare, né un interesse di carriera, né di guadagno, ma la sorpresa di Dio, l’efficacia della Sua voce che chiama. Dio può chiamare chiunque, anche il meno adatto umanamente, lo ha sempre fatto e lo farà, e chi sceglie non può fare a meno di obbedire. Ricordiamo l’accorato lamento di Geremia: Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso. Ger 20,7
Salmo 84 Mostraci, Signore, la tua misericordia.
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:
egli annuncia la pace
per il suo popolo, per i suoi fedeli.
Sì, la sua salvezza è vicina a chi lo teme,
perché la sua gloria abiti la nostra terra.
Amore e verità s’incontreranno,
giustizia e pace si baceranno.
Verità germoglierà dalla terra
e giustizia si affaccerà dal cielo.
Certo, il Signore donerà il suo bene
e la nostra terra darà il suo frutto;
giustizia camminerà davanti a lui:
i suoi passi tracceranno il cammino.
Il salmista ricorda come Dio ha ricondotto "hai ristabilito la sorte di Giacobbe" da Babilonia. I peccati commessi Dio li ha perdonati, mettendo fine alla sua grande ira.
Questa memoria del perdono di Dio alimenta nel salmista la fiducia che Dio perdonerà le mancanze del popolo, che, ritornato nella Giudea, dimostra tiepidezza nei confronti di Dio e per questo incontra sofferenze (Cf. Ag 1,7).
Il salmista, fortificato dal ricordo della misericordia di Dio, innalza quindi la sua supplica: ”Ritorna a noi, Dio nostra salvezza, e placa il tuo sdegno verso di noi".
Il salmista passa a considerare le profezie, ad ascoltare “cosa dice Dio”, e conclude che Dio presenta un futuro di pace “per chi ritorna a lui con fiducia”. Egli guarda ai tempi messianici, e può dire che “la sua gloria abiti la nostra terra” (Is 60,1s); e che “amore e verità s'incontreranno, giustizia e pace si baceranno”. “Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo”, quando verrà il Messia. La sua presenza farà si che “la nostra terra darà il suo frutto”, cioè il frutto di santità per il quale Israele è stato creato. Davanti al “bene” che Dio elargirà, cioè il Messia, “giustizia camminerà davanti a lui: i suoi passi tracceranno il cammino”.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo agli Efesini
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo.
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità,
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo,
secondo il disegno d’amore della sua volontà,
a lode dello splendore della sua grazia,
di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
In lui, mediante il suo sangue,
abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe,
secondo la ricchezza della sua grazia.
Egli l’ha riversata in abbondanza su di noi
con ogni sapienza e intelligenza,
facendoci conoscere il mistero della sua volontà,
secondo la benevolenza che in lui si era proposto
per il governo della pienezza dei tempi:
ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose,
quelle nei cieli e quelle sulla terra.
In lui siamo stati fatti anche eredi,
predestinati – secondo il progetto di colui
che tutto opera secondo la sua volontà –
a essere lode della sua gloria,
noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità,
il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto,
avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo
che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità,
in attesa della completa redenzione
di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria.
Ef 1,3-14
La Lettera agli Efesini è una delle lettere che la tradizione cristiana attribuisce a S.Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62. Gli studiosi moderni però sono divisi su questa attribuzione e la maggioranza ritiene più probabile che la lettera sia stata composta da un altro autore appartenente alla scuola paolina, forse basandosi sulla lettera ai Colossesi, ma in questo caso la datazione della composizione può oscillare, tra l'anno 80 e il 100. La lettera agli Efesini si può dire che è la” lettera della Chiesa” del suo mistero e vita, tanto che anche il Concilio Vaticano II se ne è ampiamente ispirato.
Questo brano, conosciuto anche come Inno cristologico, sotto forma di preghiera e di inno, offre una sintesi dottrinale di tutta la lettera.
Nel primo versetto di introduzione “Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo” riassume tutto ciò che Dio Padre ha fatto per noi mediante Cristo e che si realizza nello spirito.
“In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Viene qui descritta la nostra nuova situazione: Dio ci ha prescelti e predestinati fin dall’eternità ad essere Suoi figli per la santità e per l’amore (vv. Rm 8,29; Gv 1,12)
Nella seconda parte “In lui, mediante il suo sangue, abbiamo la redenzione, il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia….” viene presentata la genesi della nostra identità di figli, spiegando i nostri privilegi cristiani: quelli della redenzione, della conoscenza “facendoci conoscere il mistero della sua volontà, secondo la benevolenza che in lui si era proposto per il governo della pienezza dei tempi:ricondurre al Cristo, unico capo, tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra”
e dell’eredità “In lui siamo stati fatti anche eredi, predestinati – secondo il progetto di colui che tutto opera secondo la sua volontà – a essere lode della sua gloria, noi, che già prima abbiamo sperato nel Cristo.
L’inno si conclude con la dichiarazione: “In lui anche voi, dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria” Questi privilegi perciò sono di tutti, giudei e pagani ( “noi e voi” ) avendo tutti ricevuto, quale pegno dell’eredità, il dono dello Spirito.
L’uomo è dunque chiamato per nome e destinato ad entrare nella comunione divina fino a diventare membro di una famiglia celeste, quella dei figli adottivi di Dio e dei fratelli di Cristo.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri.
