Come nella precedente domenica del battesimo del Signore alle rive del Giordano, anche in questa domenica il protagonista è Giovanni il Battista, ma le sue parole profetiche puntano verso un’altra meta: Gesù Cristo, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.
Nella prima lettura, il profeta Isaia parla della missione del servo del Signore a cui Dio dice: «È troppo poco che tu sia mio servo …per ricondurre i superstiti d’Israele.Io ti renderò luce delle nazioni,perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». Il Servo è chiamato per condurre alla salvezza non solo Israele, ma tutti i popoli.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo parla della propria vocazione all’apostolato, ricordando ai cristiani che anch’essi sono chiamati alla fede. Santificati in Cristo, sono convocati da Dio a costituire la Chiesa.
L’evangelista Giovanni, nel brano del suo Vangelo ci presenta il Battista, mandato da Dio a preparare la via a Gesù Messia e Salvatore, e lo indica come l’Agnello di Dio, la vittima che riscatta il mondo dal peccato. Per il credente, come per la Chiesa, il vero volto di Cristo si svela a poco a poco, nel corso di un cammino di fede compiuto con costanza e fermezza.
Dal libro del profeta Isaia
Il Signore mi ha detto:
«Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».
Il libro del Deuteroisaia si apre con il lieto annunzio del ritorno degli esuli a Gerusalemme (40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio. Il libro contiene una raccolta di oracoli, alcuni composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1-54,17).
Nell’introduzione del carme, omessa dalla liturgia, il Servo si rivolge alle isole, cioè, come appare dal parallelismo, alle nazioni lontane:, che ora vengono chiamate metaforicamente a dare un giudizio oggettivo su quanto è accaduto. Anzitutto il Servo si appella alla sua vocazione: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome….” (49,1). Come Geremia, egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno (Ger 1,5), cioè quando non poteva avere ancora alcun merito che motivasse la sua chiamata, e anche a lui, come ai profeti che lo hanno preceduto, è assegnato il compito di combattere contro i nemici di Dio.
Inizia qui il brano liturgico. Il Servo ricorda anzitutto a Dio le sue promesse: “Mio servo tu sei, Israele,sul quale manifesterò la mia gloria”. Nel Servo e mediante la sua opera, Dio vuole manifestare la Sua gloria, cioè il Suo progetto di salvezza. Nella sua risposta, omessa nel brano, il Servo dice che, pur essendo stato scelto e preparato, è andato incontro a un fallimento: la sua fatica e il suo impegno non hanno portato i frutti sperati. Ciò è dovuto al fatto che il popolo non è preparato ad accettare la proposta di Dio riguardante il ritorno nella terra dei padri. Il Servo non ha colpa di tale insuccesso e il Signore non potrà non riconoscere la sua innocenza e gli conferirà la ricompensa promessa. Il Servo riferisce allora che Dio interviene una seconda volta e prima di riferire il suo messaggio, il Servo lo introduce con queste parole: “Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza”. In questa introduzione il Servo riprende per la seconda volta il tema della sua vocazione, e il suo compito specifico di riportare a Dio il popolo di Israele . Questo compito rappresenta per lui un grande onore e gli garantisce l’assistenza divina. Dopo questa introduzione vengono riportate le parole di Dio: “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”.
Nonostante il suo insuccesso, Dio lo ha tanto apprezzato e stimato da ritenere troppo piccolo per lui il compito di radunare Israele e di ricondurlo a Lui. Il Signore vuole conferirgli una missione ancora più grande, che riguarda tutta l’umanità. Egli dovrà essere “luce delle nazioni”, cioè far risplendere anche su di loro la rivelazione della Sua gloria e far giungere così la salvezza “fino all’estremità della terra”.
