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S.Messe (settimana)
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KRZYZ

Elena Tasso

Elena Tasso

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a farci comprendere che Dio è essenzialmente libero nel concedere i Suoi doni, Egli agisce al di fuori dei nostri schemi mentali (altrimenti non sarebbe Dio) e delle strutture consacrate, concedendo i suoi doni a chi vuole e come vuole.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, Giosuè va da Mosè per informarlo che due uomini, che non appartengono alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele, si sono messi a profetizzare, pervasi dallo spirito di Dio. Ma Mosè, nel commentare “Fossero tutti profeti nel popolo del Signore…” riconosce l’importanza della docilità allo Spirito di Dio, che soffia dove vuole, come vuole e su chi vuole…”
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo avverte con fermezza i ricchi che dovranno subire il giudizio di Dio, in special modo se i beni sono ottenuti dallo sfruttamento dei lavoratori.
Nel Vangelo di Marco, Gesù replica a Giovanni, che gli riferiva che qualcuno a suo nome scacciava i demoni, di non impedirglielo… perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi. Ciò vuol dire che tutti coloro che non scelgono il male, ma si consacrano al bene e alla promozione umana e spirituale dell’uomo, qualunque sia la loro sigla o la loro bandiera, sono già al fianco di Cristo. Gesù dà poi una serie di istruzioni sulla fedeltà del discepolo, pronto a tagliare via tutto ciò che può impedirgli di essere un vero cristiano. Ci sono espressioni volutamente forti, proprio per indicare la decisione unica per Cristo, davanti al quale tutto perde di importanza.
L’autentico apostolo deve provare sentimenti di gioia per il bene che è seminato in ogni uomo, in ogni cultura e razza, perchè è convinto del valore del pluralismo e del dialogo. La tentazione settaria che vuole monopolizzare Dio, in un gruppo è anche una degenerazione della fede, anche se si illude di conservarne la purezza.

Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito. Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Nm 11,25-29

Il libro dei Numeri, il quarto libro della Bibbia, è stato scritto in ebraico e, secondo molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. La tradizione ebraica e varie confessioni religiose cristiane, ritengono persino che sarebbe stato scritto da Mosè in persona, ma la maggioranza degli esegeti moderni ritiene che tutto il Pentateuco sia in realtà una raccolta, formatasi in epoca post-esilica, di vari scritti di epoche diverse. “Numeri” è il titolo che l'antica traduzione greca ha dato a questo libro perchè contiene elenchi e censimenti degli Israeliti in cammino verso la "Terra promessa". È composto da 36 capitoli descriventi la storia degli Ebrei durante il loro soggiorno nel deserto del Sinai (circa 1200 a.C.). Infatti molti eventi del Libro avvengono nel deserto, principalmente tra il secondo ed il quarantesimo anno del vagabondare degli Israeliti. I primi 25 capitoli riportano le esperienze della prima generazione d’Israele nel deserto, mentre il resto del libro descrive le esperienze della seconda generazione.
Il brano inizia narrando che Dio ancora una volta parla a Mosè e “tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.” Lo spirito qui è visto come un’azione più o meno permanente di Dio sul soggetto scelto; un’azione che trasforma l’uomo in profeta, anche se in tempo limitato. Lo spirito che è su Mosè passa sui settanta; essi dunque partecipano del dono di Mosè, ma in grado subordinato perchè non lo fecero più in seguito. Il testo prosegue precisando: “Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad. E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda. Si misero a profetizzare nell’accampamento.”
I due uomini che non erano andati alla tenda del convegno, ma erano scritti nella lista, si misero dunque anch’essi a profetare. Giosuè viene informato da un giovane che due uomini qualsiasi, senza appartenere alla classe sacra dei 70 responsabili d’Israele e senza avere investiture ufficiali si sono messi a profetizzare, pervasi dallo Spirito di Dio.
Giosuè preoccupato, chiede «Mosè, mio signore, impediscili!». La risposta di Mosè centra subito la “gelosia” e il potere egoistico che è tipico di tutte le sètte e i movimenti integralistici: “Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!». Nessuna istituzione, benché di origine divina, può impedire dunque allo Spirito di soffiare dove vuole e come vuole.
Riferendosi a questo episodio la Chiesa definisce locuzione interiore il rapporto che nasce tra il cuore dell'uomo e l'ascolto della parola di Dio. È di fondamentale importanza il silenzio interiore per arrivare a questa realtà.
Il teologo A.Tanquerey definisce il fenomeno cosi: "la locuzione interiore è una manifestazione divina sotto forma di parola intesa dai sensi esterni ed interni o direttamente dall'intelletto umano. Esse sono parole o di Gesù o della Madonna o dello Spirito Santo chiarissime, avvertite dalla persona che le riceve come se nascessero dal cuore, e che, collegate fra loro, formano un messaggio“.

Salmo 18 - I precetti del Signore fanno gioire il cuore.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Anche dall’orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro da grave peccato.

Il salmista si esprime considerando, in stato di riflessione laudante, la grandezza, la potenza, la bellezza dei cieli, della volta stellata...
Il Creatore dell’universo ha stretto alleanza con il suo popolo dando una legge che è perfetta, perché non può ricevere appunti, e che rinfranca il cuore liberandolo dalle tenebre dell’ingiustizia. Questa legge d’amore è portata al suo vertice dal Cristo che la stampa nel cuore dei suoi dando loro lo Spirito Santo.
La legge, portata a compimento da Cristo, è la testimonianza dell’amore di Dio per gli uomini. Tale testimonianza, che è stata sigillata dal sangue di Cristo, non delude. Essa è verace, luminosa, e rende saggio colui che non si presenta a Dio col vizio di pensieri oscuri.
Il salmista ha sperimentato nella sua vita quanto sia giusta la legge del Signore, tanto che fa gioire il cuore.
La legge, i suoi comandi, sono limpidi, perché non oscurano gli occhi portandoli a veder in modo malvagio le cose, ma li liberano dalle oscurità per dare loro la capacità di un luminoso vedere la bellezza delle cose,che inneggiano al Creatore e servono l’uomo.
“Il timore del Signore è puro”, perché non è come quello di chi teme la punizione perché colpevole, ma è il timore puro di chi teme di giungere a rattristare Dio con la disobbedienza alla legge d’amore verso lui e verso gli altri.
Il salmista comincia a focalizzarsi sull’effetto della legge su di lui; di lui che è piccolo, ma che è istruito dai giudizi di Dio, che sono contenuti nella legge, poiché Dio giudica gli uomini con quella legge.
Il salmista è consapevole di avere tante mancanze di cui non si rende pienamente conto: le “inavvertenze”. Di queste chiede a Dio perdono. Egli, infatti, anche se osserva la legge non reputa per niente di osservarla perfettamente e sa che sta nell’orgoglio la ragione di una scarsa osservanza. Orgoglio che se non dominato conduce l’uomo al grande peccato, cioè al peccato di una grande e palese disobbedienza alla legge.
Commento tratto da “Il Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni
Ecco il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, che voi non avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore onnipotente. Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha opposto resistenza.
Gc 5,1-6