E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Mc 6,7-13
Il capitolo del Vangelo di Marco, da dove è preso questo brano, apre con la visita di Gesù a Nazareth e tratta il tema dell’espandersi dell’annunzio del regno di Dio, mediante l’opera dei dodici discepoli, nella Galilea e, in prospettiva, al di fuori di Israele, in tutto il mondo.
Dopo essersi meravigliato per l'incredulità dei suoi compaesani, come abbiamo visto nella scorsa domenica, Gesù non si ferma, ma allarga l'orizzonte del suo insegnamento ai villaggi circostanti. Abbiamo notato che Marco dice che Gesù insegna senza precisare il contenuto dell'insegnamento: forse ciò che vuole far capire è che Gesù stesso, la sua persona, è l'insegnamento.
Il brano inizia dicendo che “Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri”. I discepoli non possono andare da soli, devono andare due a due, perché due persone rappresentano la comunità meglio di una sola e si possono aiutare a vicenda. Ricevono potere sugli spiriti immondi, cioè devono essere di sollievo agli altri nella sofferenza e, attraverso la purificazione, devono aprire le porte di accesso diretto a Dio.
Le raccomandazioni che Gesù dà sono semplici: “E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
Poi aggiunge: Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Il brano termina riferendo che essi partirono.
La missione a cui Gesù invia i suoi discepoli conosce innanzitutto la donazione totale, le mani non devono essere impacciate da borse e denaro; la grandezza della figura dell’apostolo non si misura su programmi ufficiali e su vari abiti da cambiare; il viaggio non è una solenne e raffinata missione diplomatica. Gesù mette anche in conto il rifiuto, con porte che si chiudono, con orecchi che ignorano, con labbra che deridono.
Questo brano ci ricorda che alla radice della nostra storia di credenti e di testimoni c’è un atto di Dio. E’ Dio stesso che rompe il silenzio del Suo mistero con la Sua parola e la Sua azione.
Suggestive sono alcune espressioni dell’apostolo Paolo in alcuni suoi scritti quando dice che si sente “conquistato da Gesù Cristo” (Fil 3,12) e in Galati afferma come elemento fondamentale è “essere conosciuti dal Cristo” prima ancora di “conoscerlo” (4,9)
La vocazione è quindi un lasciarsi afferrare, cercare e trovare da Dio che passa per le strade delle nostre città e delle nostre campagne e bussa alle porte delle nostre case. Sta a noi aprire la nostra porta quando riconosciamo la sua voce per permettergli di venire da noi, cenare con noi e noi con Lui
(Ap 3,20)
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"I dodici, sebbene in totale dipendenza da Cristo, da Lui sono designati, accanto a Lui sono stati plasmati e preparati; da Lui sono stati inviati; da Lui hanno ricevuto il potere sugli spiriti immondi; il Suo modo di fare si riflette sul loro; da Lui è stabilito il loro equipaggiamento, povero ed essenziale, affinché si manifesti unicamente la ricchezza ricevuta da Lui e che devono comunicare agli altri; da Lui è proposto il comportamento disinteressato e libero, non soggetto ai condizionamenti dell’alloggio, ma pronto e disponibile all’annuncio.
Uniti saldamente a Cristo, non possono distaccarsene. Per questo, finito il loro compito, torneranno a Lui, per raccontare ciò che hanno fatto e proclamato.
Vi è come un filo conduttore che descrive tutto il percorso missionario dal suo inizio, al suo svolgimento, alla sua fine. Quel filo è costituito da Gesù, propriamente dalla Sua persona e dalla Sua Parola. Gli apostoli non se ne possono allontanare, ne sono coinvolti e travolti totalmente; in Lui, da Lui, per Lui, con Lui vivono, si muovono, annunciano, operano. Niente di più incisivo per rivelare che la fonte, il centro, il culmine, la finalità dell’evangelizzazione si assommano in Cristo. Al di fuori della Sua persona, della Sua Parola, del Suo potere, non può sussistere alcuno spazio, o alcun senso valido per i dodici che intendono portare la salvezza concreta là dove gli uomini esistono e soffrono."
Commento tratto da: Marco I-Interrogativi e sorprese su Gesù” di Renzo Lavatori e Luciano Sole
PREMESSA
Con lo scorso numero della rivista abbiamo finito di “riflettere” sulle Opere di Misericordia Corporali ma, obbedendo all’invito fatto da Papa Francesco che, nel chiudere l’anno della Misericordia, esorta a non smettere di pensare alle opere della Carità, continuiamo le nostre semplici riflessioni considerando le Opere di Misericordia Spirituali. Esse si riferiscono alle “necessità” che colpiscono ed interessano l’anima e lo spirito. Sappiamo però che questa suddivisione è una forzatura che risale al medio evo, in quanto ogni atto di carità si ripercuote sulla totalità della persona che lo riceve. Mentre nel Vangelo sono ben elencate le Opere Corporali, sulle quali saremo giudicati, le Opere Spirituali sono “sparse” e si evidenziano volta per volta osservando le parole ed il comportamento di Gesù. Un’altra differenza fra le due Opere è che, per esempio, chi “dà da mangiare” di solito non è affamato e chi “alloggia il pellegrino” evidentemente ha una casa e così via. Quelle Spirituali, invece, sono “ambivalenti”: chi le esercita può essere consigliere ma può anche essere dubbioso ed avere bisogno di essere consigliato; può essere insegnante ma può avere bisogno di essere istruito; può consolare ma anche avere bisogno di essere consolato ecc.
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)