Le letture di questa quinta domenica di quaresima, la domenica di Lazzaro, sono intrecciate a filo doppio sul tema della vita e della morte. La morte può apparire nella storia dell’umanità e in quella di ogni uomo con due volti, quello dell’angelo o quello del mostro, può essere pace o incubo, passaggio sereno o polvere, inizio o fine: tutto dipende da come noi ci poniamo di fronte a questo grande mistero.
Nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Ezechiele, vediamo come agli ebrei esiliati il profeta Ezechiele infonde speranza. Viene descritta una visione surreale e paurosa: in una valle infernale, c’è una distesa di scheletri. Ma su di loro irrompe lo spirito creatore di Dio e sulle ossa inaridite si intesse la carne, cioè la vita. Alla fine un popolo immenso si erge in piedi, pronto per una nuova esistenza. Ciò che viene descritto è però una parabola destinata ad illustrare il ritorno- resurrezione di Israele dalla “tomba” dell’esilio di Babilonia. E’ quindi una risurrezione morale, una rinascita del coraggio e della speranza.
Nella seconda lettura, dalla sua lettera ai Romani, Paolo, in sintonia con la profezia di Ezechiele, ci presenta un’altra morte e un’altra vita quella del peccato e della grazia. E’ lo Spirito Santo che ci libera dal peccato e che opera nei credenti la salvezza.
Il Vangelo di Giovanni ci presenta la risurrezione di Lazzaro che risplende come una promessa: la morte non è la fine perchè è stata vinta dalla Pasqua di Cristo. C’è una frase che domina tutto il racconto: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Questa domanda finale Gesù l’ha posta a Marta, ma la pone ora ad ognuno di noi. Se crediamo in Lui dovremmo vedere la morte in modo diverso, non più un approdo nel mare del nulla e del silenzio, ma ad una porta aperta all’infinito e all’eterno. Illuminante il salmista quando dice: “Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena nella tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra” sal 16,10-11.
Dal Libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore Dio: «Ecco, io apro i vostri sepolcri, vi faccio uscire dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi riconduco nella terra d’Israele. Riconoscerete che io sono il Signore, quando aprirò le vostre tombe e vi farò uscire dai vostri sepolcri, o popolo mio. Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete; vi farò riposare nella vostra terra. Saprete che io sono il Signore. L’ho detto e lo farò». Oracolo del Signore Dio.
Ez 37,12-14
Il profeta Ezechiele nacque intorno al 620 a.C. verso la fine del regno di Giuda. Fu deportato in Babilonia nel 597 a.C. assieme al re Ioiachin, stabilendosi nel villaggio di Tel Aviv sul fiume Chebar. Cinque anni più tardi ricevette la chiamata alla missione di profeta, con il compito di rincuorare i Giudei in esilio e quelli rimasti a Gerusalemme. Ezechiele anche se non fu un profeta all'altezza di Isaia o Geremia, ebbe una sua originalità, che in certi casi può averlo fatto apparire ingenuo. Usò immagini di grande potenza evocativa, specie negli oracoli di condanna, ebbe toni ed espressioni particolarmente duri ed efficaci.
Il libro di Ezechiele contiene due raccolte di oracoli, quelli composti prima della caduta di Gerusalemme (cc. 1-24) e quelli posteriori ad essa (cc. 33-39). Tra queste due raccolte si situano gli oracoli contro le nazioni (cc. 25-32). Al termine c’è una sezione chiamata “Torah di Ezechiele” (cc. 40-48), dove sono descritte le istituzioni future. Gli oracoli posteriori alla caduta di Gerusalemme hanno come tema la conversione e il ritorno degli esuli nella loro terra. I temi svolti in questa raccolta sono: il ruolo del profeta (Ez 33), Dio unico pastore di Israele (Ez 34), la rinascita del popolo (Ez 35-37), la vittoria finale sui suoi nemici (Ez 38-39).
Nella sezione in cui si parla della rinascita di Israele, questa viene presentata come effetto di un dono dello Spirito (Ez 36,24-32), al quale viene poi attribuita la risurrezione di un popolo ridotto a una distesa di ossa inaridite (Ez 37,1-10).
Il questo brano in cui c’è la conclusione di quest’ultimo testo, Ezechiele descrive una distesa immensa di ossa inaridite, sulle quali egli, per comando divino, invoca la venuta dello Spirito. Allora le ossa si rivestono di carne e di nervi e ritornano ad essere un esercito sterminato. …
In questo testo Ezechiele si serve del linguaggio della risurrezione per spiegare la liberazione del popolo dall’esilio. Non si tratta certo di una risurrezione vera e propria , ma del ritorno a una vita piena dopo l’esperienza di una sofferenza che può essere considerata come una morte, perchè senza libertà la vita non è degna di essere vissuta. La liberazione promessa è un dono gratuito di Dio, che ha certo una componente politica, ma si identifica anche con la ripresa di un rapporto con Dio che comporta una fedeltà costante a Lui. È proprio nel riconoscere in Dio il garante della sua liberazione che il popolo eviterà di cadere schiavo di potenze straniere, anche quando sarà politicamente sottomesso ad esse.
Pur non riferendosi alla risurrezione individuale dopo la morte, l’immagine usata da Ezechiele ha posto le premesse per il successivo sviluppo della fede di Israele. Quando la restaurazione del popolo apparirà come un evento che si attuerà alla fine dei tempi, sorgerà il problema del destino di coloro che sono morti prima che questo evento si realizzasse, e soprattutto dei martiri che hanno dato la vita perché si attuasse la gloria finale del popolo. È allora che l’immagine della risurrezione sarà utilizzata per indicare la partecipazione di tutti i defunti alla beatitudine finale di Israele, quando alla fine tutti i giusti torneranno in vita per entrare nella beatitudine del regno di Dio.
Dalla lettera di S.Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio.
Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Rm 8,8-11
In questo brano, tratto dal suo capolavoro teologico, Paolo sottolinea la nuova condizione dei cristiani dovuta alla presenza in loro dello Spirito Santo: “Voi non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi” ma chiarisce che “Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. In effetti, lo Spirito Santo – lo Spirito di Dio –, ha dato forma divina, all'umanità di Gesù portandolo fino alla risurrezione. In virtù di ciò Gesù è diventato definitivamente il Cristo, l’unto di Dio. Quindi lo Spirito di Cristo è la realtà di Dio in noi che ci trasforma in altri Cristo, fino a poter dire come Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20) .
La vita trasmessa dallo Spirito è vita nuova che rende capaci di ricevere e trasmettere la giustizia, ossia di essere operatori, nelle diverse circostanze della vita, della stessa giustizia di cui siamo stati oggetto. Si tratta, allora, di restituire il dono ricevuto da Dio a Dio stesso, per mezzo del giusto rapporto con le persone, con la società e con la creazione.