Questa estensione della missione del Servo, non significa certo che egli dovrà svolgere un'attività missionaria presso i pagani, ma piuttosto che, dopo il suo momentaneo fallimento, porterà a termine la sua opera con tale successo da suscitare lo stupore e l'ammirazione anche delle altre nazioni, coinvolgendole nella salvezza offerta prima a Israele (45,14-25).
Salmo 39/40 - Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà!
Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo
una lode al nostro Dio
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi ha aperto,
Non hai chiesto olocauso nè sacrificio
per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo”
Ho annunciato la tua giustizia
nella grande assemblea;
vedi: non tengo chiuse le labbra,
Signore, tu lo sai.
Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.
Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.
L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.
Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.
Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
1^Cor1,1-3
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari. Per capire l’animo con cui affronta questo delicato compito pastorale e i rapporti che intende instaurare con la comunità, è significativo il ringraziamento che, come avviene solitamente nelle sue lettere, fa seguito al “prescritto” (mittente, destinatari e saluti).
Nel brano che riporta l’inizio della lettera, troviamo i saluti accorati ed incoraggianti di Paolo e Sostene, suo discepolo ed anche capo della sinagoga di Corinto.
Paolo chiamato ad essere apostolo si rivolge ai Corinti santificati mettendo in risalto che tale santificazione non appartiene solo a loro, ma a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore.
Poi Paolo continua augurando anzitutto, come in tutte le sue lettere: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!.
Questo saluto unisce quello tipico del mondo ebraico (shalôm, pace) a quello del mondo greco (chaire, salve), e mediante questa fusione di due diversi modi di salutare, Paolo esprime la pienezza dei doni messianici, che consistono nella grazia di Dio e nella pace personale e universale. Egli invoca questi doni anzitutto da parte di Dio Padre, e poi dal Signore Gesù Cristo: Dio è la fonte di ogni grazia che dispensa mediante suo Figlio.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!
Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Gv 1,29-34
L’evangelista Giovanni citava già la testimonianza di Giovanni il Battista nel prologo e in questo brano presenta Gesù come l’Agnello di Dio. Qui Gesù compare improvvisamente sulla scena infatti il brano inizia dicendo semplicemente: “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”
L’espressione usata dal Battista per indicare Gesù è piuttosto strana in quanto non è chiaro perché a Gesù gli dia l’appellativo di “agnello di Dio” e perchè questo titolo ha la funzione di togliere il peccato del mondo. Però se l’espressione la si confronta con il quarto carme del Servo del Signore (Is 52,13-2,12), dove sono riportate espressioni simili, si può comprendere la ragione. L’idea fondamentale del carme di Isaia è quella del giusto che, inviato da Dio a radunare gli israeliti dispersi in esilio a causa dei loro peccati, stabilisce con essi un rapporto profondo di solidarietà, condividendo e quindi prendendo in qualche modo su di sé, in un atteggiamento di fedeltà totale a Dio, i loro mali e le loro sofferenze, e così li riconcilia tra di loro e con Dio.
Le espressioni usate dal Battista però sembrerebbero diverse da quelle del carme perché egli parla di “agnello” e non di “servo”, di “togliere” e non di “addossarsi”, di “peccato del mondo” e non di “affanni e di dolori”. Ma al di là delle differenze è chiaro che c’è corrispondenza nei due testi: anche in Isaia il Servo è paragonato a un agnello (era come agnello condotto al macello(v. 7), il suo addossarsi le iniquità di molti per poterle eliminare (v. 11), e infine il termine “molti” (moltitudine) richiama il termine “mondo” usato da Giovanni. È anche pensabile che Gesù sia detto “Agnello di Dio” e non “Servo del Signore” per mettere simbolicamente la Sua persona in rapporto con l’agnello pasquale, il cui sacrificio ricordava la liberazione del popolo dall’Egitto. Questa per l’evangelista è stata portata a compimento esattamente mediante la morte di Gesù, con la quale si è attuata la liberazione definitiva dal peccato.
La testimonianza del Battista prosegue con queste parole: “Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele”.
