Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, hanno come filo conduttore il seme della parola di Dio – il suo potere e il terreno adatto per meglio accoglierla.
Nella prima lettura, Il profeta Isaia paragona la parola di Dio alla pioggia e la neve che scendono dal cielo per irrorare il terreno e non tornano a Lui senza aver compiuto loro missione. La parola uscita dalla bocca e dal cuore di Dio realizza sempre quello che annuncia.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo afferma che Gesù ha portato nel mondo la salvezza, non solo agli uomini , ma a tutta la creazione. Anch’essa perciò attende con ansia il compimento finale della salvezza.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù racconta la parabola del seminatore. Il seme è la parola di Dio che viene predicata con abbondanza, per poter raggiungere ogni tipo di terreno. Ci vogliono però delle particolari condizioni per poter far crescere questo seme e garantirne il frutto.
Dal libro del profeta Isaia
Così dice il Signore:
«Come la pioggia e la neve scendono dal cielo
e non vi ritornano senza avere irrigato la terra,
senza averla fecondata e fatta germogliare,
perché dia il seme a chi semina
e il pane a chi mangia,
così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca:
non ritornerà a me senza effetto,
senza aver operato ciò che desidero
e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata».
Is 55,10-11
Questo brano fa parte dei testi (capitoli 40-55) attribuiti ad un autore, rimasto anonimo, a cui è stato dato il nome di “Secondo Isaia ” o “deutero Isaia ”. Forse era un lontano discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia insieme agli esiliati che dalla sue profezie prendono speranza.
Era accaduto che a partire dal 550 a.C. un nuovo popolo, non semitico, i Persiani, sotto il comando del loro re, Ciro, (590-530 a.C.) in pochi anni sottomisero l’oriente e agli occhi dei popoli oppressi, deportati dai Babilonesi, Ciro sembrò come un liberatore. Da allora nella comunità degli Ebrei esiliati si videro apparire racconti, oracoli, canti che esaltavano l’opera di Dio nella storia del mondo. Era finito il tempo in cui dominavano gli idoli, il vero Dio, il solo Dio apparve loro il padrone degli avvenimenti che agiva per la liberazione e la salvezza del suo popolo.
Con la caduta di Babilonia nel 539, Ciro con un editto autorizzò gli Israeliti, nel 538 non solo di fare ritorno in patria, ma di ricostruire il tempio di Gerusalemme. In questo modo il sovrano ottenne anche il controllo dell'area fenicio-palestinese. Si pensò persino che Ciro fosse l’inviato del Signore, un messia, un uomo di Dio, che avrebbe realizzato ovunque la pace. Ma per quanto Ciro fosse una figura gloriosa della storia, l’inviato di Dio sarebbe arrivato secoli dopo sotto spoglie più umili, quelle di un Giusto, che espia nel dolore le colpe degli uomini.
In questo brano c’è un’unica frase che contiene un paragone tra ciò che avviene nella natura e l’attuazione della Parola divina: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia”
In questa descrizione, ricavata dall’esperienza agricola, quello su cui si fa leva è l’efficacia dell’acqua che, sotto forma di pioggia o di neve, non scende mai sulla terra senza fecondarla, facendole produrre il frumento che l’agricoltore utilizzerà sia come seme sia per la semina dell’anno successivo, sia per fare il pane che serve al nutrimento della sua famiglia.
“così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”.
La parola divina avrà dunque la stessa efficacia dell’acqua che scende sui campi: una volta che è pronunziata essa non può rimanere senza effetto, cioè senza attuare la volontà divina in essa formulata.
Si può notare che al delicato paragone della Parola con la pioggia ristoratrice, in Geremia (23,29) il paragone si sostituisce con il fuoco e il martello “La mia parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?” mentre nella lettera agli Ebrei (4,12) si ha una metafora ancora più forte “la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore.”
Salmo 64 Tu visiti la terra, Signore, e benedici i suoi germogli.
Tu visiti la terra e la disseti,
la ricolmi di ricchezze.
Il fiume di Dio è gonfio di acque;
tu prepari il frumento per gli uomini.
Così prepari la terra:
ne irrighi i solchi, ne spiani le zolle,
la bagni con le piogge
e benedici i suoi germogli.
Coroni l’anno con i tuoi benefici,
i tuoi solchi stillano abbondanza.
Stillano i pascoli del deserto
e le colline si cingono di esultanza.
I prati si coprono di greggi,
le valli si ammantano di messi:
gridano e cantano di gioia!
Il salmo è un inno di lode e di ringraziamento a Dio composto in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per l’annuale celebrazione della Pasqua Cf. Lv 23,5s). Il tempio è la meta di arrivo: “Ci sazieremo dei beni della tua casa, delle cose sacre del tuo tempio”.
Il salmo ha un grande respiro universalistico presentando Dio non solo quale salvezza di Israele, ma quale fiducia di tutte le genti, poiché gli uomini tendono nella preghiera al “Dio ignoto” (At 17,23), di cui ne colgono l'esistenza e la bontà: “Fiducia degli estremi confini della terra e dei mari lontani”. “I mari lontani” non sono solo distese di acqua, ma sono mari con isole (Cf. Ps 96,1).
Il salmista conosce il valore di incontro con Dio che il tempio offre, perciò prova una santa invidia per coloro che hanno un’opportunità costante di frequentarlo; cioè coloro che sono diventati gli abitanti di Gerusalemme: “Beato chi hai scelto perché ti stia vicino: abiterà nei tuoi atri”. Il tempio è quello eretto da Salomone poiché il salmo dice come Dio abbia fermato e fermi il tumulto dei popoli: è tempo di pace, di libertà, il momento del massimo splendore di Israele. Dio è in pace col suo popolo: “Tu visiti la terra e la disseti, la ricolmi di ricchezze. Il fiume di Dio è gonfio di acque; tu prepari il frumento per gli uomini”. “Il fiume di Dio” è, con immagine poetica, il calare dell’acqua dal cielo; è la pioggia (Cf. Ps 103,3).
Questo salmo noi lo recitiamo in Cristo, così la casa del Signore è la chiesa dove è presente l’Eucaristia. Ed è beato chi ha lasciato tutto per seguire più da vicino il Signore poiché può “abitare nei suoi atrii”.
“In Sion”, nelle chiese, deve sempre innalzarsi la lode e i ringraziamento per la salvezza ricevuta in Cristo, per la sua presenza sull’altare. I voti, che uno puo’ aver fatto, di maggior partecipazione alla vita ecclesiale, apostolica, trovano il momento del loro scioglimento, o meglio la forza per essere adempiuti, nella partecipazione viva all’Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.
Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Rm 8,18-23
Paolo, continuando la sua lettera ai Romani, dopo aver mostrato nella parte precedente come la giustificazione mediante la fede, abbia aperto la strada a una vita nuova, ora sviluppa alcune intuizioni, che aveva già anticipato precedentemente, mostrando anzitutto come sia ormai lo Spirito a guidare l’uomo giustificato. Qui afferma che : “le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi.“
L’apostolo in un’altra lettera aveva osservato che ”il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria (2Cor 4,17). Qui sottolinea che le sofferenze a cui i credenti sono sottoposti nella vita terrena non sono nulla di fronte alla gloria che Dio ha riservato per loro. Naturalmente questa gloria, che un giorno sarà rivelata in essi da Dio, appartiene a loro già fin d’ora, ma in modo ancora nascosto agli occhi della gente.
“La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità – non per sua volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta – nella speranza che anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.”
L’apostolo intravede quindi per tutte le creature non solo la liberazione dal peccato al quale sono state sottomesse, ma una vera e propria trasformazione, che le metterà in sintonia con la nuova condizione dei redenti. La liberazione delle creature infatti è orientata verso la “libertà della gloria” (che sarà propria) “dei figli di Dio”. Paolo qui sembra che pensi a un nuovo Eden nel quale l’universo, completamente rinnovato, sarà in piena sintonia con l’uomo glorificato.
“Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi.”
L’attesa del creato viene paragonata da Paolo a quella di una donna incinta che geme e soffre le doglie del parto “fino ad oggi” Si tratta quindi di un’attesa molto lunga, che è già cominciata nel momento della prima caduta.
“Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”.
Insieme alla creazione anche noi credenti “gemiamo interiormente “(in noi stessi), aspettando ancora “l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo”. In altre parole noi possiedono già lo Spirito, ma in modo ancora parziale e provvisorio, e attendiamo con impazienza ciò che si manifesterà in tutte le sue potenzialità (V. 1Gv 3,2) mediante la risurrezione dei corpi.
Nei successivi vv. 24-25 (non riportati nel brano liturgico), Paolo conclude che anche i credenti, come tutto il creato, sono stati salvati “nella speranza”. Il concetto stesso di speranza esige che quanto si spera non sia ancora visto, perché in questo caso non sarebbe più oggetto di speranza. Ma proprio perché si spera in ciò che non si vede, si è capaci di attenderlo con pazienza, cioè senza venir meno di fronte alle prove della vita.
Dal vangelo secondo Matteo
Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. Egli parlò loro di molte cose con parabole.
E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Mt 13, 1-23
L’Evangelista Matteo ci riporta in questo brano la prima di una serie di parabole raccolte in un intero capitolo e tutte queste parabole hanno come tema il mistero del regno dei cieli. Quasi tutte si ispirano al tema del seme, della semina e della mietitura. Un'altra caratteristica di questo capitolo è che per le prime due parabole (quella del seminatore e quella della zizzania) vi è una netta separazione tra i discepoli e le folle: le parabole sono per le folle ma la loro spiegazione è riservata unicamente ai discepoli. Le ultime cinque parabole invece non hanno alcuna spiegazione.
Il brano inizia riportando che Gesù uscì di casa, in cui aveva ricevuto poco prima la visita di sua madre e dei suoi fratelli, e si reca presso il lago di Genesaret, o lago di Tiberiade. e sedette in riva al mare.
E' la prima volta che Matteo parla in modo chiaro della casa abitata da Gesù (si tratta in effetti della casa di Pietro a Cafarnao). Tutto questo capitolo si muove tra la casa e il mare. Gesù, uscito dalla casa si siede lungo il mare, si siede per insegnare come un Rabbi. Ma il discorso che egli fa, non è un insegnamento tipico, ma piuttosto un annuncio, una predicazione.
“Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia”.Dalla spiaggia Gesù si trasferisce sulla barca, dalla quale poteva essere ascoltato e visto meglio dalla folla che si era radunata.
“Egli parlò loro di molte cose con parabole.” Con il termine "molte cose" si può anche intendere che parlò loro a lungo. La parabola indica normalmente un paragone, una similitudine, qualche volta un po' enigmatica, con la realtà naturale o sociale, che serve ad illustrare in modo velato, un po' misterioso, una realtà che non è dell'ordine naturale, come appunto il regno di Dio.
“E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare”.
Nonostante lo spreco e l'insuccesso possiamo constatare che questo seminatore riesce comunque a ottenere un raccolto straordinario. Non viene spiegato chi sia, ma la circostanza lascia facilmente pensare che Gesù stia parlando proprio di se stesso, è Lui che semina la "parola del regno". In un certo senso è una parabola in via di realizzazione e si può dire dire che Gesù spiega quello che succede nel momento stesso in cui sta parlando.
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”.
Ci può sembrare un po’ strano questo modo di seminare, ma è da tener presente che in Palestina la semina precede l'aratura: si poteva seminare un po' dovunque, tanto poi si sarebbe passati con l'aratro! Ma la parabola però non parla di nessuna aratura! Gli elementi ricordati nella parabola sono tipici dell'agricoltura palestinese: il terreno è sempre più sassoso del nostro, le spine servivano da siepi di recinzione, i sentieri dei campi venivano arati. Però non ci si può fermare troppo ai particolari della parabola, ciò che conta è il suo significato E’ evidente anche che una spiga che produce cento grani è una vera e propria esagerazione.
“Chi ha orecchi, ascolti”.
Ossia chi ha orecchi, cioè capacità di comprendere attentamente, si metta in ascolto e cerchi di capire!
“Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato”.
Qui come si è visto precedentemente (Mt 12,46-50), vi è una distinzione tra le folle e i discepoli. Alle folle Gesù parla in parabole, mentre ai discepoli, in disparte, spiega i misteri del regno dei cieli.
Il termine ”misteri” non si trova nei vangeli, eccetto che in questa occasione e qui sta a significare ‘segreto', qualcosa che viene svelato ad alcuni e che essi possono rivelare ad altri. Per Matteo invece vi sono più "segreti" legati al regno: il regno è fatto di un insieme di cose misteriose e umanamente inspiegabili.
“Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha”.
Uno di questi segreti è il fatto che ad alcuni sia dato conoscere e ad altri invece sia negato: agli uni il regno si rivela, agli altri invece si nasconde. “A chi ha sarà dato..." è un principio tratto dalla vita economica: il capitale dell'uomo ricco produce interessi, mentre il povero che non ha da investire, impoverisce sempre di più. Le parabole hanno precisamente questo doppio effetto: aggiungono e tolgono. Più uno già sa, più è in grado di aggiungere conoscenze al suo sapere.
“Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”.
Nelle folle c’è già di per sé una certa incomprensione e non è originata dal linguaggio parabolico di Gesù, che non fa altro che renderla più evidente. Comunque sia dobbiamo ammettere che c’è un paradosso in questa affermazione.
“Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice: “Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.
Il testo di Isaia, che è uno dei più citati nel Nuovo Testamento, serve a spiegare l'insuccesso della predicazione di Gesù, come già quella di Isaia stesso: non si tratta di un giudizio di condanna.
“Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!” Dopo le enigmatiche parole di Isaia, Matteo riporta delle parole di approvazione rivolte da Gesù ai suoi discepoli. La comprensione è un dono gratuito, tanti uomini giusti del passato non hanno potuto vedere e ascoltare quello che invece oggi i discepoli possono vedere e udire.
“Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore”.
Voi dunque che potete capire e non avete il cuore indurito, ascoltate la spiegazione della parabola. Essa viene chiamata la parabola del seminatore, ma la si può chiamare anche "dei quattro terreni".
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada”
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada
I quattro tipi di terreni possono corrispondere a diverse persone oppure sempre alla stessa persona in momenti diversi della propria vita. Il primo terreno corrisponde alla semente gettata lungo la strada e su questo terreno il seme non ha neppure il tempo di germogliare perché arriva il Maligno . Il termine “maligno", è un’espressione tipica di Matteo e Giovanni, che si collega all’impulso cattivo che lotta con quello buono nel cuore dell'uomo.
“Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno”.
Il secondo terreno corrisponde al seme gettato sui terreni pietrosi, che lasciano spuntare solo qualche germoglio debole, rivelano gli incostanti, i fragili, i deboli, che nel momento della prova non sono in grado di superarla.
“Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto”
Il terzo terreno è quello infestato da spine, che sono l’emblema dei superficiali, degli instabili legati ai miti del facile benessere e dell’orgoglio.
“Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno”
Il quarto terreno è quello che dà frutto, ma in proporzioni diverse (cento, sessanta, trenta). Uno studioso ha paragonato questi tre rendimenti con l'osservanza del triplice comandamento che gli ebrei ripetevano ogni giorno nella loro preghiera quotidiana: “Ascolta Israele, amerai il Signore con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza”. Nella comune interpretazione rabbinica "con tutta l'anima" significa "perfino se egli ti strappa l'anima", cioè fino al martirio; mentre "con tutta la forza" significa "con tutte le tue ricchezze“.
Quelli che producono il cento sono coloro che hanno un cuore talmente obbediente da sacrificare non solo la loro proprietà , ma anche la cosa più preziosa di tutte, la loro vita, cioè i martiri.
Quelli che producono il sessanta hanno un cuore obbediente e danno via i loro averi, ma non si trovano nell'occasione di dare le loro vite a causa della parola.
Quelli che producono il trenta hanno pure un cuore obbediente e indiviso, ma non si trovano nell'occasione di offrire, per amore di Dio, né la loro vita né la loro proprietà.