Paolo continua affermando che: se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Ossia lo Spirito di Dio ci renderà partecipi della stessa risurrezione corporale di Gesù Cristo, proprio per questa appartenenza a Lui. Di fatto, Paolo, facendo riferimento alla risurrezione dice: che il corpo rimane mortale, ma la morte non avrà l’ultima parola, poiché il corpo contiene la vittoria sulla morte stessa, malgrado attraverso la morte debba sempre passare.
In questo brano c’è una perfetta sintonia con la profezia di Ezechiele nel punto in cui dice: “Farò entrare in voi il mio spirito e rivivrete” . L’azione dello Spirito è tensione verso il dono totale della vita che sarà perfetta solo quando il cristiano parteciperà definitivamente alla vita del Risorto.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà»
Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.
Gv 11,1-45
L’evangelista Giovanni alla fine del capitolo precedente questo brano, aveva raccontato che la tensione tra Gesù e i giudei era arrivata al culmine, tanto che Gesù era stato costretto a rifugiarsi al di là del Giordano. La risurrezione di Lazzaro, rappresenta l’ultimo segno compiuto da Gesù e al tempo stesso la causa immediata della sua morte, che venne decisa subito dopo in una riunione segreta del sinedrio.
Giovanni inizia con il raccontarci che mentre Gesù si trovava al di là del Giordano si ammalò un certo Lazzaro, fratello di Marta e di Maria, e ci ricorda che i tre fratelli risiedevano a Betania, un villaggio situato sul versante orientale del monte degli Ulivi, poco distante da Gerusalemme.
Quando Lazzaro si aggravò, le sorelle fanno avvertire Gesù, che all’udire questa notizia osserva, in modo analogo a quanto aveva fatto riguardo al cieco nato, che questa malattia non condurrà alla morte, ma servirà per la gloria di Dio, in quanto manifesterà la gloria del Figlio Suo. Essa sarà quindi l’occasione di un segno col quale Gesù manifesterà se stesso come inviato di Dio.
Malgrado l’affetto che lo lega ai tre fratelli, Gesù aspetta ancora due giorni, e poi decide di mettersi in cammino verso la Giudea. Questa decisione suscita lo stupore dei discepoli, i quali ricordano che i giudei avevano appena tentato di lapidarlo; ma Gesù fa loro notare che chi cammina alla luce del giorno non deve aver paura di inciampare, mentre di notte ciò succede più facilmente. Con questa massima egli afferma che nulla di male gli potrà capitare finché non sia giunto il suo momento. Poi Gesù soggiunge che Lazzaro si è addormentato ed egli va a svegliarlo; siccome i discepoli pensano al sonno fisico, egli spiega loro che Lazzaro è morto e soggiunge che ciò è avvenuto perché essi possano credere. A questo punto Tommaso dice agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!» per indicare il rischio a cui vanno incontro ritornando in Giudea, ma al tempo stesso si dice pronto a seguire Gesù fino alla fine.
Giovanni prosegue il suo racconto descrivendo l’incontro di Gesù con le due sorelle. Egli arriva a Betania quando Lazzaro è ormai da quattro giorni nel sepolcro. Marta, che si trova in casa con molti giudei venuti da Gerusalemme per le cerimonie funebri, è la prima a sapere della venuta di Gesù, gli va incontro e gli dice: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà”. Queste parole contengono un velato rimprovero a Gesù perché, a causa della Sua assenza, non ha potuto impedire la morte del fratello e al tempo stesso rivelano la fiducia che Gesù possa fare ancora qualcosa per lui. C’è anche lo scopo di preparare l’intervento che Gesù farà di Sua iniziativa. Gesù le risponde: “Tuo fratello risorgerà”. Fraintendendo le sue parole, Marta risponde affermando di sapere bene che egli risusciterà nell’ultimo giorno. Con queste parole ella si unisce alla fede del mondo giudaico, in cui era corrente l’attesa della risurrezione dei giusti alla fine dei tempi. Gesù allora prosegue: “Io sono la risurrezione e la vita….e aggiunge chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno.” E chiede infine a Marta se crede in quanto lui ha detto. Marta risponde: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo”. Per Marta dunque Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, nel quale si attuano le attese del popolo giudaico. Con questa breve frase lei esprime la professione di fede richiesta dai destinatari del quarto vangelo, che è stato scritto precisamente “perché voi crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31).
Dopo Marta anche Maria, seguita dai presenti, va incontro a Gesù, che si trova ancora fuori del villaggio, e gli ripete lo stesso velato rimprovero fattogli precedentemente dalla sorella. Vedendo che Maria e i giudei piangevano, Gesù si commuove e chiede poi dove l’hanno deposto. Quando gli rispondono “vieni a vedere “ Gesù allora scoppia in pianto. Con la commozione e il turbamento, seguiti dal pianto, Gesù non esprime soltanto il dolore per la morte dell’amico, ma anche il rifiuto della morte stessa, vista come simbolo della separazione da Dio. I giudei commentano: “Guarda come lo amava”,chiedendosi anche come mai proprio lui, che ha dato la vista al cieco, non abbia saputo impedire che il suo amico morisse, pensando così che il Suo atteggiamento, fosse un segno di debolezza di fronte alla morte.
Gesù, ancora profondamente commosso si fa condurre al sepolcro di Lazzaro e ordina di togliere la pietra che lo chiude. Marta gli fa osservare che il cadavere manda già cattivo odore, dimostrando così di non aver ancora capito, malgrado il colloquio avuto precedentemente con Lui, quali fossero le Sue intenzioni. Gesù allora la invita a rinnovare la sua fede, al fine di poter “vedere la gloria di Dio”, cioè l’imminente manifestazione della Sua potenza. Poi ringrazia il Padre di averlo esaudito, sottolineando come, pur non avendone bisogno, gli ha rivolto la Sua preghiera perché i presenti credano che Egli, il Padre, lo ha mandato. Con queste parole Egli sottolinea come la Sua potenza derivi in ultima analisi dal Suo rapporto con il Padre. Infine Gesù gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!” e questi, ancora bendato, esce dal sepolcro; allora Gesù ordina ai presenti “Liberàtelo e lasciàtelo andare”.
La risurrezione di Lazzaro, rappresenta per l’evangelista Giovanni il culmine di tutta la vita pubblica di Gesù, e mette in luce il significato profondo che assume la fede in Gesù come inizio di una nuova vita.
Questa fede non consiste però, malgrado le apparenze, nell’accettazione di verità astratta riguardante la “natura” divina di Gesù, ma in una profonda comunione di vita che, per mezzo Suo, si instaura con Dio e con gli uomini. Soprattutto la vita che egli porta non consiste nell’eliminazione della morte, ma nel trasformare la morte stessa in uno strumento di vita.