Gesù dunque è l’uomo di cui egli aveva detto che, pur venendo dopo di Lui lo avrebbe preceduto, perché era prima di Lui. Giovanni afferma poi che non lo conosceva, non nel senso di una conoscenza umana, ma perché non sapeva che proprio Lui fosse l’atteso. Da quanto egli poi aggiunge sembra che tutta la sua opera di battezzatore non avesse altro scopo che quella di far sì che Gesù fosse rivelato in Israele.
Il Battista accenna poi a un’esperienza da lui stesso fatta: “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.“ È chiaro il riferimento al battesimo di Gesù come è narrato dai sinottici, con la differenza che in Marco e in Matteo è Gesù, e non il Battista, che vede lo Spirito, mentre Luca afferma che lo Spirito è disceso su di Lui “in forma corporea”, lasciando quindi intendere sia stato visto da tutti.
La discesa dello Spirito richiama alcuni importanti testi profetici, primo tra tutti l’investitura del Servo del Signore, che viene così descritta: “Ecco il mio servo che io sostengo,il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui;egli porterà il diritto alle nazioni.” (Is 42,1) C’è anche la consacrazione di una figura messianica e profetica descritta nel Terzo Isaia con queste parole: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,” (Is 61,1). La colomba infine era simbolo di Israele e il fatto che qui lo Spirito prenda questa forma richiama con tutta probabilità l’idea del raduno escatologico del popolo di Dio e il suo rinnovamento interiore,che avverrà appunto mediante lo Spirito (Ez 36,27).
Giovanni poi prosegue mettendo in luce il compito assegnato a Gesù: Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. Giovanni dunque battezza solo con acqua; Gesù invece battezzerà con lo Spirito. Egli potrà farlo appunto perché lo Spirito non solo si posa, ma anche “rimane” su di Lui: questa espressione non si trova nei sinottici ma si riferisce ad un altro testo profetico: Su di lui si poserà lo spirito del Signore,spirito di sapienza e di intelligenza,spirito di consiglio e di fortezza,spirito di conoscenza e di timore del Signore. (Is11,2) È questa presenza duratura dello Spirito che darà a Gesù la possibilità di “battezzare con lo Spirito Santo”. Qui c’è un riferimento al battesimo cristiano, e in generale all’opera della Spirito nella comunità cristiana. Il battesimo di Giovanni non ha dunque altro scopo che quello di mettere in luce colui che amministrerà il vero battesimo.Giovanni conclude la sua testimonianza in questo modo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Nei sinottici è il Padre stesso che nel battesimo presenta Gesù come Suo Figlio, invece nel vangelo di Giovanni questa proclamazione è riservata al Battista, il quale è venuto proprio per rendergli questa testimonianza.
La discesa dello Spirito viene presentata dal vangelo di Giovanni come l’aspetto fondamentale della missione di Gesù e ciò significa che la Sua opera di riconciliazione è l’espressione più piena della lotta che Dio stesso conduce contro la potenza del male.
Anche l’immagine del Battista appare diversa da quella presentata dai sinottici. In alcuni tratti della sua figura e della sua predicazione non appare più come il predicatore che chiama alla penitenza in vista del giudizio finale, ma semplicemente come colui che ha preparato la venuta di Cristo. Questo è ciò che costituisce la sua vera grandezza. I suoi dubbi circa la persona di Gesù, ricordati nei sinottici, non sono menzionati in questo vangelo, egli appare come l’araldo dotato di una fede analoga a quella dei primi cristiani, che manda i propri discepoli da Gesù non per chiedere spiegazioni, ma per offrire loro l’occasione di diventare Suoi discepoli.
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“Al centro del Vangelo di oggi c’è questa parola di Giovanni il Battista: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!». Una parola accompagnata dallo sguardo e dal gesto della mano che indicano Lui, Gesù.