Gesù, spiegando la parabola ai suoi discepoli non dice chi sia il seminatore, ma chiarisce solo come l’accoglienza della sua “Parola” (il seme) possa cambiare il cuore di chi l’ascolta. È il cuore il luogo dove viene accettata o rifiutata la salvezza, che dipende solo dalla libera responsabilità umana. Auguriamoci di essere terreni fertili e fruttuosi per la parola di Dio che riceviamo così saremo tra coloro che il Signore Gesù ha detto: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano”.
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“Gesù, quando parlava, usava un linguaggio semplice e si serviva anche di immagini, che erano esempi tratti dalla vita quotidiana, in modo da poter essere compreso facilmente da tutti. Per questo lo ascoltavano volentieri e apprezzavano il suo messaggio che arrivava dritto nel loro cuore; e non era quel linguaggio complicato da comprendere, quello che usavano i dottori della Legge del tempo, che non si capiva bene ma che era pieno di rigidità e allontanava la gente. E con questo linguaggio Gesù faceva capire il mistero del Regno di Dio; non era una teologia complicata. E un esempio è quello che oggi porta il Vangelo: la parabola del seminatore.
Il seminatore è Gesù. Notiamo che, con questa immagine, Egli si presenta come uno che non si impone, ma si propone; non ci attira conquistandoci, ma donandosi: butta il seme. Egli sparge con pazienza e generosità la sua Parola, che non è una gabbia o una trappola, ma un seme che può portare frutto. E come può portare frutto? Se noi lo accogliamo.
Perciò la parabola riguarda soprattutto noi: parla infatti del terreno più che del seminatore. Gesù effettua, per così dire, una “radiografia spirituale” del nostro cuore, che è il terreno sul quale cade il seme della Parola. Il nostro cuore, come un terreno, può essere buono e allora la Parola porta frutto – e tanto – ma può essere anche duro, impermeabile. Ciò avviene quando sentiamo la Parola, ma essa ci rimbalza addosso, proprio come su una strada: non entra.
Tra il terreno buono e la strada, l’asfalto – se noi buttiamo un seme sui “sanpietrini” non cresce niente – ci sono però due terreni intermedi che, in diverse misure, possiamo avere in noi. Il primo, dice Gesù, è quello sassoso. Proviamo a immaginarlo: un terreno sassoso è un terreno «dove non c’è molta terra» , per cui il seme germoglia, ma non riesce a mettere radici profonde. Così è il cuore superficiale, che accoglie il Signore, vuole pregare, amare e testimoniare, ma non persevera, si stanca e non “decolla” mai. È un cuore senza spessore, dove i sassi della pigrizia prevalgono sulla terra buona, dove l’amore è incostante e passeggero. Ma chi accoglie il Signore solo quando gli va, non porta frutto.
C’è poi l’ultimo terreno, quello spinoso, pieno di rovi che soffocano le piante buone. Che cosa rappresentano questi rovi? «La preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza», così dice Gesù, esplicitamente. I rovi sono i vizi che fanno a pugni con Dio, che ne soffocano la presenza: anzitutto gli idoli della ricchezza mondana, il vivere avidamente, per sé stessi, per l’avere e per il potere. Se coltiviamo questi rovi, soffochiamo la crescita di Dio in noi. Ciascuno può riconoscere i suoi piccoli o grandi rovi, i vizi che abitano nel suo cuore, quegli arbusti più o meno radicati che non piacciono a Dio e impediscono di avere il cuore pulito. Occorre strapparli via, altrimenti la Parola non porterà frutto, il seme non si svilupperà.
Cari fratelli e sorelle, Gesù ci invita oggi a guardarci dentro: a ringraziare per il nostro terreno buono e a lavorare sui terreni non ancora buoni. Chiediamoci se il nostro cuore è aperto ad accogliere con fede il seme della Parola di Dio. Chiediamoci se i nostri sassi della pigrizia sono ancora numerosi e grandi; individuiamo e chiamiamo per nome i rovi dei vizi. Troviamo il coraggio di fare una bella bonifica del terreno, una bella bonifica del nostro cuore, portando al Signore nella Confessione e nella preghiera i nostri sassi e i nostri rovi. Così facendo, Gesù, buon seminatore, sarà felice di compiere un lavoro aggiuntivo: purificare il nostro cuore, togliendo i sassi e le spine che soffocano la Parola.
La Madre di Dio, che oggi ricordiamo col titolo di Beata Vergine del monte Carmelo, insuperabile nell’accogliere la Parola di Dio e nel metterla in pratica (cfr Lc 8,21), ci aiuti a purificare il cuore e a custodirvi la presenza del Signore.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 16 luglio 2017
Le letture che la liturgia di questa domenica ci presenta, si può dire che sono un concentrato di paradossi e il paradosso più grande lo incontriamo
nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Zaccaria, in cui il re messianico appare in atteggiamento mite ed umile, evidenziato dal fatto che cavalca un asinello e non un cavallo da guerra. Egli è re di pace che spezza i simboli e gli strumenti di guerra. E’ il paradosso di un re umile eppure dominatore del mondo.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera ai Romani, San Paolo sottolinea come la libertà ottenuta in Cristo fa sì che il principio di azione dominante in noi non sia più il peccato, ma lo spirito che dà vita.
Nel Vangelo di Matteo, Gesù benedice e ringrazia il Padre che ha scelto di rivelare ai piccoli e agli umili i segreti dei suo cuore, mentre li ha tenuti nascosti ai sapienti e agli intelligenti. Poi fa un invito che è un vero e proprio programma di vita per ogni cristiano: Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Gesù chiama alla sua libertà, ad un incondizionato attaccamento a lui, al suo giogo, che è il solo a poter rendere tutto leggero, perché si presenta umile davanti a Dio e mite con gli uomini.
Dal libro del profeta Zaccaria
Così dice il Signore:
«Esulta grandemente, figlia di Sion,
giubila, figlia di Gerusalemme!
Ecco, a te viene il tuo re.
Egli è giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.
Farà sparire il carro da guerra da Èfraim
e il cavallo da Gerusalemme,
l’arco di guerra sarà spezzato,
annuncerà la pace alle nazioni,
il suo dominio sarà da mare a mare
e dal Fiume fino ai confini della terra».
Za 9, 9-10
Il profeta Zaccaria, vissuto intorno al 500 a.C., undicesimo dei 12 profeti minori, i cui scritti chiudono l'Antico Testamento, si impegnò a sostenere con la parola di Dio gli Israeliti, rientrati a Gerusalemme dopo l'esilio di Babilonia, delusi per la mancanza di segni della benedizione divina per le dure prove sostenute. Il libro, che porta il suo nome, si divide in due sezioni, di cui solo la prima (cc. 1-8) raccoglie gli oracoli di questo profeta.
La seconda sezione (cc. 9-14), diversa dalla prima per stile e contenuto, attribuita ad un autore anonimo del tempo di Alessandro Magno, a sua volta si divide in tre parti: nella prima parte si annunzia la venuta del regno di Dio, che coincide con il raduno dei giudei dispersi e con la caduta dei regni di questo mondo (9,1-11,3); nella seconda (cc.11,4-14,21) si parla della liberazione di Gerusalemme mediante la sofferenza dei suoi rappresentanti, il buon pastore (cc-11,4-16; 13,7-9) e colui che è stato trafitto (cc.12,10-14); nella terza infine si annunzia che JHWH combatterà contro le nazioni e stabilirà su tutto il mondo la sua regalità (cc.14,1-21).
Il brano che abbiamo si apre con un invito alla gioia: “Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme!” rivolto agli abitanti di Gerusalemme. L’espressione “figlia di Sion” come la successiva “figlia di Gerusalemme” è un semitismo per indicare gli appartenenti alla collina di Sion, cioè gli abitanti di Gerusalemme.
Il motivo del giubilo viene indicato subito dopo con questa espressione: “Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina”.
La particella “Ecco” indica che l’evento di cui si sta per parlare è imminente e l’espressione “a te viene il tuo re” indica che l’evento in questione è la venuta a Gerusalemme del Messia. Il Messia non sarà solo giusto, ma anche “vittorioso” ed umile. Egli “cavalca un asino”: mentre guerrieri forti e valorosi manifestano la loro dignità servendosi di cavalli, egli mostra la sua umiltà e mitezza cavalcando un asinello!