Questo brano tratto dal capitolo 5 della lettera di Giacomo ci stupisce perchè ha espressioni violente, che troviamo sin dal primo versetto: “Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vostri vestiti sono mangiati dalle tarme. Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco…“ Il linguaggio che viene usato ricorda quello degli antichi profeti, quando si scagliavano contro i misfatti della classe dirigente e benestante che angariavano e calpestavano i poveri.
Questa invettiva che Giacomo scaglia contro i ricchi, si riferisce ai loro beni a cui hanno consacrato la loro vita. E’ un linguaggio palesemente metaforico per indicare l’inutilità di questi beni e tutta la loro inconsistenza, poiché tutto ciò che è posto in questa nostra dimensione di spazio-tempo è soggetto ad essere inevitabilmente consumato e distrutto.
Giacomo rimprovera poi il loro comportamento improntato alla più profonda malvagità e superficialità del vivere defraudando i lavoratori del loro giusto salario, condannando e uccidendo così il giusto, che non è nella condizione di opporre loro resistenza.
Possiamo però anche dire che i destinatari non sono solo i cosiddetti ricchi, perchè se ci pensiamo bene, tutti noi, quando siamo smaniosi di “avere”, di “possedere”, teniamo in gran conto le nostre ricchezze (tante o poche che siano) come il bene principale, il tesoro della nostra vita: un tesoro che ci costa fatica volerlo condividere con gli altri. La linea di confine tra ricchi e poveri non passa attraverso le differenze sociologiche, perchè ci sono (e ci sono sempre stati, anche ai tempi di Gesù) ricchi dal cuore aperto a condividere tutto, veramente poveri nello spirito, ma anche poveri sulla carta, che sono smaniosi di possesso e che, ottenuto qualche bene di fortuna, o qualche eredità, sono del tutto recalcitranti ad aiutare gli altri.
Come deve comportarsi il vero cristiano? La parabola dell’uomo ricco che Gesù aveva raccontato è quanto mai efficace. Questo uomo ricco, aveva fatto un raccolto così grande che la sua preoccupazione era solo di ingrandire i magazzini per poterci raccogliere meglio tutti i suoi beni “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” Lc 12,20
Ricordiamoci che siamo solo amministratori dei nostri beni e non possessori, che tutto ci è stato dato in prestito, anche la vita, che dobbiamo restituire al nostro Creatore, con i talenti che ci ha dato, messi a frutto.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Mc 9.38-43,45,47-48

Anche questo brano del Vangelo di Marco, fa parte della raccolta che l’Evangelista ha inserito dopo il secondo dei tre annunzi di Gesù della Sua morte e risurrezione.
Ci troviamo a Cafarnao, nella casa in cui Gesù è giunto con i suoi discepoli, e Giovanni riferisce a Gesù un fatto capitato poco prima: “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva”. Giovanni è il figlio di Zebedeo, uno dei primi quattro che Gesù ha scelto (V. Mc 1,19). Con suo fratello Giacomo si distingue dagli altri per la sua ambizione e per la sua passione, che gli ha guadagnato il titolo di “figlio del tuono” (3,17; cfr. Lc 9,54-55). Questa è l’unica volta in cui egli parla a nome di tutto il gruppo dei discepoli.
La pratica di scacciare i demoni nel nome di un personaggio particolarmente autorevole era consueto nel giudaismo. Non sorprende quindi il fatto che certi esorcisti, pur non essendo della cerchia di Gesù, si servissero del suo nome per le loro pratiche: un episodio simile capitò anche a Paolo mentre si trovava a Efeso (V. At 19,13).
Giovanni dunque intende impedire l’attività dell’uomo perché, dice, “non ci seguiva” cioè non era membro del loro gruppo. Questo è l’unico punto nel NT in cui si parla di seguire non Gesù, ma il gruppo dei discepoli, per cui è possibile che questa espressione faccia parti del linguaggio della prima comunità cristiana, nella quale era forte la tendenza a sentirsi depositaria esclusiva del nome di Gesù e dei suoi poteri soprannaturali.
Il racconto è collegato al noto episodio riportato dal Libro dei Numeri, che la Liturgia ce lo propone nella prima lettura, e come Mosè, anche Gesù respinge la richiesta che gli è stata fatta: “Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi”.
Secondo Marco, Gesù manifesta la convinzione che l’annunzio del regno viene fatto non solo per mezzo dei suoi discepoli, ma anche di coloro che, pur non appartenendo al loro gruppo, sono in sintonia con il suo insegnamento.
Viene poi riportato un detto che si colloca sulla stessa linea: “Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa” perciò anche senza appartenere al gruppo dei discepoli, è sufficiente un gesto di amicizia e di solidarietà nei loro confronti per ottenere la “ricompensa” a loro riservata. I discepoli non possono quindi pretendere di avere l’esclusiva della salvezza portata dal loro Maestro.
Poi viene riportata un piccola raccolta di detti incentrata sul tema dello scandalo e delle sue conseguenze.

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“Il Vangelo di questa domenica presenta uno di quegli episodi della vita di Cristo che, pur essendo colti, per così dire, en passant, contengono un profondo significato.
Si tratta del fatto che un tale, che non era dei seguaci di Gesù, aveva scacciato dei demoni nel suo nome. L’apostolo Giovanni, giovane e zelante come era, vorrebbe impedirglielo, ma Gesù non lo permette, anzi, prende spunto da quella occasione per insegnare ai suoi discepoli che Dio può operare cose buone e persino prodigiose anche al di fuori della loro cerchia, e che si può collaborare alla causa del Regno di Dio in diversi modi, anche offrendo un semplice bicchiere d’acqua ad un missionario.
Sant’Agostino scrive a proposito: «Come nella Cattolica – cioè nella Chiesa – si può trovare ciò che non è cattolico, così fuori della Cattolica può esservi qualcosa di cattolico» (Agostino, Sul battesimo contro i donatisti: PL 43, VII, 39, 77). Perciò, i membri della Chiesa non devono provare gelosia, ma rallegrarsi se qualcuno esterno alla comunità opera il bene nel nome di Cristo, purché lo faccia con intenzione retta e con rispetto. Anche all’interno della Chiesa stessa, può capitare, a volte, che si faccia fatica a valorizzare e ad apprezzare, in uno spirito di profonda comunione, le cose buone compiute dalle varie realtà ecclesiali. Invece dobbiamo essere tutti e sempre capaci di apprezzarci e stimarci a vicenda, lodando il Signore per l’infinita ‘fantasia’ con cui opera nella Chiesa e nel mondo.
Nella Liturgia odierna risuona anche l’invettiva dell’apostolo Giacomo contri i ricchi disonesti, che ripongono la loro sicurezza nelle ricchezze accumulate a forza di soprusi (Gc 5,1-6). Al riguardo, Cesario di Arles così afferma in un suo discorso: «La ricchezza non può fare del male a un uomo buono, perché la dona con misericordia, così come non può aiutare un uomo cattivo, finché la conserva avidamente o la spreca nella dissipazione» (Sermoni 35, 4). Le parole dell’apostolo Giacomo, mentre mettono in guardia dalla vana bramosia dei beni materiali, costituiscono un forte richiamo ad usarli nella prospettiva della solidarietà e del bene comune, operando sempre con equità e moralità, a tutti i livelli.”
Benedetto XVI Angelus 23 settembre 2012

Le letture liturgiche di questa domenica ci invitano ad un discernimento e a una scelta: quale sapienza vogliamo abbracciare? Quella del mondo o quella del Vangelo?
Nella prima lettura, tratta dal libro della Sapienza, l‘autore, nel ragionamento degli empi, nel quale appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano, ci dà, come in controluce, l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che il vero sapiente è colui che si prodiga per la pace. e che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.
Nel Vangelo di Marco, troviamo il secondo annuncio della passione. Anche questa volta l’evangelista evidenzia la resistenza da parte dei discepoli nel comprendere la missione di Gesù. Dopo il primo annuncio era stato Pietro ad opporre resistenza, oggi è l’intero gruppo che discute su chi fosse il più grande Mentre Gesù annuncia di farsi servo fino alla Croce, i discepoli desiderano primeggiare!
Gesù ci insegna che non nell’affermazione del potere, ma nell’umile servizio dei fratelli, soprattutto dei piccoli, come i bambini, sta la grandezza del cristiano.