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Il Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima ci narra la risurrezione di Lazzaro. E’ il culmine dei “segni” prodigiosi compiuti da Gesù: è un gesto troppo grande, troppo chiaramente divino per essere tollerato dai sommi sacerdoti, i quali, saputo il fatto, presero la decisione di uccidere Gesù (cfr Gv 11,53).
Lazzaro era morto già da tre giorni, quando giunse Gesù; e alle sorelle Marta e Maria Egli disse parole che si sono impresse per sempre nella memoria della comunità cristiana. Dice così Gesù: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno»
Su questa Parola del Signore noi crediamo che la vita di chi crede in Gesù e segue il suo comandamento, dopo la morte sarà trasformata in una vita nuova, piena e immortale. Come Gesù è risorto con il proprio corpo, ma non è ritornato ad una vita terrena, così noi risorgeremo con i nostri corpi che saranno trasfigurati in corpi gloriosi.
Lui ci aspetta presso il Padre, e la forza dello Spirito Santo, che ha risuscitato Lui, risusciterà anche chi è unito a Lui.
Dinanzi alla tomba sigillata dell’amico Lazzaro, Gesù «gridò a gran voce: “Lazzaro, vieni fuori!”. E il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario» .Questo grido perentorio è rivolto ad ogni uomo, perché tutti siamo segnati dalla morte, tutti noi; è la voce di Colui che è il padrone della vita e vuole che tutti «l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10).
Cristo non si rassegna ai sepolcri che ci siamo costruiti con le nostre scelte di male e di morte, con i nostri sbagli, con i nostri peccati. Lui non si rassegna a questo! Lui ci invita, quasi ci ordina, di uscire dalla tomba in cui i nostri peccati ci hanno sprofondato. Ci chiama insistentemente ad uscire dal buio della prigione in cui ci siamo rinchiusi, accontentandoci di una vita falsa, egoistica, mediocre. «Vieni fuori!», ci dice, «Vieni fuori!». E’ un bell’invito alla vera libertà, a lasciarci afferrare da queste parole di Gesù che oggi ripete a ciascuno di noi. Un invito a lasciarci liberare dalle “bende”, dalle bende dell’orgoglio. Perché l’orgoglio ci fa schiavi, schiavi di noi stessi, schiavi di tanti idoli, di tante cose. La nostra risurrezione incomincia da qui: quando decidiamo di obbedire a questo comando di Gesù uscendo alla luce, alla vita; quando dalla nostra faccia cadono le maschere - tante volte noi siamo mascherati dal peccato, le maschere devono cadere! - e noi ritroviamo il coraggio del nostro volto originale, creato a immagine e somiglianza di Dio.
Il gesto di Gesù che risuscita Lazzaro mostra fin dove può arrivare la forza della Grazia di Dio, e dunque fin dove può arrivare la nostra conversione, il nostro cambiamento. Ma sentite bene: non c’è alcun limite alla misericordia divina offerta a tutti! Non c’è alcun limite alla misericordia divina offerta a tutti! ricordatevi bene questa frase. E possiamo dirla insieme tutti: “Non c’è alcun limite alla misericordia divina offerta a tutti”. Diciamolo insieme: “Non c’è alcun limite alla misericordia divina offerta a tutti”. Il Signore è sempre pronto a sollevare la pietra tombale dei nostri peccati, che ci separa da Lui, la luce dei viventi.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 6 aprile 2014
Siamo giunti alla quarta domenica di quaresima, e la liturgia ci presenta delle letture che invitano ad interrogarci sulla qualità della nostra fede, che non è credere in qualcosa (che Dio esiste e che c’è un aldilà) ma credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio, altrimenti non avrebbe senso chiamarci Cristiani.
La prima lettura, tratta dal primo libro di Samuele, ci presenta una tappa importante nella storia della salvezza:l’elezione di Davide. Dio sceglie tra i figli di Iesse il meno quotato umanamente, il più piccolo e neanche considerato molto dal proprio padre. Dio vede nel cuore e non guarda all’apparenza.
Nella seconda lettura, Paolo nella sua lettera agli Efesini, afferma che i battezzati, diventati “luce nel Signore”, si devono impegnare comportarsi come “figli della luce”, perseverando nella fede, nella bontà e nella carità.
Il Vangelo di Giovanni con l’episodio del miracolo del cieco nato, tratta il tema dell’incontro di colui che è tenebra con Cristo-luce. Nel racconto della guarigione Gesù opera un rovesciamento di condizione affinché coloro che non vedono, vedano, e coloro che credono di vedere, diventino ciechi. I farisei e i genitori del cieco sono incapaci di “vedere”, solo il cieco , arriva a vedere perchè crede in Gesù.
Dal primo libro di Samuele
In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.
Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».
Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.
Disse il Signore: «Àlzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.
1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13°
I due libri di Samuele sono due testi contenuti anche nella Bibbia ebraica dove sono contati come un testo unico e costituiscono, con i successivi due Libri dei Re, un'opera continua. Sono stati scritti in ebraico e secondo l'ipotesi condivisa da molti studiosi, la loro redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. Sia i libri di Samuele che quelli dei Re sono da ricondurre ad un unico progetto, quello di tratteggiare la vicenda storica di Israele dalla fine dell'epoca dei Giudici fino alla fine della monarchia con l'invasione babilonese di Nabucodonosor: un arco di tempo che comprende ben sei secoli.
Il primo libro di Samuele, da cui questo brano viene tratto, descrive l'abbandono dell'ordinamento giuridico dei Giudici, con cui spesso le tribù si governavano in modo indipendente l'una dall'altra, e la nascita dell'ordinamento monarchico. Esso abbraccia un periodo di tempo che va dal XII secolo fino al 1010 a.C. circa, anno presunto della morte di Saul.
Questo brano presenta una tappa importante nella storia della salvezza: lo scettro passa dalla tribù di Beniamino (quella di Saul) alla tribù di Giuda (quella di David). Samuele fa come il Signore gli aveva ordinato, ma non era preparato a riconoscere l’eletto, poiché, nonostante l’esperienza con Saul, guardava ancora “all'apparenza”.
Va presso la casa di Iesse e di tutti i suoi sette figli, è il minore, il pastorello, che non era neanche in casa, (praticamente il dimenticato! Anche per il padre Iesse questo ragazzino non era neanche preso in considerazione). Ma sarà proprio lui, Davide il pastorello, che il narratore descrive così: “Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto” che sarà unto ”in mezzo ai suoi fratelli” come re d’Israele.