A questo re, che entra trionfalmente in Gerusalemme, vengono attribuite due azioni: prima di tutto egli “Farà sparire il carro da guerra da Èfraim e il cavallo da Gerusalemme”. Il nome Efraim è quello di uno dei due figli di Giuseppe e indica la tribù maggioritaria del Nord e quindi tutto il regno di Israele in contrasto con il regno di Giuda, indicato con il nome della sua capitale, Gerusalemme.
Sia in Israele che in Giuda egli farà dunque sparire tutti gli strumenti di guerra. Ciò significa che nell’era messianica non vi sarà più divisione fra il regno di Israele e quello di Giuda e il re messianico regnerà quindi su tutto Israele. . Oltre a far scomparire carri da guerra e cavalli, il re spezzerà per sempre l’arco, l’arma ordinaria in dotazione all’esercito di Israele.
Questo Messia dunque eliminerà la guerra per sempre! Si afferma ancora che il Messia “annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra”.
La missione principale del Messia sarà quella di proclamare la pacificazione fra i popoli, come già avevano annunziato Isaia (Is 11,6) e Osea (Os 2,20). La sua missione pacificatrice si estenderà da un mare, il Mediterraneo, a un altro mare, il golfo Persico, e dal fiume, il Nilo, sino ai confini della terra: tutte e quattro le indicazioni geografiche, che ritornano anche nel Salmo 72,8, indicano simbolicamente l’universalità del regno messianico.
In questo brano si preannunzia in calde note la venuta del “Re Messia“ che è presentato come una persona giusta e mite. Ciò che lo caratterizza non è tanto la vittoria sui nemici, quanto piuttosto la capacità di dare una salvezza che consiste, non nel reprimere la violenza con la violenza, ma nel creare rapporti nuovi tra le nazioni e gli individui. Di conseguenza la pace che egli porta, elimina alla radice la possibilità stessa di nuove violenze. Mediante la sua umiltà, e non violenza, il Messia descritto da Zaccaria manifesta la vera immagine di Dio, che attua la Sua salvezza non mediante il ricorso a minacce e castighi, ma toccando il cuore delle persone.
Salmo 144 - Benedirò il tuo nome per sempre, Signore.
O Dio, mio re, voglio esaltarti
e benedire il tuo nome in eterno e per sempre.
Ti voglio benedire ogni giorno,
lodare il tuo nome in eterno e per sempre.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Buono è il Signore verso tutti,
la sua tenerezza si espande su tutte le creature.
Ti lodino, Signore, tutte le tue opere
e ti benedicano i tuoi fedeli.
Dicano la gloria del tuo regno
e parlino della tua potenza.
Molti sono i frammenti di altri salmi che entrano in questa composizione, che tuttavia risulta bellissima nella sua forma alfabetica e ricca di stimoli alla fede, alla speranza, alla pietà, alla lode.
Il salmo è uno dei più recenti del salterio, databile nel III o II secolo a.C. .Esso inizia rivolgendosi a Dio quale re:
“O Dio, mio re, voglio esaltarti (...) in eterno e per sempre”. “In eterno e per sempre”, indica in modo incessante e continuativo nel tempo. Segue uno sguardo su come la trasmissione, di generazione in generazione, delle opere di Dio non sia sentita solo come fatto prescritto (Cf. Es 13,14), ma come gioia di comunicazione, poiché le opere di Dio sono affascinanti: “Il glorioso splendore della tua maestà e le tue meraviglie voglio meditare. Parlino della tua terribile potenza: anch’io voglio raccontare la tua grandezza. Diffondano il ricordo della tua bontà immensa, acclamino la tua giustizia".
Il salmista fa un attimo di riflessione sulla misericordia di Dio, riconoscendo la sua pazienza verso il suo popolo. E' il momento dell'umiltà. La lode non può essere disgiunta dall'umile consapevolezza di essere peccatori: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature“. “Su tutte le creature”, cioè su tutti gli uomini, e pure sugli animali (Cf. Ps 35,7; 103,21).
Il salmista desidera che tutte le opere di Dio diventino lode a Dio sul labbro dei fedeli: “Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno...”. “Tutte le tue opere”, anche quelle inanimate (Cf. Ps 148). Il significato profondo di questo invito cosmico sta nel fatto che, il salmista vede le creature come bloccate da una cappa buia posta dalle divinizzazioni pagane. Il salmista desidera che esse siano libere da quella cappa, che nega loro la glorificazione del Creatore.
La lode a Dio sul labbro dei fedeli diventa annuncio a tutti gli uomini: “Per far conoscere agli uomini le tue imprese e la splendida gloria del tuo regno”. “Il regno” (malkut) è Israele e le “imprese” sono quelle della liberazione dall'Egitto, ecc. Terminata la successione monarchica dopo la deportazione a Babilonia, Israele, pur senza scartare minimamente la tensione verso il futuro re, il Messia, si collegò alla tradizione premonarchica dove il re era unicamente Dio. Nel libro dell'Esodo si parla di Israele come regno (19,6): “Un regno di sacerdoti e una nazione santa”. Israele come regno di Dio si manifesta in modo evidente mediante l'osservanza della legge data sul Sinai; ma Israele non è solo suddito di Dio, ma anche figlio (Cf. Es 4,22).
Il salmista continua a celebrare la bontà di Dio verso gli uomini: “Giusto è il Signore in tutte le sue vie (...). Il Signore custodisce tutti quelli che lo amano, ma distrugge tutti i malvagi”.
Il salmista termina la sua composizione esortandosi alla lode a Dio e invitando, in una visione universale, “ogni vivente” a benedirlo: “Canti la mia bocca la lode del Signore e benedica ogni vivente il suo santo nome, in eterno e per sempre”. “Ogni vivente”; anche gli animali, le piante - ovviamente a loro modo - celebrano la gloria di Dio (Cf. Ps 148,9-10).
Il cristiano nella potenza dello Spirito Santo annuncia le grandi opere del Signore (At 2,11), che sono quelle relative a Cristo: la salvezza, la liberazione dal peccato, ben più alta e profonda di quella dall'Egitto; il regno di Dio posto nel cuore dell'uomo e tra gli uomini in Cristo, nel dono dello Spirito Santo; i cieli aperti, il dono dei sacramenti, massimamente l'Eucaristia.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete.
Rm 8, 9. 11-13
Continuando la sua lettera ai Romani, Paolo affronta il tema della vita nuova che si apre a colui che è diventato giusto mediante la fede. A tal fine egli riprende e rielabora alcune delle intuizioni che aveva già anticipato precedentemente.
In questo brano invita i Romani allora, e anche noi oggi, a considerare fino in fondo la nuova situazione in cui si trovano: “voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene”. Lo Spirito di Dio quindi non è altro che lo Spirito di Cristo, perciò proprio in forza dello Spirito che è in loro appartengono a Cristo.
Poi prosegue: “E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi”. In altre parole lo stesso Spirito, mediante il quale Dio ha risuscitato Gesù dai morti, darà una nuova vita anche a coloro nei quali, in forza della giustificazione, è venuto ad abitare.
L’apostolo poi conclude il suo pensiero: “Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”
Egli ricorda così che, se si vive secondo la carne,(ossia secondo la mentalità del mondo) si andrà incontro alla morte; ma se con l’aiuto dello Spirito si fanno morire le opere del mondo, si vivrà.
Lo Spirito dà dunque la vera vita all’uomo, in quanto gli permette di liberarsi dai condizionamenti della carne (ossia del mondo) cioè di evitare il peccato che porta inevitabilmente alla morte.
Questa tesi, affermata con grande forza da Paolo contro tutte le accuse che gli venivano fatte dai suoi avversari, mette chiaramente in luce la dignità della persona umana.
All’uomo, in quanto creatura dotata di ragione e di libertà, non conviene un agire imposto da una legge esterna, da una legge dettata da un relativismo sempre più pressante. L’uomo deve poter agire per una spinta interiore, che lo orienti al bene pur lasciandolo libero di fare le sue scelte. Lo Spirito svolge questo compito, in quando rendendo viva l’esperienza di Cristo nel suo cuore, può muovere l’uomo dall’interno e al tempo stesso garantisce la sua libertà.