Dal Libro della Sapienza
Dissero gli empi:
«Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo
e si oppone alle nostre azioni;
ci rimprovera le colpe contro la legge
e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere,
consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto
e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti,
per conoscere la sua mitezza
e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante,
perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Sap 2,12.17-20

Il Libro della Sapienza è stato utilizzato dai Padri fin dal II secolo d.C. e, nonostante esitazioni e alcune opposizioni, è stato riconosciuto come ispirato allo stesso titolo dei libri del canone ebraico. È stato composto ad Alessandria d’Egitto tra il 20 a.C. e il 38 d.C. probabilmente da Filone o da un suo discepolo, e si presenta come opera di Salomone (in greco infatti il testo si intitola “Sapienza di Salomone”) L'autore si esprime come un re e si rivolge ai re come suoi pari. Si tratta però di un espediente letterario, (anche allora ci si ricorreva) per mettere questo scritto, come del resto il Qoelet o il Cantico dei Cantici, sotto il nome di Salomone il più grande saggio d’Israele. Il libro è stato scritto tutto in greco ed è composto da 19 capitoli con vari detti di genere sapienziale, in particolare con l'esaltazione della Sapienza divina personificata.
L‘autore nel capitolo 2, da dove è tratto il nostro brano, affronta seriamente il problema di che cosa siamo e che cosa rimarrà di noi dopo la morte, ponendo ipotetiche questioni, poi in questo brano, ipotizza il ragionamento degli empi: “Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta”, in cui appare chiaro quanto essi sragionino e sbagliano. Il motivo del loro odio è la persona stessa del giusto, che con la sua debolezza e mitezza, ma soprattutto, la sua vita condotta in modo diverso, costituisce per loro, da sola, un rimprovero e una condanna. Per questo essi vogliono metterlo alla prova “con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione …”.
In controluce, possiamo intravedere l'identità luminosa del giusto, prefigurazione dell'identità salvifica del Giusto per eccellenza, Gesù di Nazareth.
L’origine del brano è incerta, ma la situazione sembra essere quella dei Giudei rinnegati e dei pagani che, nei territori della diaspora, ostacolano i fedeli all’osservanza della legge.
E’ l’eterna storia dei cattivi che per non avere il minimo ostacolo ai loro misfatti, vogliono allontanare i buoni, con tutti i mezzi, o renderli come loro.

Salmo 53 Il Signore sostiene la mia vita.

Dio, per il tuo nome salvami,
per la tua potenza rendimi giustizia.
Dio, ascolta la mia preghiera,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.

Poiché stranieri contro di me sono insorti
e prepotenti insidiano la mia vita;
non pongono Dio davanti ai loro occhi.

Ecco, Dio è il mio aiuto,
il Signore sostiene la mia vita.
Ti offrirò un sacrificio spontaneo,
loderò il tuo nome, Signore, perché è buono.

Il salmo, molto breve, presenta un’invocazione a Dio per la salvezza contro nemici forti e arroganti. Il salmista è perseguitato a morte e chiede l’intervento di Dio: “Per la tua potenza rendimi giustizia”.
C’è nel salmo un’invocazione di maledizione sui nemici che la recitazione cristiana omette perché il cristiano rimette, come Cristo (1Pt 2,23), la sua causa a Dio senza maledire.
Il salmista sperimenta l’aiuto del Signore di fronte alla dura aggressione e promette di offrire a Dio un sacrificio, un olocausto. Un sacrificio non semplicemente rituale, ma ricco di lode al nome di Dio, cioè alla sua grandezza, potenza, fedeltà, bontà, misericordia. Dio è tutto questo ed è riconosciuto nella lode e nel ringraziamento per tutto questo. Il sacrificio che noi possiamo offrire a Dio è il nostro impegno di vita, la nostra penitenza, la quale nasce dal nostro essere in Cristo nell’unione al sacrificio Eucaristico.
Dio ha concesso al salmista, al re, la liberazione dai nemici, che può ormai guardare senza sgomento alcuno dalle mura della città. Il cristiano vince continuando ad amare; guarda dall'alto i suoi aggressori, cioè dalla sua condizione di figlio di Dio che lo fa luce posta sul candelabro della croce, guarda senza astio, né maledizione, ma con amore i suoi oppressori: “Il mio occhio ha guardato dall'alto i miei nemici”.

Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di Padre Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Gc 3,16-4,3

In questo brano della lettera di S. Giacomo, si può dedurre che anche ai suoi tempi, il mondo era segnato da una falsa sapienza che, non essendo quella che "viene dall'alto" (cioè da Dio), irretisce l'uomo portandolo a conseguire beni che hanno funzionalità immediate, ma solo per la vita terrena.
Il brano inizia affermando “dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.” La sapienza che viene dall’alto dunque “anzitutto è pura”, cioè è esente da inquinamenti terreni. E’ “pacifica”, poiché opera per la pace e non per il disordine. E’ “mite”, cioè rifugge la collera, la polemica fine a se stessa. E’ “arrendevole”, non perché sia portata ai compromessi, ma perché sa accogliere le ragioni giuste degli altri e quindi è accogliente. E’ “piena di misericordia e di buoni frutti”, poiché perdona; va oltre il peccato dell’altro per cercarne il cuore e liberalo dal peccato, e in questo ha tanti “buoni frutti”. E’ “imparziale”, cioè rifiuta i favoritismi. E’ “sincera”, cioè non risiede in un cuore falso.
Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia”.
A chi fa “opera di pace” Dio semina “nella pace”, cioè non in un cuore instabile, un “frutto di giustizia”. Il “frutto di giustizia” è un frutto che nutre l’anima di luce e di vigore. E’ “di giustizia” poiché vive delle promesse di Dio.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra?
Giacomo, dal carattere mite qui sa essere anche irruente, ha un tomo forte, incisivo, eppure ancora dolce. “La ragione profonda dei litigi, delle guerre di vicinato o non, sta nelle passioni che travolgono una natura non guidata dallo spirito.
Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra!
Giacomo pensa a coloro che, non ottenendo i risultati desiderati, si scagliano contro chi possiede. L’invidia toglie loro la pace e li spinge a lotte che diventano guerre.
Le comunità cristiane della diaspora giudaica alle quali Giacomo si rivolge avevano perso il vigore iniziale, e non mancavano problemi morali gravi.
Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni“. Costoro, dominati dalle passioni, non riuscendo ad ottenere il soddisfacimento dei loro desideri mondani, non riescono neppure ad ottenere ciò che chiedono a Dio. La loro preghiera risulta infatti viziata nella domanda e nella fede, perché non mossa dall’amore, ma dalla bramosia di cose terrene.
Giacomo in sintesi ci vuole far comprendere che la persona pervasa dalla “sapienza che viene dall’alto” è una persona dal cuore retto, libero da ogni ipocrisia, che cerca con tutte le proprie forze il Dio che l'ama e a Lui si dona. Lo cerca in semplicità come il Bene supremo da cui derivano tutti gli altri beni.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Mc 9, 30-37

Questo brano del Vangelo di Marco, che fa parte della sezione in cui si descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, si apre nel punto in cui viene riportato il secondo annunzio della passione.
L’evangelista inizia cosi il suo racconto: Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Gesù predice per la seconda volta la Sua morte e risurrezione in una breve apparizione in Galilea, durante la quale cerca di mantenere segreta la Sua presenza. Quanto Gesù dice circa i tragici eventi che lo aspettano è presentato da Marco non come un semplice preannuncio di un evento futuro, ma come un vero e proprio “insegnamento” fatto ai discepoli e per mezzo loro a tutta la Chiesa,
L’espressione “consegnare nelle mani” è di solito usata per indicare l’atto con cui una persona è data in balìa di un potere avverso. Con essa di solito viene descritta la situazione dei giusti perseguitati (V. Ger 26,24), e soprattutto quella del Servo di JHWH (V. Is 53,6.12). Gesù aggiunge che, a seguito di ciò, gli sarà riservata una morte violenta, ma predice nuovamente anche la Sua risurrezione che avverrà dopo tre giorni, Questa predizione, come le altre due, rivela la determinazione con cui Gesù compie le Sue scelte, sapendo a cosa andrà incontro, ma che solo così potrà portare a compimento il Suo progetto.
Al termine l’evangelista sottolinea: “Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”. Ancora una volta emerge l’incomprensione da parte dei discepoli, i quali non hanno neanche il coraggio di fargli delle domande.
Subito dopo la predizione della Sua morte e risurrezione viene riportato che “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Il dialogo tra Gesù e i discepoli ha luogo dunque a Cafarnao, in una casa (si ipotizza quella di Pietro) ed è lì che Gesù chiede ai discepoli di che cosa avevano discusso “lungo la strada”.
La domanda di Gesù è accolta da un silenzio imbarazzato: “Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”. I discepoli sanno di aver affrontato un tema non certo gradito a Gesù, quello cioè di chi tra loro dovesse essere considerato il primo; i discepoli pensavano ancora di poter ricavare privilegi e gloria dal loro coinvolgimento nel gruppo di Gesù: essi non erano dunque in sintonia con Lui, ma il loro imbarazzo fa percepire che cominciavano a rendersene conto.
Il racconto continua riportando l’atteggiamento di Gesù: “Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti». Sedendosi, Gesù assume l’atteggiamento tipico del maestro, e si rivolge espressamente ai Dodici, che hanno condiviso con lui la missione.
Anche qui il suo insegnamento è rivolto alla Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e in modo speciale ai suoi capi. In contrasto con quanto essi pensavano, Egli afferma che chi vuole essere primo, deve farsi “ultimo di tutti e il servitore di tutti”.
Il secondo detto viene accompagnato da un gesto simbolico: “E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».”
Il gesto di Gesù è un po‘ sorprendente perchè nell’antico Oriente il bambino non era molto considerato, per cui Gesù provocatoriamente capovolge la normale concezione secondo cui il bambino può essere solo oggetto di educazione da parte dell’adulto, per diventare un soggetto che ha un messaggio prezioso da trasmettere proprio a colui che gli è per età, cultura e maturità, superiore. Questo bambino, diviene così anche l’immagine del vero seguace, cioè l’immagine del discepolo che veramente si mette a servizio degli altri.
Gesù garantisce che dove c’è un individuo che per amore, liberamente e volontariamente, si mette a servizio degli altri, in questa persona si manifesta la Sua presenza e la presenza di Gesù porta quella di Dio stesso.