Immaginiamo la scena. Siamo sulla riva del fiume Giordano. Giovanni sta battezzando; c’è tanta gente, uomini e donne di varie età, venuti lì, al fiume, per ricevere il battesimo dalle mani di quell’uomo che a molti ricordava Elia, il grande profeta che nove secoli prima aveva purificato gli israeliti dall’idolatria e li aveva ricondotti alla vera fede nel Dio dell’alleanza, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Giovanni predica che il regno dei cieli è vicino, che il Messia sta per manifestarsi e bisogna prepararsi, convertirsi e comportarsi con giustizia; e si mette a battezzare nel Giordano per dare al popolo un mezzo concreto di penitenza . Questa gente veniva per pentirsi dei propri peccati, per fare penitenza, per ricominciare la vita. Lui sa, Giovanni sa che il Messia, il Consacrato del Signore è ormai vicino, e il segno per riconoscerlo sarà che su di Lui si poserà lo Spirito Santo; infatti Lui porterà il vero battesimo, il battesimo nello Spirito Santo .
Ed ecco il momento arriva: Gesù si presenta sulla riva del fiume, in mezzo alla gente, ai peccatori – come tutti noi –.
E’ il suo primo atto pubblico, la prima cosa che fa quando lascia la casa di Nazaret, a trent’anni: scende in Giudea, va al Giordano e si fa battezzare da Giovanni. Sappiamo che cosa succede – lo abbiamo celebrato domenica scorsa –: su Gesù scende lo Spirito Santo in forma come di colomba e la voce del Padre lo proclama Figlio prediletto.
E’ il segno che Giovanni aspettava. E’ Lui! Gesù è il Messia. Giovanni è sconcertato, perché si è manifestato in un modo impensabile: in mezzo ai peccatori, battezzato come loro, anzi, per loro. Ma lo Spirito illumina Giovanni e gli fa capire che così si compie la giustizia di Dio, si compie il suo disegno di salvezza: Gesù è il Messia, il Re d’Israele, ma non con la potenza di questo mondo, bensì come Agnello di Dio, che prende su di sé e toglie il peccato del mondo.
Così Giovanni lo indica alla gente e ai suoi discepoli. Perché Giovanni aveva una numerosa cerchia di discepoli, che lo avevano scelto come guida spirituale, e proprio alcuni di loro diventeranno i primi discepoli di Gesù. Conosciamo bene i loro nomi: Simone, detto poi Pietro, suo fratello Andrea, Giacomo e suo fratello Giovanni. Tutti pescatori; tutti galilei, come Gesù.
Cari fratelli e sorelle, perché ci siamo soffermati a lungo su questa scena? Perché è decisiva! Non è un aneddoto.
E’ un fatto storico decisivo! Questa scena è decisiva per la nostra fede; ed è decisiva anche per la missione della Chiesa. La Chiesa, in ogni tempo, è chiamata a fare quello che fece Giovanni il Battista, indicare Gesù alla gente dicendo: «Ecco l’Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!». Lui è l’unico Salvatore! Lui è il Signore, umile, in mezzo ai peccatori, ma è Lui, Lui: non è un altro, potente, che viene; no, no, è Lui!
E queste sono le parole che noi sacerdoti ripetiamo ogni giorno, durante la Messa, quando presentiamo al popolo il pane e il vino diventati il Corpo e il Sangue di Cristo. Questo gesto liturgico rappresenta tutta la missione della Chiesa, la quale non annuncia sé stessa. Guai, guai quando la Chiesa annuncia se stessa; perde la bussola, non sa dove va! La Chiesa annuncia Cristo; non porta sé stessa, porta Cristo. Perché è Lui e solo Lui che salva il suo popolo dal peccato, lo libera e lo guida alla terra della vera libertà.
La Vergine Maria, Madre dell’Agnello di Dio, ci aiuti a credere in Lui e a seguirlo.”
Papa Francesco Angelus del 15 gennaio 2017