Il fatto che viene scelto l’ultimo, l’umanamente meno idoneo, mette in rilievo la volontà divina nel condurre la storia: “Dio legge nei cuori e non giudica secondo le apparenze!” non sceglie le persone capaci, ma rende capaci le persone che sceglie!…
Salmo 22 - Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.
Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni.
L’orante ha fatto l’esperienza di come il Signore lo guidi in mezzo a numerose difficoltà tesegli dai nemici. Egli dichiara che non manca di nulla perché Dio in tutto l’aiuta. Le premure del suo Pastore sono continue e si sente curato come un pastore cura il suo gregge conducendolo a pascoli erbosi e ad acque tranquille. L’orante riconosce che tutto ciò viene dalla misericordia di Dio, che agisce “a motivo del suo nome”, ma egli corrisponde con amore all’iniziativa di Dio nei suoi confronti. La consapevolezza che Dio lo ama per primo gli dà una grande fiducia in lui, cosicché se dovesse camminare nel buio notturno di una profonda valle non temerebbe le incursioni di briganti o persecutori, piombanti dall’alto su di lui. La valle oscura è poi simbolo di ogni situazione difficile nella quale tutto sembra avverso. Dio, buon Pastore, lo difende con il suo bastone e lo guida dolcemente con il suo vincastro, che è quella piccola bacchetta con cui i pastori indirizzano il gregge con piccoli colpetti. Non solo lo guida in mezzo alle peripezie, ma anche gli dona accoglienza, proprio davanti ai suoi nemici, i quali pensano di averlo ridotto ad essere solo uno sconvolto e disperato fuggiasco. Egli, al contrario, è uno stabile ospite del Signore che gli prepara una mensa e gli unge il capo con olio per rendere lucenti i suoi capelli e quindi rendere bello e fresco il suo aspetto. E il calice che ha davanti è traboccante, ma non perché è pieno fino all’orlo, ma perché è traboccante d'amore. Quel calice di letizia è nel sensus plenior del salmo il calice del sangue di Cristo, mentre la mensa è la tavola Eucaristica, e l’olio è il vigore comunicato dallo Spirito Santo.
Il cristiano abita nella casa del Signore, l’edificio chiesa, dove c’è la mensa Eucaristica. … e quindi egli, per dono del Signore, vi è perenne legittimo abitante.
Commento di Padre Paolo Alberti
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.
Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto:
«Svégliati, tu che dormi,risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».
Ef 5, 8-14
La Lettera agli Efesini, come le lettere ai Filippesi, ai Colossesi e a Filemone, formano il gruppo delle «Lettere della prigionia» poiché Paolo afferma di essere «prigioniero». L’Apostolo fu una prima volta ad Efeso (Atti degli Apostoli 18, 19-22) e vi soggiornò (At18,23-20) ancora durante il suo secondo viaggio missionario, ingrandendo in questo modo il suo raggio d’azione pastorale. La lettera agli Efesini viene attribuita a Paolo, che l'avrebbe scritta durante la sua prigionia a Roma intorno all'anno 62 . La prima parte (1,3 - 3,21) è dottrinale, mentre la seconda parte,(4,1 - 6,20) , da dove è tratto questo brano, è esortativa.
Il testo inizia con una constatazione:”un tempo eravate tenebra…” e le tenebre, in quanto opposte alla luce, sono una metafora con cui si indica tutto quello che è male, sofferenza e peccato. Qui però le tenebre non indicano solo una situazione di peccato, ma si identificano con le persone stesse che ne sono portatrici in quanto sono contagiate nel profondo del loro essere. In forza della loro adesione a Cristo gli efesini invece hanno assunto una nuova identità:”ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire ciò che è gradito al Signore.”. I credenti non solo sono illuminati da Cristo, ma in forza della loro incorporazione a Lui sono diventati essi stessi luce. In altre parole, per loro Cristo non è stato semplicemente lo strumento della loro salvezza ma, incorporandoli a sé, Cristo li ha resi partecipi del suo stesso modo di essere. Paolo poi spiega, che “il frutto della luce”, si manifesta in tre grandi orientamenti di vita: bontà, giustizia e verità. Questi tre termini non indicano comportamenti diversi, ma definiscono una condotta che piace a Dio perché consiste nel compimento della sua volontà, cioè si ispira all’amore per Lui e per il prossimo.
Il fatto di essere ormai luce non preclude ai credenti la possibilità di ricadere nelle tenebre. per questo Paolo ritorna sul tema iniziale con questa esortazione: Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto da [coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare. I credenti devono evitare per questo di ricadere nelle tenebre compiendo le opere da esse ispirate, sapendo quali siano le conseguenze.
Paolo poi prosegue: tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto:
«Svégliati, tu che dormi,risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».
L’impegno perciò di colui che in Cristo è diventato luce non è solo di fuggire il male o di compiere il bene, ma anche di denunciare le opere delle tenebre come male. Solo così il cristiano può seguire Cristo e continuare la Sua azione.
Dal vangelo secondo Giovanni
[ In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita ] e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, [ sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». ] Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».
Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». ] Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». [ Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. ] Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane». Gv 8,12b
L’ evangelista Giovanni narra la guarigione di un uomo nato cieco. Probabilmente il contesto è quello della festa delle Capanne, celebrazione importante per gli Ebrei. È la festa del raccolto autunnale che viene celebrata all’aperto, nei vigneti. Ricorda il soggiorno di Israele nel deserto durante l’esodo, e prevedeva il pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme. Il brano si divide in quattro parti: miracolo e prime reazioni (vv. 1-12); primo interrogatorio del cieco guarito (vv. 13-23); secondo interrogatorio (vv. 24-34); la fede nel Figlio dell’uomo (vv. 35-41).
Il racconto inizia presentandoci Gesù, che passando probabilmente attraverso una delle porte che davano accesso al tempio, vede un mendicante cieco dalla nascita .
Alla vista del cieco, i discepoli gli domandano se la sua malattia sia dovuto a un peccato commesso da lui oppure, essendo questo male iniziato prima della sua nascita, dai suoi genitori, dimostrando così di condividere la convinzione popolare secondo cui una disgrazia non può essere se non un castigo divino .
Alla domanda dei discepoli Gesù risponde negativamente e afferma che egli è diventato cieco perché in lui siano manifestate le opere di Dio. E subito aggiunge, preannunziando il significato di ciò che sta per fare: “ Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Dopo aver chiarito il significato di ciò che sta per compiere, Gesù adotta una metodo insolito, egli sputa per terra, fa del fango con la saliva, gesto questo provocatorio che è proibito nel giorno di sabato, spalma il fango sugli occhi del cieco, e poi lo manda a lavarsi nella piscina di Siloe, nella quale confluiva l’acqua del torrente Gichon, che si trova a sud-ovest della città vecchia di Gerusalemme. Il cieco obbedisce alle parole di Gesù, ottenendo così la guarigione. I primi a rendersene conto sono coloro che erano abituati a vederlo mendicare presso la porta del tempio. Alcuni di loro pensano però che si tratti di una persona diversa, ma egli stesso tronca ogni discussione dicendo di essere proprio lui e spiegando come erano andate le cose.