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“Nel nostro cammino con il Vangelo di san Marco, domenica scorsa siamo entrati nella seconda parte, cioè l’ultimo viaggio verso Gerusalemme e verso il culmine della missione di Gesù. Dopo che Pietro, a nome dei discepoli, ha professato la fede in Lui riconoscendolo come il Messia, Gesù comincia a parlare apertamente di ciò che gli accadrà alla fine. L’Evangelista riporta tre successive predizioni della morte e risurrezione, ai capitoli 8, 9 e 10: in esse Gesù annuncia in modo sempre più chiaro il destino che l’attende e la sua intrinseca necessità. Il brano di questa domenica contiene il secondo di questi annunci.
Gesù dice: «Il Figlio dell’uomo – espressione con cui designa se stesso – viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». I discepoli «però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo».
In effetti, leggendo questa parte del racconto di Marco, appare evidente che tra Gesù e i discepoli c’era una profonda distanza interiore; si trovano, per così dire, su due diverse lunghezze d’onda, così che i discorsi del Maestro non vengono compresi, o lo sono soltanto superficialmente. L’apostolo Pietro, subito dopo aver manifestato la sua fede in Gesù, si permette di rimproverarlo perché ha predetto che dovrà essere rifiutato e ucciso.
Dopo il secondo annuncio della passione, i discepoli si mettono a discutere su chi tra loro sia il più grande; e dopo il terzo, Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra, quando sarà nella gloria (cfr Mc 10,35-40). Ma ci sono diversi altri segni di questa distanza: ad esempio, i discepoli non riescono a guarire un ragazzo epilettico, che poi Gesù guarisce con la forza della preghiera (cfr Mc 9,14-29); o quando vengono presentati a Gesù dei bambini, i discepoli li rimproverano, e Gesù invece, indignato, li fa rimanere, e afferma che solo chi è come loro può entrare nel Regno di Dio (cfr Mc 10,13-16).
Che cosa ci dice tutto questo? Ci ricorda che la logica di Dio è sempre «altra» rispetto alla nostra, come rivelò Dio stesso per bocca del profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, / le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8). Per questo seguire il Signore richiede sempre all’uomo una profonda con-versione - da noi tutti -, un cambiamento nel modo di pensare e di vivere, richiede di aprire il cuore all’ascolto per lasciarsi illuminare e trasformare interiormente. Un punto-chiave in cui Dio e l’uomo si differenziano è l’orgoglio: in Dio non c’è orgoglio, perché Egli è tutta la pienezza ed è tutto proteso ad amare e donare vita; in noi uomini, invece, l’orgoglio è intimamente radicato e richiede costante vigilanza e purificazione. Noi, che siamo piccoli, aspiriamo ad apparire grandi, ad essere i primi, mentre Dio, che è realmente grande, non teme di abbassarsi e di farsi ultimo. E la Vergine Maria è perfettamente «sintonizzata» con Dio: invochiamola con fiducia, affinché ci insegni a seguire fedelmente Gesù sulla via dell’amore e dell’umiltà.”
Benedetto XVI Angelus 23 settembre 2012

Le letture liturgiche di questa domenica ci aiutano a comprende che seguire Cristo significa percorrere in spirito il Suo cammino, che conduce alla gloria ma attraverso la croce.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annunzia che il “Servo di Dio”, cioè il Messia, sarà inviato a portare a compimento il progetto di salvezza, e compirà la sua missione attraverso la sofferenza, certo della sua innocenza e della protezione di Dio
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede e ci invita a tenere insieme fede e opere: la fede deve incarnarsi nella vita e la vita lasciarsi plasmare dalla fede.
Nel Vangelo di Marco, troviamo Gesù che sembra provocare i suoi discepoli, quando chiede loro: "Chi dice la gente che io sia?" per arrivare a porre loro la domanda più importante: "E voi chi dite che io sia?". Con Pietro siamo anche noi sollecitati a professare una fede: “Tu sei il Cristo “, che deve diventare sequela, disponibilità a seguire Gesù lungo la stessa strada e con il suo stesso atteggiamento. La fede in Gesù diventa allora fede nella sua promessa: perdere la propria vita per causa sua e del Vangelo (non solo nel martirio di sangue, ma nella nostra vita quotidiana come suoi testimoni) anziché al fallimento, ci consegna alla pienezza della vita eterna.

Dal Libro del Profeta Isaia
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.
È vicino chi mi rende giustizia:
chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci.
Chi mi accusa? Si avvicini a me.
Ecco, il Signore Dio mi assiste:
chi mi dichiarerà colpevole?
Is 50,5-9ª

Questo brano fa parte del Libro della Consolazione di Israele (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia” o “Deutero Isaia”. Probabilmente era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che, dalla sue profezie prendono speranza. Il corpo del libro contiene una serie di oracoli che possono dividersi in due parti, quelle composte prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12-48,22) e quelle che invece sono state composte dopo questo evento (Is 49,1-54,17).
Nel libro del Deuteroisaia emerge con insistenza la figura e l’opera di un personaggio misterioso, chiamato “Servo di JHWH”, di cui trattano quattro composizioni poetiche a cui è stato dato l’appellativo di ”Carmi del Servo di JHWH” (42,1-7; 49,1-6; 50,4-9; 52,13-53,12). Mentre il primo carme si trova all’inizio della prima parte, gli altri li troviamo nella seconda parte della raccolta. Mentre nei primi due carmi si tratta rispettivamente della chiamata del Servo e dell’insuccesso che lo attende, nel terzo (Is 50,4-9) da dove è tratto il nostro brano, si descrive la persecuzione che ha subito. I versetti sono alquanto simili ai salmi di lamentazione individuale, in cui un giusto perseguitato si lamenta delle sue sofferenze e si abbandona alla protezione divina.
Il brano si apre con un monologo del Servo sofferente: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”. Poi il Servo fa memoria delle sue sofferenze: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”.
Qui si parla di flagellazione, di strappare la barba, di insulti e di sputi!
È difficile dire in che contesto queste torture gli sono state inflitte e se sono reali o metaforiche. Ma certo si tratta di sofferenze gravissime.
Il Servo passa poi a descrivere la sua reazione personale: “Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso”.
Nella difficile situazione in cui si trova, il Servo non si difende con la forza, e neppure fa ricorso, come aveva fatto Geremia, alla violenza verbale contro i suoi avversari; al contrario, fortificato dalla sua fiducia in Dio, resta fermo come una roccia senza venir meno alla sua missione. La sua forza d’animo gli deriva dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le opposizioni.
La sua forza d’animo gli proviene dalla certezza che Dio porterà a termine il suo progetto nonostante tutte le avversità. Il Servo dimostra così di non cercare il proprio successo personale ma la realizzazione di quanto va annunziando, anche se ciò dovesse costargli la vita.
Il Servo riafferma ancora la sua fiducia in Dio e lancia una sfida ai suoi avversari: “È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
Alla fiducia in Dio corrisponde la certezza che i suoi avversari non avranno il sopravvento. La previsione della loro distruzione non deriva da una volontà di vendetta ma semplicemente dal desiderio che la vittoria di Dio sia completa. In questo carme il Servo è descritto come una figura di profeta che annunzia il piano di Dio per Israele. Egli si presenta come un uomo totalmente immerso in Dio, dal quale riceve il messaggio da comunicare al popolo.
Per concludere si può dire che questo brano è particolarmente indicato a noi cristiani per farci comprendere in profondità il mistero dell'UOMO-DIO a cui Isaia sembra alludere con voce profetica, più di 500 anni prima della venuta di Cristo. Quello che di lui sappiamo riguarda la vicenda di un uomo che si è dato in balia del dolore al di là di ogni possibile immaginazione: ….”Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.”
Non si tratta solo di non-violenza, ma di non-difesa personale: un'assoluta arrendevolezza al dolore che per la mentalità odierna potrebbe sembrare un caso clinico da psicanalisi. Ci troviamo invece di fronte al mistero di un Uomo che accetta con docilità la sua missione, che non indietreggia nelle difficoltà e che sopporta pazientemente gli oltraggi.
E’ sostenuto solo dalla sua ferma fiducia nell’aiuto di DIO, per questo anche se accusato ingiustamente, egli ha la certezza della vittoria finale.