Lo Spirito dunque è una forza piena di dinamismo, che fa tendere alla piena partecipazione alla vita di Cristo, alla resurrezione, dato che la risurrezione di Cristo è strettamente legata alla nostra. Ma questa realtà , che è operata in noi dallo dono dello Spirito, rimane sempre una nostra scelta libera che si ripropone ogni giorno.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Mt 11, 25-30
Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte della “sezione narrativa” che si era aperta con le domande fatte a Gesù da parte di due discepoli di Giovanni il Battista, poi c’è l’elogio che Gesù fa del Battista a cui segue un giudizio di Gesù sul Battista: “… tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista…” ; .
L’inno che Gesù proclama in questo brano è stato definito “una gemma giovannea” incastonata nel Vangelo di Matteo. Lo stile solenne, la tonalità intensa, la ricchezza teologica accostano infatti questa “benedizione” alla grandiosa preghiera sacerdotale con cui Gesù chiude nel Vangelo di Giovanni il testamento dedicato ai suoi discepoli nell’ultima sera della Sua vita terrena.
Per comprendere meglio questo inno è importante capire in quale contesto è stato pronunciato.
Nel paragrafo precedente Matteo ha descritto il rifiuto che Gesù subisce da parte delle autorità delle città di Tiberiade, Corazin, Betsàida., Cafarnao, indifferenti alla Sua parola e alla Sua azione.
Gesù qui dichiara “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.”
Gesù ringrazia il Padre perché dal mistero del regno di Dio, cioè dal progetto di salvezza che Dio sta attuando attraverso di Lui, Suo figlio, è caduto il velo, e gli occhi non altezzosi, non pieni di sé dei poveri e degli umili, possono contemplare il “Signore del cielo e della terra”. I sapienti, gli intelligenti orgogliosi hanno invece occhi spenti, offuscati dai loro pregiudizi, che vedono in Gesù solo un modesto predicatore di Nazareth, figlio di un carpentiere, degno solo di ironia.
Poi Gesù fa l’invito consolante: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”.
Gesù così invita tutti coloro che si sentono affaticati e gravati dalle prescrizioni giudaiche, a mettersi alla sua sequela, E’ interessante notare che l’immagine del “giogo” era usata nella tradizione giudaica per indicare la Legge e le sue esigenze, imposte dal Signore ad Israele. Gesù ripropone questo simbolo ma lo spoglia del suo aspetto di imposizione e lo presenta con una dimensione più “dolce” , ma non per questo meno esigente. Infatti la totalità degli molteplici impegni della religione e della morale è sintetizzata in un unico totalizzante impegno, il “giogo” dell’amore.
La relazione con Dio non è più regolata da un freddo dovere o dalla paura del giudizio, è invece fondata sull’amore filiale e spontaneo ed è per questo molto più esigente e piena . La comunità dei “piccoli” che ha scoperto i misteri del Regno deve allora avviarsi su questa strada di luce e come dice il profeta Geremia, “strada buona e prendendola troveremo pace per le nostre anime”.Ger 6,16
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“Nel Vangelo di oggi Gesù dice: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro»
Il Signore non riserva questa frase a qualcuno dei suoi amici, no, la rivolge a “tutti” coloro che sono stanchi e oppressi dalla vita. E chi può sentirsi escluso da questo invito? Il Signore sa quanto la vita può essere pesante. Sa che molte cose affaticano il cuore: delusioni e ferite del passato, pesi da portare e torti da sopportare nel presente, incertezze e preoccupazioni per il futuro.
Di fronte a tutto questo, la prima parola di Gesù è un invito, un invito a muoversi e reagire: “Venite”. Lo sbaglio, quando le cose vanno male, è restare dove si è, coricato lì. Sembra evidente, ma quanto è difficile reagire e aprirsi! Non è facile. Nei momenti bui viene naturale stare con se stessi, rimuginare su quanto è ingiusta la vita, su quanto sono ingrati gli altri e com’è cattivo il mondo, e così via. Tutti lo sappiamo. Alcune volte abbiamo subito questa brutta esperienza. Ma così, chiusi dentro di noi, vediamo tutto nero. Allora si arriva persino a familiarizzare con la tristezza, che diventa di casa: quella tristezza ci prostra, è una cosa brutta questa tristezza. Gesù invece vuole tirarci fuori da queste “sabbie mobili” e perciò dice a ciascuno: “Vieni!” – “Chi?” - “Tu, tu, tu…”. La via di uscita è nella relazione, nel tendere la mano e nell’alzare lo sguardo verso chi ci ama davvero.
Infatti uscire da sé non basta, bisogna sapere dove andare. Perché tante mete sono illusorie: promettono ristoro e distraggono solo un poco, assicurano pace e danno divertimento, lasciando poi nella solitudine di prima, sono “fuochi d’artificio”. Per questo Gesù indica dove andare: “Venite a me”. E tante volte, di fronte a un peso della vita o a una situazione che ci addolora, proviamo a parlarne con qualcuno che ci ascolti, con un amico, con un esperto… È un gran bene fare questo, ma non dimentichiamo Gesù! Non dimentichiamo di aprirci a Lui e di raccontargli la vita, di affidargli le persone e le situazioni. Forse ci sono delle “zone” della nostra vita che mai abbiamo aperto a Lui e che sono rimaste oscure, perché non hanno mai visto la luce del Signore. Ognuno di noi ha la propria storia. E se qualcuno ha questa zona oscura, cercate Gesù, andate da un missionario della misericordia, andate da un prete, andate… Ma andate a Gesù, e raccontate questo a Gesù. Oggi Egli dice a ciascuno: “Coraggio, non arrenderti ai pesi della vita, non chiuderti di fronte alle paure e ai peccati, ma vieni a me!”.
Egli ci aspetta, ci aspetta sempre, non per risolverci magicamente i problemi, ma per renderci forti nei nostri problemi. Gesù non ci leva i pesi dalla vita, ma l’angoscia dal cuore; non ci toglie la croce, ma la porta con noi. E con Lui ogni peso diventa leggero, perché Lui è il ristoro che cerchiamo.
Quando nella vita entra Gesù, arriva la pace, quella che rimane anche nelle prove, nelle sofferenze.
Andiamo a Gesù, diamogli il nostro tempo, incontriamolo ogni giorno nella preghiera, in un dialogo fiducioso, personale; familiarizziamo con la sua Parola, riscopriamo senza paura il suo perdono, sfamiamoci del suo Pane di vita: ci sentiremo amati, ci sentiremo consolati da Lui.È Lui stesso che ce lo chiede, quasi insistendo. Lo ripete ancora alla fine del Vangelo di oggi: «Imparate da me […] e troverete ristoro per la vostra vita». E così, impariamo ad andare da Gesù e, mentre nei mesi estivi cercheremo un po’ di riposo da ciò che affatica il corpo, non dimentichiamo di trovare il ristoro vero nel Signore.
Ci aiuti in questo la Vergine Maria nostra Madre, che sempre si prende cura di noi quando siamo stanchi e oppressi e ci accompagna da Gesù. ..”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 9 luglio 2017
1. Da domenica 28 giugno e la Solennità dei Santi Pietro e Paolo entra in vigore l’orario estivo delle S. Messe festive alle ore 9.00 – 11.00 e 18.30.
La S. Messa di domenica alle 18.30 è la veglia della Solennità dei Santi Pietro e Paolo.
Da martedì 30 giugno le S. Messe nei giorni feriali si celebrano alle ore 8.00 e alle ore 18.30.
2. Alla fine di ogni celebrazione i fedeli possono lasciare l’offerta della questua nelle bussole in fondo alla chiesa. Grazie.
Con nota del 17 giugno u.s. dell’E.V. sono state rappresentate una serie di questioni relative al possibile superamento di alcune delle disposizioni contenute nel Protocollo in oggetto.
In particolare, sono state avanzate le richieste in ordine al “derogare all’obbligo dei guanti al momento della distribuzione della Comunione” ed alla “obbligatorietà della mascherina, riguardo alla celebrazione dei matrimoni” per gli sposi.