Dopo che la sua identità è stata accertata, il cieco guarito viene condotto dai farisei, perché esprimano il loro giudizio, dato che il miracolo è stato compiuto nel giorno di sabato. Inizia così un interrogatorio, nel quale saranno coinvolti anche i genitori dell’uomo a cui chiedono se è veramente il loro figlio cieco dalla nascita e, in caso affermativo, come mai ora ci veda. Alla prima domanda essi rispondono che il cieco guarito è veramente loro figlio, mentre alla seconda rispondono di non sapere come ciò sia avvenuto e poi per concludere il discorso dicono:. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé”
L’evangelista osserva che la loro risposta è stata dettata dal timore, in quanto i farisei avevano deciso di espellere dalla sinagoga chiunque avesse riconosciuto Gesù come il Cristo (è probabile che venga inserita durante la vita di Gesù una situazione che si è verificata soltanto verso gli anni 90 con la birkat ha-minim , con cui è stata comminata la scomunica ai seguaci di Gesù di Nazareth, che frequentavano il Tempio e le sinagoghe.)
I farisei, non avendo raggiunto lo scopo che si erano prefissi, si rivolgono nuovamente al cieco guarito e gli chiedono di impegnarsi con un giuramento a dire la verità. Affermano poi di sapere per certo che Gesù è un peccatore: gli chiedono così in un certo senso di ritrattare quanto aveva precedentemente affermato. Ma egli ribadisce ancora la sua versione dei fatti. Non sapendo che cosa dire, i farisei gli chiedono di nuovo come siano andate le cose, sperando forse che egli si contraddica. A questo punto l’uomo si rifiuta e li provoca persino chiedemdo ironicamente se anche loro vogliono diventare discepoli di Gesù. Allora i farisei lo insultano e gli dicono: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».. Mentre dunque i farisei si allontanano sempre più da Gesù, il cieco guarito si avvicina sempre più a Lui e alla fine afferma: “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.
Intanto Gesù, sapendo che il cieco guarito è stato scacciato dalla sinagoga, gli va incontro e gli domanda se crede nel Figlio dell’uomo. Egli allora gli chiede chi è il Figlio dell’uomo e Gesù risponde: “Lo hai visto: è colui che parla con te. Udite queste parole l’uomo si prostra davanti a lui dicendo:: “Credo, Signore!”. Dopo aver riconosciuto che Gesù è un profeta, un uomo che viene da Dio, egli giunge a riconoscere in Lui il Messia e Signore cioè Dio, ma prima ha dovuto essere scacciato dalla sinagoga, perdendo così tutte le sue sicurezze religiose e sociali.
Gesù allora, prendendo lo spunto dal titolo di Figlio dell’uomo, afferma: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei gli chiedono allora se fossero ciechi anche loro, e Gesù risponde che se fossero ciechi non avrebbero alcun peccato, ma siccome dicono di vedere, il loro peccato rimane.
Si comprende così che “coloro che vedono” sono in realtà quelli che pretendono di vedere, ma sono anche loro dei ciechi; essi però, rifiutando di essere illuminati dal Figlio dell’uomo, non possono essere guariti.
È dunque vero che Gesù è la luce del mondo, ma la Sua luce raggiunge effettivamente solo coloro che si aprono a riceverla, mentre provoca la cecità in coloro che non sono disposti a riconoscerla.
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Il Vangelo odierno ci presenta l’episodio dell’uomo cieco dalla nascita, al quale Gesù dona la vista. Il lungo racconto si apre con un cieco che comincia a vedere e si chiude – è curioso questo - con dei presunti vedenti che continuano a rimanere ciechi nell’anima. Il miracolo è narrato da Giovanni in appena due versetti, perché l’evangelista vuole attirare l’attenzione non sul miracolo in sé, ma su quello che succede dopo, sulle discussioni che suscita; anche sulle chiacchiere, tante volte un’opera buona, un’opera di carità suscita chiacchiere e discussioni, perché ci sono alcuni che non vogliono vedere la verità. L’evangelista Giovanni vuol attirare l’attenzione su questo che accade anche ai nostri giorni quando si fa un’opera buona. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita – hanno visto il miracolo e lo interrogano -, poi dai dottori della legge; e questi interrogano anche i suoi genitori. Alla fine il cieco guarito approda alla fede, e questa è la grazia più grande che gli viene fatta da Gesù: non solo di vedere, ma di conoscere Lui, vedere Lui come «la luce del mondo» (Gv 9,5).
Mentre il cieco si avvicina gradualmente alla luce, i dottori della legge al contrario sprofondano sempre più nella loro cecità interiore. Chiusi nella loro presunzione, credono di avere già la luce; per questo non si aprono alla verità di Gesù. Essi fanno di tutto per negare l’evidenza. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio nella guarigione, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco. La loro chiusura alla luce diventa aggressiva e sfocia nell’espulsione dal tempio dell’uomo guarito.
Il cammino del cieco invece è un percorso a tappe, che parte dalla conoscenza del nome di Gesù. Non conosce altro di Lui; infatti dice: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi» (v. 11). A seguito delle incalzanti domande dei dottori della legge, lo considera dapprima un profeta (v. 17) e poi un uomo vicino a Dio (v. 31). Dopo che è stato allontanato dal tempio, escluso dalla società, Gesù lo trova di nuovo e gli “apre gli occhi” per la seconda volta, rivelandogli la propria identità: «Io sono il Messia», così gli dice. A questo punto colui che era stato cieco esclama: «Credo, Signore!» (v. 38), e si prostra davanti a Gesù. Questo è un brano del Vangelo che fa vedere il dramma della cecità interiore di tanta gente, anche la nostra perché noi alcune volte abbiamo momenti di cecità interiore.
La nostra vita a volte è simile a quella del cieco che si è aperto alla luce, che si è aperto a Dio, che si è aperto alla sua grazia. A volte purtroppo è un po’ come quella dei dottori della legge: dall’alto del nostro orgoglio giudichiamo gli altri, e perfino il Signore! Oggi, siamo invitati ad aprirci alla luce di Cristo per portare frutto nella nostra vita, per eliminare i comportamenti che non sono cristiani; tutti noi siamo cristiani, ma tutti noi, tutti, alcune volte abbiamo comportamenti non cristiani, comportamenti che sono peccati. Dobbiamo pentirci di questo, eliminare questi comportamenti per camminare decisamente sulla via della santità. Essa ha la sua origine nel Battesimo. Anche noi infatti siamo stati “illuminati” da Cristo nel Battesimo, affinché, come ci ricorda san Paolo, possiamo comportarci come «figli della luce» (Ef 5,8), con umiltà, pazienza, misericordia. Questi dottori della legge non avevano né umiltà, né pazienza, né misericordia!