Salmo 114 Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi.
Amo il Signore, perché ascolta
il grido della mia preghiera.
Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.

Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi,
ero preso da tristezza e angoscia.
Allora ho invocato il nome del Signore:

«Ti prego, liberami, Signore».
Pietoso e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
Il Signore protegge i piccoli:
ero misero ed egli mi ha salvato.

Sì, hai liberato la mia vita dalla morte,
i miei occhi dalle lacrime,
i miei piedi dalla caduta.
Io camminerò alla presenza del Signore
nella terra dei viventi.

Il salmo presenta un pio Giudeo che, oppresso da “tristezza e angoscia”, ha innalzato a Dio una preghiera ardente: “Ti prego, liberami, Signore”; e non ha mancato di sperimentare il soccorso del Signore, confermandosi così nella fiducia in lui: “Amo il Signore, perché ascolta il grido della mia preghiera...”. La narrazione conduce a delineare un prigioniero di fronte al quale si profila la morte; infatti si parla di: “Funi di morte”; di assenza di vie d'uscita: “Ero preso nei lacci degli inferi”; ed esplicitamente vien detto: “hai liberato la mia vita dalla morte".
La grazia della liberazione gli è giunta tanto improvvisa che deve dire a se stesso: “Ritorna, anima mia, al tuo riposo...”, dove la pace è il dolce incontro con Dio, il dolce lodare Dio.
Il pio Giudeo è pieno di gratitudine e con gioia dice al Signore "hai liberato la mia vita dalla morte, i miei occhi dalle lacrime, i miei piedi dalla caduta" dove per caduta si deve intendere la disperazione, la rottura con Dio.
Dopo quell'esperienza dura, ma feconda, il salmista si propone di camminare alla presenza del Signore, cioè di essere sempre conforme al volere di Dio: “Io camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi”.
Nella “terra dei viventi” è da vedere la Palestina rinnovata per l'eliminazione degli idoli: è il grande desiderio del pio Giudeo.
Le parole “Mi stringevano funi di morte...ero preso da tristezza e angoscia” ci portano a Cristo (Cf. Eb 5,7).

Commento di Padre Paolo Berti


Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede».
Gc 2,14-18

Questo brano della lettera di Giacomo è sicuramente il passo più conosciuto e citato per trattare il tema del rapporto tra la fede e le opere. E’ come se Giacomo si ponesse anche oggi, davanti a ciascuno di noi, per porci domande dirette:
Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?”
Egli ci esorta a riflettere sull'autenticità della nostra fede. La fede è un atteggiamento interiore, che deve trovare espressione in qualche gesto, atteggiamento esterno. Una fede troppo intimistica non ha nessun senso.
Giacomo fa poi un esempio molto efficace: “Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve?
Il caso presentato non deve servire però come esempio della fede priva di opere, bensì come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose, così una fede senza opere non serve a nulla per la salvezza nel giudizio divino.
Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta” ossia la fede senza opere che l'accompagnano non ha nessun senso. Non si tratta delle opere della legge, bensì delle opere dell'amore del prossimo. Il riferimento a queste opere di carità è in linea con il brano che abbiamo visto domenica scorsa che metteva in guardia dai favoritismi.
Al contrario uno potrebbe dire: «Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede»”.
Molti di fronte a questo testo, se conoscono le lettere di Paolo, possono restare perplessi perché sembra che qui venga detto il contrario di quello che San Paolo insegna. In realtà, Paolo e Giacomo non erano affatto in disaccordo. L’unico punto di dissenso, secondo alcuni, riguarda il rapporto tra la fede e le opere.
Paolo afferma dogmaticamente che la giustificazione è per sola fede, mentre Giacomo dice che la giustificazione è mediante la fede più le opere.
Questo apparente problema viene risolto esaminando di cosa sta parlando esattamente Giacomo, il quale sta confutando la dottrina secondo cui una persona può avere fede senza produrre alcuna opera buona e sottolinea che la fede genuina in Cristo produrrà una vita cambiata e come conseguenza frutti di buone opere.
Giacomo non sta dicendo che la giustificazione sia mediante la fede più le opere, ma piuttosto che una persona che è davvero giustificata per fede non potrà fare a meno di produrre frutti di buone opere nella sua vita.
Se una persona afferma di essere credente, ma non copie opere, allora è probabile che non abbia la vera fede in Cristo, anzi non ha mai compreso il suo Vangelo.
Il ragionamento di Giacomo e di Paolo portano allo stesso risultato: Giacomo ragiona dal punto di vista di colui che è già figlio di Dio, Paolo da quello di colui che deve diventarlo.

Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Mc 8,27-35

Questo brano del Vangelo di Marco fa parte della sezione caratterizzata da tre annunzi della passione, morte e risurrezione di Gesù (8,31; 9,31; 10,33). Qui l'evangelista affronta il problema dell'identità di Gesù e indica i riflessi che il suo destino di sofferenza e di morte avrà su coloro che lo seguono.
Il brano si apre con una indicazione di luogo e con una domanda di Gesù ai discepoli:
Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?
Si trovavano nei pressi di Cesarea di Filippo, l'antica Panion, una città ellenistica che si trova nel sud dell'attuale Libano, alle pendici del Monte Hermon; essa doveva il suo nome al fatto di essere stata ricostruita in onore di Augusto da Filippo, uno dei figli di Erode il Grande, divenuto tetrarca della Transgiordania settentrionale. Nonostante la sua fugace apparizione a Betsaida, (v. 8,22), Gesù è rimasto dunque in un territorio non abitato da giudei, dove si era recato dopo la prima moltiplicazione dei pani (V.7,24).
Egli è ormai solo con i suoi discepoli e ponendo loro questo tipo di domande sembra voglia fare un sondaggio di opinioni: “La gente, chi dice che io sia?”.
Alla domanda di Gesù i discepoli rispondono: "Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti” Siccome la figura profetica più significativa per i giudei del tempo di Gesù era Giovanni Battista, alcuni ritenevano che lui fosse in qualche modo ritornato in vita nella persona di Gesù per portare a compimento la sua missione. Secondo altri Gesù si identificava con Elia, a cui veniva spesso riconosciuto il ruolo di profeta escatologico (Ml 3,23; Sir 48,10). Altri ancora pensavano che egli fosse "uno dei profeti“. Luca nel testo parallelo dice: che alcuni consideravano Gesù come "uno degli antichi profeti che è risorto", senza precisare quale.
In definitiva la gente vedeva in Gesù il profeta degli ultimi tempi, inviato da Dio per preparare la sua venuta.
Gesù non commenta le opinioni della gente, ma si rivolge nuovamente ai discepoli per arrivare a porre la domanda più importante che gli stava a cuore: Ma voi, chi dite che io sia?». E Pietro subito rispose: “Tu sei il Cristo». Pietro rispondendo così raggiunge in parte la verità. La sua è una definizione esatta ma ancora incompleta; è solo una luce gettata nel mistero di Gesù, una luce ancora velata da ombre. Infatti il titolo “Cristo”, che letteralmente significa “il consacrato”, era la versione greca dell’ebraico “messia” che resta sempre una creatura umana. Per questo la risposta di Pietro è ancora incompleta: Gesù non è solo “Cristo”, ma è anche “Figlio di Dio”, come precisa Matteo nel suo Vangelo con le parole che mette in bocca a Pietro “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Matteo annota anche l’elogio che Gesù fa a Pietro: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli.
Marco poi riporta che Gesù “ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno”.
Dopo aver ascoltato, le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: "E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Dopo aver ascoltato, le opinioni della gente e quelle dei discepoli, Gesù dà ora la sua risposta circa il quesito che lui stesso aveva posto e lo fa indicando il destino a cui va incontro: “E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.”
L'espressione "Figlio dell'uomo", che significa semplicemente un membro della famiglia umana, era stata utilizzata, in testi apocalittici, per designare una figura di inviato mediante il quale Dio avrebbe instaurato un giorno il suo regno (V. Dn 7,13).
Gli esegeti in questo punto ritengono che Gesù ne fa uso, non per attribuirsi un compito glorioso, ma per preannunziare un destino di sofferenza e di morte, seguito però dalla risurrezione. Si può perciò supporre che l'abbia usato non per descrivere la sua gloria ma per indicare la sua solidarietà senza limiti con ogni essere umano.
Marco poi annota che Gesù “Faceva questo discorso apertamente... cioè quello della sua morte imminente: ciò lascia intuire in questo suo annunzio una certa provocazione. E proprio Pietro, che poco prima lo aveva proclamato Messia, lo prende in disparte e si sente in dovere di rimproverarlo duramente. La sua reazione rivela una concezione trionfalistica del Messia in cui non c'era posto per la sofferenza.
Alle parole di Pietro Gesù reagisce con pari durezza: “voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Usando l'espressione "va' dietro a me" Gesù non intende certamente allontanare Pietro da sé, come aveva fatto con il diavolo in occasione della tentazione (Mt 4,10), ma lo richiama alla sequela, cioè alla necessità di non mettersi al suo posto, ma di adattarsi alle sue scelte.
Il fatto che Gesù rimproveri Pietro guardando anche gli altri discepoli, significa che essi condividevano le idee di Pietro: si tratta dunque di un'ammonizione rivolta a tutti i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo.
Al primo annunzio della passione l'evangelista fa seguire un breve discorso rivolto da Gesù non solo ai suoi discepoli, ma anche alla folla, che ora è citata. Questo discorso contiene una piccola raccolta di detti riguardanti non più il destino futuro di Gesù, ma quello che devono fare coloro che lo vogliono seguire.
Gesù dunque, “convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”.
Il "rinnegamento di sé” ricorda la scelta del Servo di JHWH, il quale ha abbandonato ogni ricerca del potere per mettersi generosamente al servizio di tutto il popolo; l'espressione "prendere la sua croce" può alludere già al tipo di morte che lo aspetta oppure indicare semplicemente le sofferenza di una vita spesa per gli altri; ma il fine di tutto è la sequela, che Gesù propone come l'unico mezzo per raggiungere lo scopo di accogliere il regno di Dio che viene.
Poi Gesù prosegue: " Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà”. In altre parole: se uno vuole salvare egoisticamente la propria vita finirà per perderla, ossia per non raggiungere lo scopo, il senso della propria vita; mentre chi è disposto a perderla, seguendolo sul cammino della croce, senz'altro la salverà, cioè raggiungerà la vita piena del regno
Cerchiamo ora di immaginarci ciò che hanno provato tutti i presenti quando Gesù, senza mezzi termini ha detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua ….Avranno provato tremore e sgomento e si saranno chiesti: Chi è dunque costui per chiedere tanto?” La risposta la diamo ancora noi oggi, dopo duemila anni, perchè se in quella croce, più o meno pesante, che ognuno porta nella propria vita, non vedesse avanti a se chi ha pronunciato queste parole, non avrebbe la forza di proseguire.

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“Il Vangelo di oggi ci presenta Gesù che, in cammino verso Cesarea di Filippo, interroga i discepoli: «La gente, chi dice che io sia?». Essi rispondono quello che diceva la gente: alcuni lo ritengono Giovanni Battista redivivo, altri Elia o uno dei grandi Profeti. La gente apprezzava Gesù, lo considerava un “mandato da Dio”, ma non riusciva ancora a riconoscerlo come il Messia, quel Messia preannunciato ed atteso da tutti. Gesù guarda gli apostoli e domanda ancora: «Ma voi, chi dite che io sia?». Ecco la domanda più importante, con cui Gesù si rivolge direttamente a quelli che lo hanno seguito, per verificare la loro fede. Pietro, a nome di tutti, esclama con schiettezza: «Tu sei il Cristo». Gesù rimane colpito dalla fede di Pietro, riconosce che essa è frutto di una grazia, di una grazia speciale di Dio Padre. E allora rivela apertamente ai discepoli quello che lo attende a Gerusalemme, cioè che «il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto … venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere».
Sentito questo, lo stesso Pietro, che ha appena professato la sua fede in Gesù come Messia, è scandalizzato. Prende in disparte il Maestro e lo rimprovera. E come reagisce Gesù? A sua volta rimprovera Pietro per questo, con parole molto severe: «Va’ dietro a me, Satana!” - gli dice Satana! - “Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Gesù si accorge che in Pietro, come negli altri discepoli - anche in ciascuno di noi! - alla grazia del Padre si oppone la tentazione del Maligno, che vuole distoglierci dalla volontà di Dio. Annunciando che dovrà soffrire ed essere messo a morte per poi risorgere, Gesù vuol far comprendere a coloro che lo seguono che Lui è un Messia umile e servitore. È il Servo obbediente alla parola e alla volontà del Padre, fino al sacrificio completo della propria vita. Per questo, rivolgendosi a tutta la folla che era lì, dichiara che chi vuole essere suo discepolo deve accettare di essere servo, come Lui si è fatto servo, e avverte: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua».
Mettersi alla sequela di Gesù significa prendere la propria croce - tutti l’abbiamo… - per accompagnarlo nel suo cammino, un cammino scomodo che non è quello del successo, della gloria passeggera, ma quello che conduce alla vera libertà, quella che ci libera dall’egoismo e dal peccato. Si tratta di operare un netto rifiuto di quella mentalità mondana che pone il proprio “io” e i propri interessi al centro dell’esistenza: questo non è ciò che Gesù vuole da noi! Invece, Gesù ci invita a perdere la propria vita per Lui, per il Vangelo, per riceverla rinnovata, realizzata e autentica.
Siamo certi, grazie a Gesù, che questa strada conduce alla fine alla risurrezione, alla vita piena e definitiva con Dio. Decidere di seguire Lui, il nostro Maestro e Signore che si è fatto Servo di tutti, esige di camminare dietro a Lui e di ascoltarlo attentamente nella sua Parola – ricordatevi: leggere tutti i giorni un passo del Vangelo – e nei Sacramenti.
Ci sono giovani qui in piazza: ragazzi e ragazze. Io vi domando: avete sentito la voglia di seguire Gesù più da vicino? Pensate. Pregate. E lasciate che il Signore vi parli.
La Vergine Maria, che ha seguito Gesù fino al Calvario, ci aiuti a purificare sempre la nostra fede da false immagini di Dio, per aderire pienamente a Cristo e al suo Vangelo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 13 settembre 2015