A seguito della richiesta pervenuta da parte della E.V., questo Dipartimento ha quindi sottoposto all’attenzione del CTS i quesiti sopra citati.
Nella riunione del 23 giugno u.s., il Comitato ha preso in esame la questione e nello stralcio del verbale n. 91, che ad ogni buon fine si allega, viene rappresentato quanto segue:
“Anche sulla base degli attuali indici epidemiologici, il CTS raccomanda che l’officiante, al termine della fase relativa alla consacrazione delle ostie, dopo aver partecipato l’Eucarestia ma prima della distribuzione delle ostie consacrate ai fedeli, proceda ad una scrupolosa detersione delle proprie mani con soluzioni idroalcoliche. Il CTS raccomanda altresì che, in assenza di dispositivi di distribuzione, le ostie dovranno essere depositate nelle mani dei fedeli evitando qualsiasi contatto tra le mani dell’officiante e le mani dei fedeli medesimi. In caso di contatto, dovrà essere ripetuta la procedura di detersione delle mani dell’officiante prima di riprendere la distribuzione della Comunione. Il CTS ritiene auspicabile che la medesima procedura di detersione delle mani venga osservata anche dai fedeli prima di ricevere l’ostia consacrata. Rimane la raccomandazione di evitare la distribuzione delle ostie consacrate portate dall’officiante direttamente alla bocca dei fedeli”.
Quanto alla ulteriore questione posta da codesta Conferenza episcopale, “in relazione al quesito concernente l’obbligatorietà dell’uso dei dispositivi di protezione delle vie aeree da parte degli sposi durante le ‘celebrazioni dei matrimoni, il CTS osserva che, non potendo certamente essere considerati estranei tra loro, i coniugi possano evitare di indossare le mascherine, con l’accortezza che l’officiante mantenga l’uso del dispositivo di protezione delle vie respiratorie e rispetti il distanziamento fisico di almeno i metro. Il CTS ritiene che tale raccomandazione possa estendersi anche alla celebrazione del matrimonio secondo il rito civile o secondo le liturgie delle altre confessioni religiose”.
Di tanto, si trasmette all’E.V. perché siano scrupolosamente osservate le prescrizioni sopra riportate.
La nota del Ministero dell'Interno
Grazie a Cei
Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano due temi: le condizioni di seguire Gesù, e il tema dell’accoglienza e dell’ospitalità.
Nella prima lettura, tratta dal II libro dei Re, ci viene narrata una storia edificante che dimostra come l’ospitalità data ad un inviato del Signore, è una benedizione. La donna sunammita riceve il profeta Eliseo perchè riconosce in lui un uomo di Dio e Dio la benedice dimostrandosi donatore di vita.
Nella seconda lettura, tratta dalla lettera di S. Paolo ai Romani, l’apostolo basandosi sul rito del battesimo spiega il suo significato sacramentale. Ora se il segno sacramentale è segno efficace , le conseguenze pratiche sono inevitabili. Fondato su questa fede il cristiano deve considerarsi come Cristo morto al peccato una volta per sempre, per vivere per Dio , in Cristo, cioè come figlio di Dio.
Nel brano tratto dal Vangelo secondo Matteo, leggiamo che non si può anteporre niente e nessuno a Gesù e chi non prende la propria croce e non lo segue, non è degno di Lui.. Deve entrare nel nostro cuore il concetto che l’amore per Gesù non esclude gli altri amori, ma nella totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore, potremo fare ordine nella nostra vita ed amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Dal secondo libro dei Re
Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna, che lo trattenne a mangiare. In seguito, tutte le volte che passava, si fermava a mangiare da lei.Ella disse al marito: «Io so che è un uomo di Dio, un santo, colui che passa sempre da noi. Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare».
Un giorno che passò di lì, si ritirò nella stanza superiore e si coricò.
Egli disse a Giezi, suo servo: «Chiama questa Sunammita». La chiamò e lei si presentò a lui. Eliseo (disse a Giezi, suo servo) «Che cosa si può fare per lei?». Giezi disse: «Purtroppo lei non ha un figlio e suo marito è vecchio».
Eliseo disse:«Chiamala!». La chiamò; ella si fermò sulla porta. Allora disse: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia».
2Re 4,8-11.14-16
Il Secondo libro dei Re, insieme al primo, in origine formavano un unico libro. Entrambi fanno parte dei Libri storici per il canone cristiano e dei cosiddetti “profeti anteriori‘” per il canone ebraico. E’ stato composto, secondo alcuni studiosi, intorno al VI secolo a.C. dallo stesso autore che ha scritto il libro del Deuteronomio; per questo lo si definisce autore ''Deuteronomista'‘. Per ricostruire le vicende dei due regni di Israele, egli attinge a materiali d'archivio, alle tradizioni orali e alla memoria storica del suo popolo. Una delle caratteristiche dell'autore è il continuo ricorso a formule fisse per delineare i regni dei vari sovrani e in particolare, il secondo libro dei Re, descrive la vicenda del popolo ebraico dal IX al VI secolo a.C., cioè dalla fine del regno di Acazia (circa 852 a.C.) fino alla distruzione del regno di Giuda nel 587 a.C..
Le vicende di Elia e di Eliseo sono narrate in due cicli che occupano la parte centrale dei due libri dei Re (1Re 17-22; 2Re 1-17). Eliseo, il quale operò sotto i re Ioram (852-841), Ieu (841-814), Ioacaz (814-798), Ioas (798-783), è protagonista di numerosi racconti popolari spesso interrotti da riferimenti alle vicende politiche. Il suo ciclo si apre con il rapimento di Elia in cielo, del quale egli è l’unico testimone (2Re 2,1-8). Divenuto così erede spirituale del suo maestro, Eliseo compie alcuni miracoli di carattere umanitario.
Il brano liturgico ci presenta Eliseo che viene invitato insistentemente da una donna sunammita benestante a fermarsi presso di lei. Egli accetta e, siccome il fatto si ripete, la donna, rendendosi conto che Eliseo è un uomo di Dio, chiede al marito: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare”.
In un’epoca in cui la gente comune dormiva, si sedeva e mangiava per terra, questi oggetti sono chiaramente segni di agiatezza. Eliseo accetta di buon grado questa generosa ospitalità, ma sente anche il desiderio di ricompensare la donna per quanto aveva fatto per lui. Nei versetti non riportati dalla liturgia, sappiamo che egli la fa chiamare e, quando essa si trova davanti a lui, le fa chiedere da Giezi che cosa può fare per lei, ma la donna risponde che non ha bisogno di nulla, perché ha la fortuna di abitare in mezzo al suo popolo.
Eliseo si consulta allora con Giezi, il quale lo informa che la donna non ha figli e suo marito è vecchio. Allora Eliseo la fa nuovamente chiamare e le promette: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia”.
Il racconto mette in luce il potere di Eliseo, il quale dimostrerà di avere da Dio il potere non solo di far avere un figlio a una donna sterile, ma anche di risuscitarlo quando morirà. (cfr 2Re 4,17)
Il racconto dell’incontro di Eliseo con la Sunammita presenta aspetti molto importanti. Il primo è quello dell’ospitalità da parte della donna, la quale accoglie spontaneamente Eliseo nella sua casa in quanto uomo di Dio, e gli dà ospitalità senza aspettarsi nulla in cambio.
Anche quando il profeta si dice disposto a ricambiare la sua generosità, lei non chiede nulla per sé: le basta il privilegio di stare in mezzo al suo popolo. Questa figura di donna è un esempio di generosità, determinata unicamente dalla fede nel Dio al cui servizio si trova Eliseo.
Proprio in quanto uomo di Dio, Eliseo appare molto distaccato nei confronti delle persone e delle cose che lo circondano.
Egli non conosce nulla della situazione della donna e ha bisogno di essere informato dal suo servo, e quando la chiama per parlarle, la fa persino restare sulla porta della stanza. In nulla egli permette ai suoi sentimenti di prevalere e non è disposto a familiarizzare con lei, nonostante la generosità dimostrata nei suoi confronti. Egli è tutto dedito unicamente alla sua missione, tuttavia non è insensibile alle attenzioni della donna e le è grato profondamente, tanto che per ricambiare in qualche modo i favori ricevuti sarebbe disposto a procurarle dei benefici materiali. Quando poi viene a sapere che non ha figli, capisce subito che per lei poterne avere uno è la cosa più importante e quasi istintivamente mette in azione i suoi poteri profetici promettendole la nascita di un figlio.