Io vi suggerisco, oggi, quando tornate a casa, prendete il Vangelo di Giovanni e leggete questo brano del capitolo 9. Vi farà bene, perché così vedrete questa strada dalla cecità alla luce e l’altra strada cattiva verso una più profonda cecità. Domandiamoci come è il nostro cuore? Ho un cuore aperto o un cuore chiuso? Aperto o chiuso verso Dio? Aperto o chiuso verso il prossimo? Sempre abbiamo in noi qualche chiusura nata dal peccato, dagli sbagli, dagli errori. Non dobbiamo avere paura! Apriamoci alla luce del Signore, Lui ci aspetta sempre per farci vedere meglio, per darci più luce, per perdonarci. Non dimentichiamo questo!
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 30 marzo 2014
Siamo giunti alla terza domenica di quaresima, e al centro della liturgia odierna troviamo l’acqua come punto di convergenza e di incontro di due interlocutori: l’uomo e Dio. Dal profondo del suo essere l’uomo muove verso un “di più”, un assoluto capace di acquietare e di estinguere la sua sete in modo definitivo. Ma solo in Dio, che ci ha fatto e pensati fin dall’eternità, possiamo trovare un’acqua che plachi ogni inquietudine e appaghi ogni desiderio.
La prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, che è il libro dei doni di Dio, ci presenta il popolo di Israele, ormai libero e peregrinante nel deserto, si lamenta con Mosè per l’arsura. Dio interviene concedendo l’acqua e si dimostra roccia, cioè forza e difesa del Suo popolo. Questo dono dell’acqua porta noi oggi a pensare all’acqua sacramentale del Battesimo.
Nella seconda lettura, San Paolo nella sua lettera ai Romani, ribadisce che nel battesimo nasciamo a Dio nell’acqua e dallo Spirito Santo e otteniamo la salvezza grazie all’amore che Cristo ci ha dimostrato morendo per noi anche quando eravamo indegni e peccatori
Il Vangelo di Matteo ci presenta il racconto celeberrimo dell’incontro di Gesù con la donna samaritana, con un passato alquanto burrascoso. Ad una simile donna Gesù parla di cose di concetto elevato: la vera fede, quella degli ebrei e dei samaritani, che Dio è spirito e verità; che lui che ha chiesto a lei da bere, (ma che poi le offre l’acqua viva cioè la verità e la salvezza) è il Figlio di Dio, il Messia, il Salvatore del mondo.
Questa pagina del Vangelo è un appello rivolto alla Chiesa perchè spezzi i preconcetti e le paure e annunzi con rispetto, con amore e con gioia a tutti la “buona notizia” del Vangelo. Questa pagina è, però, anche un appello indirizzato a chi ha un passato un po’ “samaritano”, poco ortodosso, perchè sappia che c’è sempre Qualcuno che lo attende e lo accoglie, anche sotto il sole, nel rumore di una giornata qualsiasi.
Dal libro dell'Èsodo.
In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».
Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».
Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d’Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va’! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull’Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà».
Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d’Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?». Es 17, 3-7
L'Esodo è il secondo libro della Bibbia cristiana e della Torah ebraica. È stato scritto in ebraico e, secondo l'ipotesi di molti studiosi, la sua redazione definitiva, ad opera di autori ignoti, è collocata al VI-V secolo a.C. in Giudea, sulla base di precedenti tradizioni orali e scritte. È composto da 40 capitoli, nei primi 14 descrive il soggiorno degli Ebrei in Egitto, la loro schiavitù e la miracolosa liberazione tramite Mosè, mentre nei restanti descrive il soggiorno degli Ebrei nel deserto del Sinai.
Il periodo descritto si colloca intorno al 1300-1200 a.C.
Il libro dell'Esodo è suddiviso in tre grandi sezioni, corrispondenti ai tre momenti della narrazione:
La prima, (capitoli 11,1-15,21), comprende il racconto dell'oppressione degli Ebrei in Egitto, la nascita di Mosè, la fuga di Mosè a Madian e la scelta divina, il suo ritorno in Egitto, le dieci piaghe e l'uscita dal paese.
La seconda sezione (15,22-18,27) narra del viaggio lungo la costa del Mar Rosso e nel deserto del Sinai.
La terza (19,1-40,38) riguarda l'incontro tra Dio e il popolo eletto, mediante le tappe fondamentali del decalogo e del codice dell'alleanza, seguito dall'episodio del vitello d'oro e dalla costruzione del Tabernacolo
Questo brano presenta uno dei fatti più comuni che possono capitare nel deserto: la mancanza di acqua. Il popolo “paga il prezzo della sua libertà” e l'assenza totale d'acqua sembra un segno dell'assenza di Dio. La reazione del popolo è progressiva: la sete scatena la “protesta” e cresce in una “mormorazione” contro Mosè. Ma mormorare significa soprattutto rinnegare l'esodo, travisare il senso dei fatti e questo emerge nella domanda sarcastica: “Perché ci hai fatto salire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”. Israele vede l'Esodo come cammino verso la morte, non verso la vita, perde di vista la terra promessa, vede il deserto, non come luogo di passaggio, ma come un tradimento di un Dio sadico. Riemerge nel termine “Egitto” il cuore schiavo d'Israele, la nostalgia del passato, il rifiuto della libertà del presente e della vocazione futura: in altre parole significa ripiombare nella logica del popolo schiavo che si accontentava di nutrirsi di “cipolle”. Mosè innalza a Dio il suo grido “Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!” e Dio interviene e si dimostra roccia, cioè forza, difesa, sostegno d’Israele.
Questo brano è importante anche per l’interpretazione fattane da S.Paolo perché, per l’Apostolo, la roccia è Cristo e l’acqua che scaturisce dalla roccia, dal Cristo, è l’acqua battesimale che ci disseta con uno stesso Spirito. (v.1Cor 12,13)
Salmo 94 Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere».
Il salmo è un invito alla preghiera durante una visita al tempio, probabilmente durante la festa delle capanne, che celebrava il cammino nel deserto (Cf. Dt 31,11), visto che il salmo ricorda l'episodio di Massa e Meriba.
Dio è presentato come “roccia della nostra salvezza”, indicando la roccia la sicurezza data da Dio di fronte ai nemici.