Le letture liturgiche di questa domenica ci spingono alla lode di Dio, allo stupore per le Sue grandi opere, per la Sua fedeltà.
Nella prima lettura, il Profeta Isaia, annuncia la salvezza di Israele, il ritorno in patria dei deportati e la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La fine di una fase così difficile viene descritta da Isaia come una sorta di rivoluzione, di "capovolgimento" del mondo: chi è infermo guarisce, la siccità lascia il passo all'abbondanza dell'acqua. Finisce dunque l'ansia e la luce dell'amicizia di Dio riappare chiaramente.
Nella seconda lettura, l’Apostolo Giacomo afferma che la fede non deve essere condizionata da indebiti riguardi verso i ricchi o la freddezza verso i poveri, e sottolinea come bisogna insistere sulla pratica materiale e senza finzioni della carità, in quanto espressione concreta della nostra relazione con Cristo.
Nel Vangelo di Marco, il racconto è inquadrato nella cornice del cosiddetto “segreto messianico”. Gesù infatti porta in disparte dalla folla il sordomuto e guaritolo, gli comanda di non dire niente a nessuno. Più che un prodigio spettacolare Gesù vuole compiere un atto che trasformi soprattutto la coscienza: gli orecchi sordi nel linguaggio biblico sono spesso segno di cuore indifferente. Senza la parola efficace del Cristo l’uomo resta sordo al Vangelo! E’ per questo che nel sacramento del Battesimo si è introdotto il rito dell’Effata sul bambino che è stato appena battezzato perchè diventi colui che ascolta la parola di Dio e la comunica agli altri con le sue labbra e la sua vita.

Dal libro del profeta Isaia
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
Is 35,4-7a

Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si scagliò così contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche. In particolare, condannò senza mezzi termini il digiuno, le elemosine, le ricche offerte, quando non sono seguite da una condotta di vita moralmente corretta, dal rispetto verso il prossimo, dal soccorso alla vedova e all'orfano, dall'onestà nell'esercizio di cariche pubbliche.
Questo brano fa parte della piccola apocalisse (c.34-35)) con cui Isaia celebra il rimpatrio dalla schiavitù babilonese per la ricostruzione di Gerusalemme dopo la sua distruzione effettuata dalle armate babilonesi. La deportazione in schiavitù fu un'esperienza terribile che il popolo d'Israele visse tra il 586 e il 538 a.C. e che determinò momenti di smarrimento gravissimo.
Il capitolo 35, da dove è tratto il brano liturgico, inizia con un invito rivolto da Dio, per bocca del profeta, al deserto: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa. Come fiore di narciso fiorisca; sì, canti con gioia e con giubilo” L’esultanza del deserto si manifesta attraverso la nascita improvvisa di fiori insoliti in quella regione. Il deserto di cui si parla è quello che separa la Mesopotamia dalla Palestina: attraverso di esso gli esuli ritornarono nella loro terra.
Il brano liturgico inizia con un altro invito del Signore “agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi».” Il messaggio chiaramente è rivolto agli esuli che si sono messi in cammino. Essi sono ancora infiacchiti dal lungo periodo di esilio, non hanno fiducia in se stessi, e soprattutto non hanno la sicurezza di poter riuscire nella loro impresa.
Vengono perciò incoraggiati con la promessa della presenza del Signore che li guida come aveva fatto un tempo con gli israeliti durante l’esodo dall’Egitto.
Egli porta con sé oltre alla salvezza, riservata al Suo popolo, anche il castigo per i loro nemici che sono anche i Suoi nemici. La ricompensa divina non consiste in un premio guadagnato con le proprie opere buone, ma nella salvezza donata gratuitamente da Dio al Suo popolo.
Alla venuta del Signore corrisponde la guarigione di persone afflitte da diverse infermità: “Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto
Gli esuli che si mettono in cammino sono paragonati a persone afflitte da mali che impediscono loro la possibilità stessa di fare un lungo cammino a piedi. Nonostante la loro inabilità, essi si mettono in cammino senza difficoltà per raggiungere la meta.
scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa. La terra bruciata diventerà una palude, il suolo riarso sorgenti d’acqua. L’immagine del deserto che rifiorisce al passaggio degli esuli dà l’idea di un rinnovamento che, partendo dal cuore umano, si estende a tutto il creato.
Si può notare che Isaia inserisce nel suo racconto una doppia fila di immagini antitetiche: da una parte si incontrano simboli della natura: l’aridità del deserto, la steppa riarsa, la terra bruciata, si oppongono le acque, i torrenti, le paludi, le sorgenti zampillanti. Dall’altra prendono vita immagini corporali: al fisico malato dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti si oppone il corpo risanato dotato di occhi con ottima vista, di orecchi sensibilissimi, di gambe saltellanti come quelle di un cervo, di labbra che esplodono in canti di gioia.
Il Nuovo Testamento farà sue queste espressioni per indicare in Gesù-Messia il vero realizzatore della salvezza.

Salmo 145 Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).
Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".
Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.
Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.
Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.
Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).
Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.
Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.
Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.
Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.
Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.
Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).
Commento di P. Paolo Berti

Dalla lettera di S.Giacomo apostolo
Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali. Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?
Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
Gc 2,1-5

L'Apostolo Giacomo in questo brano della sua lettera ci dice chiaramente quali scelte dobbiamo fare nella nostra vita personale e sociale e quale strada intraprendere per essere dalla parte di Cristo e fare davvero nostro il Suo messaggio di amore, giustizia, uguaglianza e fratellanza universale.
Il brano inizia con l’esortazione: “Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali”
La fede in Cristo non può essere contaminata dal pensare secondo gli uomini, che si accerchiano di persone che li appoggiano e dalle quali sperano benefici, mentre escludono altre che hanno il torto di non volere essere compiacenti e che seguono Cristo.
Il favoritismo è sempre stato, anche allora, un male per le comunità, e Giacomo lo presenta in tutta la sua gravità, dopo averlo già trattato all’inizio della sua lettera (1,9-10). Disdicevole è anche che i cristiani inseguano i ricchi e si facciano loro servi compiacenti per averne qualche utile. Come disastrosa è l’azione dei cristiani che con favoritismi costituiscono gruppi per condizionare dall’interno le comunità.
L’apostolo passa poi a fare un esempio concreto descrivendo il comportamento, purtroppo sempre attuale anche nei nostri giorni: Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuosamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi?”
Giacomo presenta veramente un esempio di favoritismo miserevole perché avviene proprio dentro ad un’assemblea eucaristica.
Poi l’apostolo passa alle raccomandazioni: “Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano?
La scelta di Dio dei poveri Paolo la espresse così: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono”. (1Cor 1,27-28). Anche nel Magnificat troviamo espresse parole analoghe.
Dalla sete del denaro e del potere nascono gli inganni, le invidie, le liti, le oppressioni, le corruzioni, le divisioni, le guerre. Giacomo prende di petto l’eresia di fondo, quella che promuove e fa da supporto a tutte le eresie: il desiderio affannoso del potere.
Giacomo non si fa portatore di un quadro sociale dove tutto sia livellato, ma vuole che chi ha di più, per varie ragioni, non sia chiuso nella superbia, ma sia umile e caritatevole. D’altro canto il povero non deve avere anche lui la bramosia delle ricchezze e di conseguenza odiare il ricco perché le possiede.
Il rinnovamento del modo di pensare dell’uomo passa tutto attraverso l’adesione autentica a Cristo.
Nota: Sappiamo che nella dottrina sociale della Chiesa non si ha affatto il rifiuto del capitale, poiché esso è una forza con la quale si possono creare posti di lavoro; quello che fa scandalo è l’uso egoistico delle ricchezze possedute.

Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Mc 7,31-37

Questo brano del vangelo di Marco appartiene alla terza parte riguardante i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea. Questo episodio è riportato subito dopo la guarigione della figlia di una donna siro-fenicia (7,24-30), nella quale l’evangelista ha visto un’anticipazione del dono della salvezza ai pagani, e prima della moltiplicazione dei pani per una folla sempre di pagani (8,1-8). L’evangelista inizia il suo racconto con una indicazione di luogo:
Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Gesù aveva lasciato la zona di Tiro, città della Fenicia, dove aveva guarito la figlia della donna sirofenicia, passa per Sidone e si dirige verso il mare di Galilea, ma invece di fermarsi in questa regione, si reca nella zona orientale Decapoli, (l'odierna Giordania), abitata anch’essa da popolazioni non giudaiche. La collocazione geografica del miracolo che sta per narrare, non è molto importante, ciò che interessa Marco è evidenziare il destinatario: anche lui, come la sirofenicia, è un pagano.
A parte questa indicazione implicita e la malattia da cui è afflitto, non si conoscono altri particolari del sordomuto e di coloro che lo portarono da Gesù; l’imposizione delle mani, che essi gli chiedono, era il gesto solito con cui si invocava la benedizione divina su una persona, e già altre volte era stato richiesto a Gesù o usato da lui e dai suoi discepoli per compiere un’azione straordinaria.
A questa richiesta Gesù risponde più con i gesti che con le parole: ”Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».”
Gesù non si sottrae alla richiesta di coloro che accompagnano l’uomo e neppure solleva obiezioni, come aveva fatto poco prima con la donna sirofenicia, ma il fatto di compiere il miracolo in disparte indica una certa riservatezza, dovuta certamente al fatto che si trova in territorio non abitato da giudei. E’ questa forse anche la causa per cui Egli, per la prima volta, fa ricorso a gesti inusuali come il toccare gli orecchi con le dita e mettere la saliva sulla lingua, che sono simili a quelli usati dai guaritori dell’epoca.
Il guardare verso il cielo sta però ad attestare che Egli attribuisce non a questi gesti, ma a Dio, l’opera miracolosa.
I gesti di Gesù hanno un effetto immediato: ”E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno”.
Il comando che fa seguito alla guarigione fa parte del segreto messianico perchè non è chiaro a chi sia stato dato questo ordine, dal momento che Gesù si trovava solo con l’interessato.
E’ evidente però che Gesù vuole impedire che venga a saperlo la folla, che certamente è composta di pagani, i quali ancora più dei giudei potrebbero non capire ciò che Lui ha fatto.
L’evangelista però osserva: “Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano … e Marco osserva che i presenti, “pieni di stupore”, commentano l’accaduto con queste parole: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”.
La guarigione del sordomuto, al di fuori dei territori abitati tradizionalmente dai giudei, mostra nuovamente che la salvezza ha ormai raggiunto i pagani. Tra di essi Gesù non svolge un’attività di predicazione, ma si limita a fare alcuni segni mediante i quali dimostra che la salvezza è disponibile anche a loro.
Dall’atteggiamento di coloro che vengono a contatto con Lui appare che, diversamente dai giudei, essi sono disposti ad accogliere positivamente il dono di Dio, imparando ad ascoltare la Sua parola e a pregarlo con spirito di figli. Anzi essi stessi si fanno persino missionari del Suo vangelo.
Si apre così una nuova epoca nella storia dell’umanità, nella quale cade la barriera tra giudei e pagani, e con essa tutte le barriere di razza, lingua e religione, e le persone cominciano a capirsi e a condividere. È questo il segno più eclatante che il regno di Dio è vicino.

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"Il Vangelo di oggi racconta la guarigione di un sordomuto da parte di Gesù, un evento prodigioso che mostra come Gesù ristabilisca la piena comunicazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. Il miracolo è ambientato nella zona della Decapoli, cioè in pieno territorio pagano; pertanto quel sordomuto che viene portato da Gesù diventa simbolo del non-credente che compie un cammino verso la fede. Infatti la sua sordità esprime l’incapacità di ascoltare e di comprendere non solo le parole degli uomini, ma anche la Parola di Dio. E san Paolo ci ricorda che «la fede nasce dall’ascolto della predicazione» (Rm 10,17).
La prima cosa che Gesù fa è portare quell’uomo lontano dalla folla: non vuole dare pubblicità al gesto che sta per compiere, ma non vuole nemmeno che la sua parola sia coperta dal frastuono delle voci e delle chiacchiere dell’ambiente. La Parola di Dio che il Cristo ci trasmette ha bisogno di silenzio per essere accolta come Parola che risana, che riconcilia e ristabilisce la comunicazione.
Vengono poi evidenziati due gesti di Gesù. Egli tocca le orecchie e la lingua del sordomuto. Per ripristinare la relazione con quell’uomo “bloccato” nella comunicazione, cerca prima di ristabilire il contatto. Ma il miracolo è un dono dall’alto, che Gesù implora dal Padre; per questo alza gli occhi al cielo e comanda: “Apriti!”. E le orecchie del sordo si aprono, si scioglie il nodo della sua lingua e si mette a parlare correttamente.
L’insegnamento che traiamo da questo episodio è che Dio non è chiuso in sé stesso, ma si apre e si mette in comunicazione con l’umanità. Nella sua immensa misericordia, supera l’abisso dell’infinita differenza tra Lui e noi, e ci viene incontro. Per realizzare questa comunicazione con l’uomo, Dio si fa uomo: non gli basta parlarci mediante la legge e i profeti, ma si rende presente nella persona del suo Figlio, la Parola fatta carne. Gesù è il grande “costruttore di ponti”, che costruisce in sé stesso il grande ponte della comunione piena con il Padre.
Ma questo Vangelo ci parla anche di noi: spesso noi siamo ripiegati e chiusi in noi stessi, e creiamo tante isole inaccessibili e inospitali. Persino i rapporti umani più elementari a volte creano delle realtà incapaci di apertura reciproca: la coppia chiusa, la famiglia chiusa, il gruppo chiuso, la parrocchia chiusa, la patria chiusa… E questo non è di Dio! Questo è nostro, è il nostro peccato.
Eppure all’origine della nostra vita cristiana, nel Battesimo, ci sono proprio quel gesto e quella parola di Gesù: “Effatà! - Apriti!”. E il miracolo si è compiuto: siamo stati guariti dalla sordità dell’egoismo e dal mutismo della chiusura e del peccato, e siamo stati inseriti nella grande famiglia della Chiesa; possiamo ascoltare Dio che ci parla e comunicare la sua Parola a quanti non l’hanno mai ascoltata, o a chi l’ha dimenticata e sepolta sotto le spine delle preoccupazioni e degli inganni del mondo.
Chiediamo alla Vergine Santa, donna dell’ascolto e della testimonianza gioiosa, di sostenerci nell’impegno di professare la nostra fede e di comunicare le meraviglie del Signore a quanti incontriamo sul nostro cammino."
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 6 settembre 2015

Giovedì, 30 Agosto 2018 18:58

Insegnare agli ignoranti

Anche questa Opera di Misericordia si presenta come un’azione reversibile, infatti si può insegnare solo se ci è stato insegnato. Un detto popolare romanesco ricorda che “nessuno nasce imparato”, a sottolineare che tutti dobbiamo imparare. Il salmo 78, 3-7 aggiunge che non solo dobbiamo imparare ma dobbiamo anche insegnare: “Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, e i figli che nasceranno”. Il salmista esplicitamente ci ricorda che i primi insegnanti sono i genitori che hanno il compito di educare i figli; sono loro i veri maestri che hanno il diritto-dovere, nonché la responsabilità, della crescita spirituale e morale dei figli seguendo gli insegnamenti della Chiesa.
Gli Apostoli, poi, hanno ricevuto espressamente da Gesù il compito di insegnare:Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato” (Mt 16, 15-16). Anche la Vergine a La Salette, al termine del suo Messaggio, dice: “Andate e fatelo conoscere a tutto il mio popolo”. San Paolo scrive: “Per me evangelizzare è un dovere. Guai a me se non predicassi il Vangelo”. (1° Cor 9,16). Questo mandato missionario diventa per ogni cristiano vocazione essenziale, e non solo compito di alcuni specializzati. “Tutta la Chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è dovere fondamentale del popolo di Dio” (Conc. Vat. II°).

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
Affidata a: Missionari di Nostra Signora di «La Salette» (M.S.)
 

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