La storia di Eliseo e della Sunammita accenna in modo rilevante le caratteristiche del profeta, ne lascia intendere i limiti e mette in luce i poteri che gli sono conferiti. Ma più ancora rivela la devozione popolare nei confronti dell’uomo di Dio e mostra come proprio attraverso il contatto con uomini che hanno dedicato tutta la loro vita al rapporto con Dio si apre anche per la gente comune la possibilità di avere accesso a una autentica esperienza religiosa.
Salmo 88/89 - Canterò per sempre l’amore del Signore
Canterò in eterno l’amore del Signore,
di generazione in generazione
farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà,
perché ho detto: «È un amore edificato per sempre;
nel cielo rendi stabile la tua fedeltà».
Beato il popolo che ti sa acclamare:
camminerà, Signore, alla luce del tuo volto;
esulta tutto il giorno nel tuo nome,
si esalta nella tua
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
Perché tu sei lo splendore della sua forza
e con il tuo favore innalzi la nostra fronte.
19 Perché del Signore è il nostro scudo,
il nostro re, del Santo d’Israele
Il salmo probabilmente è il frutto di più autori, tuttavia non va affatto smembrato, poiché rivela una “unità orante”. Il salmo cosi come si presenta pone come autore un re vilipeso, che va ricercato in Ioacaz (2Re 23,33-34). Il fatto che il salmo presenti una totalità di mura abbattute e di fortezze diroccate, impone di pensare ad una sequenza di rovesci militari subiti da Israele, certamente dalle armate assire ed Egiziane (2Re 18,13, 23,33).
Il salmo esordisce facendo memoria delle promesse di Dio a Davide e alla sua discendenza (2Sam 7,8s), prosegue poi inneggiando alla potenza di Dio, quindi, con estensione, ritorna sulle promesse fatte a Davide; infine manifesta lo sconcerto di fronte alla catastrofe che si è abbattuta su Israele nonostante tutte le promesse di stabilità riguardanti la discendenza di Davide.
Il salmista sottolinea lo scarto infinito tra Dio e gli dei concepiti dai pagani: “Chi sulle nubi è uguale al Signore”; come pure sottolinea la distanza infinita tra lui e la sua corte celeste: “Chi è simile al Signore tra i figli degli dei?”. Non manca poi il salmista di affermare l'unicità di Dio: “Tuoi sono i cieli, tua è la terra, tu hai fondato il mondo e quanto contiene”. D'obbligo poi la menzione della vittoria di Dio su Raab (nome di un mostro mitico personificante il caos primordiale), cioè sull'Egitto: “Tu hai ferito e calpestato Raab”.
Il “consacrato”, cioè il re, è stato ripudiato da Dio: “Ti sei adirato contro il tuo consacrato; hai infranto l'alleanza con il tuo servo, hai profanato nel fango la sua corona”. Egli è ricoperto di ingiurie mentre dal faraone Necao, suo vincitore, è condotto prima a Ribla e poi in Egitto: “I tuoi nemici insultano, insultano i passi del tuo consacrato”.
Il re, che ha visto le mura della reggia abbattute, come pure le sue fortezze, è nella più acuta sofferenza e domanda a Dio fin quando tutto questo continuerà: “Fino a quando, Signore, ti terrai nascosto: per sempre? Arderà come fuoco la tua collera?”. Afflitto, chiede a Dio di ricordarsi che la sua vita è breve e che forse non potrà vedere neppure giorni di pace, e lo interroga sul perché ha creato l'uomo, visto che a volte sembra che non ci sia disegno di pace per lui: “invano forse hai creato ogni uomo?”. L'uomo è ben poca cosa, eppure Dio dispone che debba sopportare lungamente pene e disagi prima di ridargli giorni di pace e di gioia. Al salmista pare che Dio abbia delle lentezze nell'intervenire, visto anche che i tempi di Dio sorpassano spesso i brevi anni di un uomo: “Chi è l'uomo che vive e non vede la morte? Chi potrà sfuggire alla mano degli inferi?".
Ma certo il salmista non rimane fermo a questo - le lentezze di Dio, infatti, sono unicamente causate dalle lentezze degli uomini nel ritornare a lui -, poiché conclude il suo salmo benedicendo Dio: “Benedetto il Signore in eterno. Amen, amen”.
Commento “ di P.Paolo Berti
Dalla lettera di S.Paolo Apostolo ai Romani
Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?
Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.
Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo
che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in
Cristo Gesù.
Rm 6,3-4.8-11
Nei primi 5 capitoli della sua lettera ai Romani, S.Paolo ha portato molte argomentazioni sulla dottrina della giustificazione per mezzo della fede, ed ha delineato i problemi più importanti:
se questo è il piano di Dio, perché il popolo eletto non ha accettato il vangelo? L’abbandono della legge non rischia di aumentare il peccato? Per allontanarsi dal peccato e ottenere una nuova vita è sufficiente aderire a Cristo? Investire tutto sulla fede piuttosto che sulle opere non significa mettere in pericolo
la possibilità stessa di essere fedeli a Dio?
Paolo affronta questo problema a partire dall’esperienza del battesimo, nel quale egli vede una svolta radicale. La morte al peccato richiama alla mente di Paolo il segno battesimale, al quale si riferisce con la domanda che troviamo all’inizio del brano: “Fratelli, non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?”
Agli inizi del cristianesimo i neofiti venivano battezzati per immersione, come dice il verbo stesso (battezzare = immergere). Il battesimo era conferito ”nel nome di Gesù Cristo” (At 2,38) perché ricevendolo il credente entra in un profondo rapporto di comunione con Lui. Ciò avviene in quanto, ricevendo il battesimo, egli è stato immerso “nella sua morte”, cioè è stato coinvolto in un’intima partecipazione al dono supremo di sé che Egli ha compiuto sulla croce. Il fatto che il verbo sia all’aoristo (dal greco ἀόριστος χρόνος "tempo indefinito") significa che questo evento, capitato nel passato, è definitivo e irrevocabile. L’apostolo sviluppa questa immagine affermando che, “Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte “anche qui l’uso dell’aoristo significa che si tratta di un gesto che ha creato una situazione irreversibile. Ciò è avvenuto “affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova”.
L’Apostolo interpreta quindi il rito battesimale, in forza del quale il neofita si immerge nell’acqua e poi ne esce, come un morire e risuscitare con Cristo. La risurrezione di Gesù, e di conseguenza anche la vita nuova del credente, vengono viste come una manifestazione speciale della potenza di Dio Padre.
Nei successivi vv. 5-7 non riportati dal brano, Paolo approfondisce queste riflessioni osservando come i credenti siano “completamente uniti a Cristo”,un po’ come un ramo che viene innestato in un altro e cresce fino a formare con esso un’unica cosa; questa compartecipazione avviene “a somiglianza della sua morte”, in quanto la Sua morte in croce diventa il modello a cui essi devono ispirare la loro vita
. Di conseguenza anch’essi riceveranno un giorno una risurrezione simile alla sua; il loro “uomo vecchio”, è stato crocifisso con Lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, ossia scomparisse tutto ciò che aveva a che fare con il peccato “Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato” (Rm, 6,7) . L’uso del verbo al perfetto significa che il battesimo, una volta ricevuto, conferisce una liberazione dal peccato i cui effetti si fanno sentire durante tutta la vita.
Nella seconda parte del brano Paolo approfondisce ulteriormente il significato del battesimo, sottolineando però questa volta l’impegno che esso richiede da parte del credente.
Egli afferma “Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui!”, Egli riprende qui quanto aveva affermato, ponendo però l’accento sul fatto che il credente parteciperà un giorno pienamente a quella vita che non avrà mai fine e che Cristo ha acquistato con la Sua morte e risurrezione.