Egli è “grande re sopra tutti gli dei”; sono gli dei concepiti dai pagani, dietro i quali striscia l'azione dei demoni
Egli è colui che ha in suo potere ogni cosa: “Nella sua mano sono gli abissi della terra, sono sue le vette dei monti...”.
Il gruppo orante è invitato ad accostarsi a Dio, cioè ad entrare nell'atrio del tempio. Successivamente il gruppo è invitato a prostrarsi davanti al Signore. Segue l'invito ad ascoltare la voce del Signore. Nel silenzio dell'adorazione davanti al tempio Dio muove il cuore (“la sua voce”) indirizzandolo al bene, all'obbedienza dei comandamenti, al cambiamento della vita.
“Non indurite il cuore”; il cuore indurito non ascolta la voce del Signore e segue i suoi pensieri, ma si troverà a vagare nei deserti di un'esistenza senza Dio, senza alcun riposo.
Commento di P.Paolo Berti
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani.
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Rm 5, 1-2. 5-8
In questo brano, tratto dalla Lettera ai Romani, Paolo afferma che il cristiano giustificato trova nell’amore di Dio e nel dono dello Spirito, la garanzia della salvezza. La giustificazione mediante la fede non è una semplice teoria, ma ha un profondo effetto nella vita di coloro che l’hanno ottenuta: Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. La frase inizia con il participio aoristo passivo “giustificati” con cui si indica chiaramente un evento avvenuto nel passato, ma che mediante la fede, rappresenta ormai un dato di fatto che cambia radicalmente la vita per coloro che credono.
Paolo prosegue affermando che ormai “siamo in pace” nei confronti di Dio. C’è da tenere presente che nel linguaggio biblico la pace rappresenta un’armonia profonda dell’uomo con Dio, che comporta la pienezza di tutti i beni materiali e spirituali. La pace perciò che i credenti hanno ottenuto, porta con sé altri doni: “Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio”, ma la grazia, a cui hanno accesso i credenti, è Dio stesso in quanto si è donato pienamente a loro in Cristo. La giustificazione, è vero, non ha ancora conferito il pieno possesso di quella “gloria di Dio”, di cui l’umanità era stata privata a causa dei suoi peccati, ma dà la “speranza” di poterla conseguire un giorno. Di questa speranza possono “vantarsi” perché si tratta di un dono di Dio, mentre non possono vantarsi delle opere della legge intese come mezzo per diventare giusti. Il “già” e il “non ancora” caratterizzano dunque l’esistenza terrena del credente.
La speranza comporta ulteriori sviluppi nella vita del credente “La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato”.. La speranza non può deludere perché non si limita a provocare l’attesa delle realtà future, ma ne dà un’esperienza anticipata mediante l’esercizio dell’amore che lo Spirito santo riversa nei nostri cuori. L’amore di Dio che lo Spirito Santo effonde nei cuori, è l’amore con cui Dio ama, operando nel cuore del credente la risposta dell’amore, che conseguentemente avrà come termine Dio stesso e il prossimo.
Poi Paolo ricorda l’opera compiuta da Cristo per i credenti: Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Cristo dunque è morto per noi quando eravamo nello stato di debolezza e morì nel tempo stabilito. L’Apostolo commenta quanto ha appena affermato mettendo in luce il carattere straordinario della morte di Cristo: Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona: ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A volte può capitare che un uomo sia disposto a morire per una persona giusta: sono capitati i casi in cui la dedizione verso una persona amata (figlio, coniuge o amico) spinge fino al sacrificio della vita. Ma Cristo ha fatto una cosa che, umanamente parlando, è inconcepibile: egli è morto per noi proprio mentre eravamo ancora peccatori e nemici di Dio. E in questo gesto supremo si è manifestato l’amore di Dio per tutti noi.
Dal vangelo secondo Giovanni
[ In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». ] Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Gli replica la donna: «Signore, [ vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». ]
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».
[ Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo». ]
Gv 4, 5-42
Questo brano del Vangelo di Giovanni inizia presentando Gesù che lascia la Giudea per dirigersi verso la Galilea. Dovendo attraversare la Samaria, Gesù si ferma vicino al villaggio di Sicar (l’antica Sichem), che si trova tra i monti Ebal e Garizim. L’evangelista osserva che il villaggio è vicino al terreno che Giacobbe aveva dato a suo figlio Giuseppe e in quella località egli situa il pozzo di Giacobbe. Giovanni dice poi che Gesù affaticato per il viaggio, si siede presso il pozzo e precisa che è “l’ora sesta”, cioè circa mezzogiorno. Mentre Gesù si trova lì, una donna samaritana si avvicina al pozzo per attingere acqua.
Gesù rompe il ghiaccio chiedendo alla donna di dargli da bere. È solo e l’evangelista dice che i discepoli si erano recati in paese per far provvista di cibo. La samaritana rimane perplessa e gli chiede come mai lui che è un giudeo chieda da bere a una donna samaritana. Giovanni chiarisce il perchè di questa reazione spiegando che non esistevano buoni rapporti tra giudei e samaritani. Gesù riprende il discorso dicendo alla donna: -”Se tu conocessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. La donna gli chiede come può fare ciò, dal momento che è privo degli strumenti necessari per attingere acqua a un pozzo così profondo. Evidentemente il racconto gioca sull’ambiguità delle parole di Gesù e sul malinteso che esse creano. Ma proprio la mancanza di strumenti per attingere l’acqua porta la donna per la prima volta a porre il problema dell’identità di Gesù: Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame. Gesù allora fa una dichiarazione che dovrebbe chiarire ciò che intendeva dire: -”Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna”.. La samaritana, pensando ancora che egli parli di un’acqua materiale, gli chiede di poterla avere per evitare l’incomodo di dover ogni giorno attingere l’acqua del pozzo. La donna si dimostra quindi disponibile alla proposta di Gesù, ma non ha compreso di che cosa veramente si tratti. Per attuare quanto le ha promesso, Gesù deve dunque darle più chiarimenti. Egli perciò cambia argomento e le domanda di andare a chiamare suo marito. Siccome la donna dice di non aver marito, Gesù approva e le fa notare che ha avuto cinque mariti e l’attuale non è suo marito. Gesù mette così in luce la sua situazione irregolare ed anche poco edificante, in quanto ha superato il numero dei tre matrimoni che erano consentiti, secondo le usanze giudaiche, a una donna e per di più vive con un uomo che non è suo marito.
La donna, sentendosi messa a nudo, riconosce in Gesù un profeta e fa così un primo passo per cogliere la sua vera identità. D’altra parte però, forse imbarazzata per la piega che sta prendendo il colloquio, ne approfitta per chiedergli un parere circa la diversa posizione di giudei e samaritani nei confronti del culto:
I nostri padri hanno adorato sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare. Di fronte al dilemma se si debba adorare Dio sul Garizim o a Gerusalemme Gesù risponde: -”Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, poi soggiunge: Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai giudei.