A questo punto l’Apostolo approfondisce il significato della risurrezione di Cristo. “Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui”. egli infatti “morì per il peccato una volta per tutte” e di conseguenza ora “vive per Dio”.
La vittoria sul peccato (che però Cristo, diversamente dal cristiano, non ha mai sperimentato in se stesso), consiste nel rifiuto di “vivere per sé”, e di conseguenza apre la strada alla vita piena, che consiste nel “vivere per Dio”.
Dopo questa precisazione sulla vita di Cristo risorto, il discorso di Paolo passa all’esortazione: “anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”
È chiaro che per l’uomo “morire con Cristo” significa sostanzialmente lasciarsi coinvolgere, mediante la fede, nell’amore che Egli ha dimostrato morendo sulla croce, al punto tale da accettare liberamente ed anche gioiosamente la propria morte fisica, quando e come essa si verificherà.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo Gesù disse: Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa.
Mt 10,30-42
Continua il discorso missionario con cui Gesù invia in missione i dodici apostoli. Dopo le raccomandazioni che il brano liturgico non riporta riguardanti le discordie che vi possono essere in famiglia a causa dell'adesione alla fede, il discorso continua sul tema dei legami famigliari e sul dono della vita
“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”; Quanto detto si riallaccia ai versetti precedenti in cui Gesù diceva di essere venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera (vv35-36). Non si tratta qui di fare una graduatoria di chi amare per prima, ma dell’adesione personale a Cristo e della totale appartenenza a Lui, che è il compendio di ogni amore. E’ amando Lui per primo che potremo amare nel giusto amore tutti i nostri cari: genitori, coniugi,figli, parenti,amici, tutti coloro che possiamo avvicinare.
Gesù prosegue affermando: “chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me”.
Questa è la prima volta che nel testo evangelico compare la parola croce che ricomparirà in Mt 16,24, in un detto simile a questo e poi ovviamente nella scena della crocifissione. Il supplizio della crocifissione era ben nota ai Giudei dei tempi di Gesù, ma la croce che il discepolo è chiamato a prendere su di sé non è certo quella di Gesù, ma la propria. Ognuno nella propria vita ha la sua croce, cioè le sue sofferenze e rinunce, che il più delle volte non implicano la morte fisica, ma il dono di sé nel servizio degli altri.
“Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.
Questo detto sul perdere la propria vita per trovarla è il più citato di tutti i detti di Gesù, lo ritroviamo sei volte in tutti e quattro i vangeli. Senza dubbio è quello cha caratterizza meglio di ogni altro il suo insegnamento. La sequela di Gesù comporta che il discepolo perda e ritrovi la propria vita e questo non indica che si debba desiderare una morte prematura per conseguire un’eternità beata, ma una radicale trasformazione del senso della propria vita. Seguendo Gesù, il discepolo impara a staccarsi da una vita proiettata su se stesso per mettere al centro il Regno di Dio e i rapporti nuovi che esso implica.
“Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”.
Il discorso ora si sposta sull'accoglienza che spetta all'inviato e sul risultato positivo della missione. Fino ad ora si sono elencate soprattutto le difficoltà, le persecuzioni, le divisioni familiari, ora l'accento è posto sulla ricompensa dovuta a chi "accoglie“. L'inviato del Signore deve essere accolto perché è Gesù che lo manda, quindi è come se si accogliesse Lui stesso. Ma chi accoglie Gesù, accoglie il Padre che l'ha mandato.
“Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto”.
Quindi l'accoglienza avrà la sua ricompensa proporzionata al valore di colui che è stato accolto.
La ricompensa del profeta non è tanto quella che riceverà un profeta, ma quella che ci si spetta da un profeta (cf. 2 Re 4,13: Eliseo ottiene da Dio che la sua ospite abbia il figlio che tanto desiderava).
“Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa”.
Colpisce come anche il semplice dare un “bicchiere d’acqua” diventa un atto prezioso degno della “ricompensa” divina. Secondo la tradizione durante le feste ebraiche, la porta di ogni casa doveva restare socchiusa. Infatti se il Messia avesse deciso di venire, l’avrebbe trovata aperta e si sarebbe seduto a mensa con quella famiglia fortunata. Ma se non fosse venuto il Messia, i poveri che vagano per le strade anche nei giorni di festa avrebbero potuto varcare quella soglia prendendo parte alla comune allegria. E sarebbe stato come accogliere il Messia, nascosto nella loro sofferenza.
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“L’odierna liturgia ci presenta le ultime battute del discorso missionario del capitolo 10 del Vangelo di Matteo, con il quale Gesù istruisce i dodici apostoli nel momento in cui per la prima volta li invia in missione nei villaggi della Galilea e della Giudea.
In questa parte finale Gesù sottolinea due aspetti essenziali per la vita del discepolo missionario: il primo, che il suo legame con Gesù è più forte di qualunque altro legame; il secondo, che il missionario non porta sé stesso, ma Gesù, e mediante Lui l’amore del Padre celeste. Questi due aspetti sono connessi, perché più Gesù è al centro del cuore e della vita del discepolo, più questo discepolo è “trasparente” alla sua presenza. Vanno insieme, tutti e due.
«Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me…», dice Gesù. L’affetto di un padre, la tenerezza di una madre, la dolce amicizia tra fratelli e sorelle, tutto questo, pur essendo molto buono e legittimo, non può essere anteposto a Cristo. Non perché Egli ci voglia senza cuore e privi di riconoscenza, anzi, al contrario, ma perché la condizione del discepolo esige un rapporto prioritario col maestro. Qualsiasi discepolo, sia un laico, una laica, un sacerdote, un vescovo: il rapporto prioritario. Forse la prima domanda che dobbiamo fare a un cristiano è: “Ma tu ti incontri con Gesù? Tu preghi Gesù?”. Il rapporto. Si potrebbe quasi parafrasare il Libro della Genesi: Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a Gesù Cristo e i due saranno una sola cosa (cfr Gen 2,24).
Chi si lascia attrarre in questo vincolo di amore e di vita con il Signore Gesù, diventa un suo rappresentante, un suo “ambasciatore”, soprattutto con il modo di essere, di vivere. Al punto che Gesù stesso, inviando i discepoli in missione, dice loro: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Bisogna che la gente possa percepire che per quel discepolo Gesù è veramente “il Signore”, è veramente il centro della sua vita, il tutto della vita.
Non importa se poi, come ogni persona umana, ha i suoi limiti e anche i suoi sbagli – purché abbia l’umiltà di riconoscerli –; l’importante è che non abbia il cuore doppio - e questo è pericoloso. Io sono cristiano, sono discepolo di Gesù, sono sacerdote, sono vescovo, ma ho il cuore doppio. No, questo non va. Non deve avere il cuore doppio, ma il cuore semplice, unito; che non tenga il piede in due scarpe, ma sia onesto con se stesso e con gli altri. La doppiezza non è cristiana. Per questo Gesù prega il Padre affinché i discepoli non cadano nello spirito del mondo. O sei con Gesù, con lo spirito di Gesù, o sei con lo spirito del mondo.
E qui la nostra esperienza di sacerdoti ci insegna una cosa molto bella, una cosa molto importante: è proprio questa accoglienza del santo popolo fedele di Dio, è proprio quel «bicchiere d’acqua fresca» di cui parla il Signore oggi nel Vangelo, dato con fede affettuosa, che ti aiuta ad essere un buon prete! C’è una reciprocità anche nella missione: se tu lasci tutto per Gesù, la gente riconosce in te il Signore; ma nello stesso tempo ti aiuta a convertirti ogni giorno a Lui, a rinnovarti e purificarti dai compromessi e a superare le tentazioni. Quanto più un sacerdote è vicino al popolo di Dio, tanto più si sentirà prossimo a Gesù, e quanto più un sacerdote è vicino a Gesù, tanto più si sentirà prossimo al popolo di Dio.
La Vergine Maria ha sperimentato in prima persona che cosa significa amare Gesù distaccandosi da sé stessa, dando un nuovo senso ai legami familiari, a partire dalla fede in Lui. Con la sua materna intercessione, ci aiuti ad essere liberi e lieti missionari del Vangelo.”
Papa Francesco Parte dell’Angelus del 2 luglio 2017
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)