L’origine giudaica di Gesù garantisce che nel giudaismo vi sia una conoscenza autentica di Dio, anche se non tutti i giudei possono attribuirsi una tale prerogativa. I samaritani adorano lo stesso Dio, ma senza conoscerlo, cioè sono in una situazione di oscurità e di errore: forse Gesù allude qui al carattere riduttivo della fede dei samaritani che accettavano come ispirato solo il Pentateuco, Ma “dai giudei” viene ormai anche per loro la salvezza. Gesù chiarisce ora il suo pensiero:” Ma viene l’ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Il termine “verità” indica quell’attributo per cui Dio è costante nella sua fedeltà all’alleanza e attua continuamente le sue promesse di salvezza. L’adorazione in Spirito e verità indica quindi il pieno incontro con Dio dei tempi escatologici, a cui tende tutta l’esperienza religiosa di Israele. Gesù conclude la sua risposta sul vero culto dicendo: Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità”. La donna ribatte che solo il Messia potrà mettere fine a tale questione, egli risponde: -”Sono io, che ti parlo”. Da questa risposta risulta esplicitamente che il culto “in Spirito e verità” non può essere altro che la piena adesione a Cristo in quanto Messia, nuovo tempio di Dio. Con la rivelazione piena dell’identità di Gesù termina il colloquio con la samaritana.
I discepoli che sopraggiungono si stupiscono di vedere Gesù discorrere con una donna, ma nessuno di loro osa interrogarlo. Intanto la donna corre ad informare i suoi compaesani. Ciò che ella riferisce loro è prima di tutto il fatto di aver incontrato un uomo che conosceva tutto ciò che lei aveva fatto; da qui la domanda: Che sia lui il Cristo? Alla fine l’evangelista osserva che molti samaritani credettero in lui per la parola della donna che raccontava loro la sua esperienza. Essi vanno da Gesù e lo pregano di rimanere con loro. Egli acconsente e si ferma con loro due giorni. Molti credono per la sua “parola” e dicono alla donna che ora non credono per quanto ha detto lei ma perché hanno udito e sanno che è egli veramente il Salvatore del mondo. In contrasto con la fede incerta e fragile dei giudei, che credono perché hanno visto i segni, i samaritani credono sulla parola di Gesù.
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Il Vangelo di oggi ci presenta l’incontro di Gesù con la donna samaritana, avvenuto a Sicar, presso un antico pozzo dove la donna si recava ogni giorno per attingere acqua. Quel giorno, vi trovò Gesù, seduto, «affaticato per il viaggio».
Egli subito le dice: «Dammi da bere» . In questo modo supera le barriere di ostilità che esistevano tra giudei e samaritani e rompe gli schemi del pregiudizio nei confronti delle donne. La semplice richiesta di Gesù è l’inizio di un dialogo schietto, mediante il quale Lui, con grande delicatezza, entra nel mondo interiore di una persona alla quale, secondo gli schemi sociali, non avrebbe dovuto nemmeno rivolgere la parola. Ma Gesù lo fa! Gesù non ha paura. Gesù quando vede una persona va avanti, perché ama. Ci ama tutti. Non si ferma mai davanti ad una persona per pregiudizi. Gesù la pone davanti alla sua situazione, non giudicandola ma facendola sentire considerata, riconosciuta, e suscitando così in lei il desiderio di andare oltre la routine quotidiana.
Quella di Gesù era sete non tanto di acqua, ma di incontrare un’anima inaridita. Gesù aveva bisogno di incontrare la Samaritana per aprirle il cuore: le chiede da bere per mettere in evidenza la sete che c’era in lei stessa. La donna rimane toccata da questo incontro: rivolge a Gesù quelle domande profonde che tutti abbiamo dentro, ma che spesso ignoriamo. Anche noi abbiamo tante domande da porre, ma non troviamo il coraggio di rivolgerle a Gesù!
La Quaresima, cari fratelli e sorelle, è il tempo opportuno per guardarci dentro, per far emergere i nostri bisogni spirituali più veri, e chiedere l’aiuto del Signore nella preghiera. L’esempio della Samaritana ci invita ad esprimerci così: “Gesù, dammi quell’acqua che mi disseterà in eterno”.
Il Vangelo dice che i discepoli rimasero meravigliati che il loro Maestro parlasse con quella donna. Ma il Signore è più grande dei pregiudizi, per questo non ebbe timore di fermarsi con la Samaritana: la misericordia è più grande del pregiudizio. Questo dobbiamo impararlo bene! La misericordia è più grande del pregiudizio, e Gesù è tanto misericordioso, tanto! Il risultato di quell’incontro presso il pozzo fu che la donna fu trasformata: «lasciò la sua anfora», con la quale veniva a prendere l’acqua, e corse in città a raccontare la sua esperienza straordinaria. “Ho trovato un uomo che mi ha detto tutte le cose che io ho fatto. Che sia il Messia?” Era entusiasta. Era andata a prendere l’acqua del pozzo, e ha trovato un’altra acqua, l’acqua viva della misericordia che zampilla per la vita eterna. Ha trovato l’acqua che cercava da sempre! Corre al villaggio, quel villaggio che la giudicava, la condannava e la rifiutava, e annuncia che ha incontrato il Messia: uno che le ha cambiato la vita. Perché ogni incontro con Gesù ci cambia la vita, sempre. E’ un passo avanti, un passo più vicino a Dio. E così ogni incontro con Gesù ci cambia la vita. Sempre, sempre è così.
In questo Vangelo troviamo anche noi lo stimolo a “lasciare la nostra anfora”, simbolo di tutto ciò che apparentemente è importante, ma che perde valore di fronte all’«amore di Dio». Tutti ne abbiamo una, o più di una! Io domando a voi, anche a me: “Qual è la tua anfora interiore, quella che ti pesa, quella che ti allontana da Dio?”. Lasciamola un po’ da parte e col cuore sentiamo la voce di Gesù che ci offre un’altra acqua, un’altra acqua che ci avvicina al Signore. Siamo chiamati a riscoprire l’importanza e il senso della nostra vita cristiana, iniziata nel Battesimo e, come la Samaritana, a testimoniare ai nostri fratelli. Che cosa? La gioia! Testimoniare la gioia dell’incontro con Gesù, perché ho detto che ogni incontro con Gesù ci cambia la vita, e anche ogni incontro con Gesù ci riempie di gioia, quella gioia che viene da dentro. E così è il Signore. E raccontare quante cose meravigliose sa fare il Signore nel nostro cuore, quando noi abbiamo il coraggio di lasciare da parte la nostra anfora.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 23 marzo 2014
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)