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Henryk

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Le letture che la liturgia di questa domenica ci propone, hanno come tema l’amore senza misura verso tutti e nonostante tutto. L’amore per i nemici così umanamente difficile, sgorga dalla paternità universale di Dio e si dove concretizzare nei gesti della nostra vita quotidiana e nel nostro comportamento.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Levitico, troviamo l’invito del Signore, che in armonia con il brano del Vangelo, ci stimola ad essere santi come Lui è Santo.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, afferma che “santo è il tempio di Dio, che siete voi.” La nostra santità dipende da come sapremo accogliere e ospitare nella nostra vita la santità di Dio, divenendone il tempio vivente. Solo grazie a questa accoglienza, non al
nostro sforzo, possiamo obbedire all’invito di Dio di essere santi come Lui è Santo.
Il Vangelo di Matteo prosegue con la lettura del “Discorso della Montagna” e sulla scia della precedente domenica, si completa la serie delle antitesi. Gesù porta alla pienezza l’esigenza di una vita fraterna: occorre strappare dal cuore l’istinto della vendetta, fino a capire che veramente la migliore vendetta è il perdono, ricambiando il male ricevuto in bene. Solo così si imita la misericordia del Padre che fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni. Se guardiamo l’altro non con gli occhi del mondo, ma con quelli di Dio, potremo aprirci al comandamento dell’amore. E’ questo che permette di arrivare ad amare persino i nemici, perchè in essi scorgiamo il riflesso di Cristo che si è incarnato per salvarci tutti.

Dal Libro del Levitico
Il Signore parlò a Mosè e disse:
«Parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo.
Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”».
Lv 19, 1-2.17-18

Il libro del Levitico è il terzo libro del Pentateuco. E’ stato scritto in Giudea da autori ignoti intorno al VI-V secolo a.C, ed è composto da 27 capitoli contenenti unicamente leggi religiose e sociali. Il nome gli deriva dal contenuto prevalentemente legislativo, proprio dei Leviti, i membri della tribù di Levi, ai quali era affidato il compito di sorvegliare il tabernacolo e il tempio. Il libro è infatti incentrato sulle leggi e le norme culturali-ritualistiche relative ai sacrifici, al sacerdozio, alla consacrazione dell’altare ed alle feste. E’ costituito da due grandi sezioni, contenenti molte delle formule tipiche delle “mitzvot” ebraiche che sono 613 precetti, che l'ebreo ortodosso deve seguire per adempiere al suo ruolo sacerdotale nel mondo. La prima parte, corrispondente ai capitoli 1-16, descrive in modo dettagliato i rituali del culto, mentre la seconda parte (capitoli 17-26) è incentrata sulla legge di santità.
Questo brano tratto dal capitolo 19 si apre con l’esortazione che dà il titolo a tutta la sezione:“Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”.
Qui Dio si presenta come Colui al quale appartiene la qualifica di “santo”: con essa si mette in luce la Sua trascendenza, cioè la Sua radicale separazione da tutto ciò che è limitato, sia in campo fisico che morale. Viene indicato poi di seguito come vivere in concreto la santità: Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso”. Il “prossimo” per il Levitico è certamente l’altro israelita perchè in questo contesto il termine “prossimo” è sinonimo di fratello, compatriota, membro del tuo popolo, ed indica perciò solo colui che appartiene al popolo di Dio.
Leggendo le pagine del Levitico, spesso noiose per il ripetere continuo delle stesse formule, l’unico vantaggio che si può avere è di penetrare attraverso formule e riti ormai fuori uso, fino al cuore della coscienza religiosa di Israele, ma come cristiano si può comprendere meglio il valore del sacrificio mediante il quale Gesù ha salvato l’umanità con il dono della Sua vita.

Salmo 102 : Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.

Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.

Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.

Quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono.

La critica è incline a datare la composizione di questo salmo nel tardo postesilio.
Il salmista esorta se stesso a benedire il Signore, e a non “dimenticare tutti i suoi benefici”. Questo ricordare è importantissimo nei momenti dolorosi per non cadere nello scoraggiamento e al contrario stabilirsi in una grande fiducia in Dio. Il salmista non presenta grandi tormenti storici della nazione; pare di poter indovinare normalità di vita attorno a lui. Egli si presenta a Dio come colpevole di numerose mancanze, ma ha sperimentato la misericordia di Dio, che lo ha salvato da angosce e anche probabilmente da una malattia grave: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità; salva dalla fossa la tua vita”.
Il salmista non cessa di celebrare la bontà, la giustizia di Dio, e prova una grande dolcezza nel fare questo: una dolcezza pacificante: “Ti circonda di bontà e di misericordia”.
Il salmista, fedele all'alleanza, loda Dio per la legge data per mezzo di Mosè: “Ha fatto conoscere a Mosè le sue vie, le sue opere ai figli d'Israele ”. Ma Dio non ha dato a Mosè solo la legge, ha anche dato l'annuncio del Cristo futuro, dal quale abbiamo la grazia e la verità (Cf. Gv 1,17). La misericordia di Dio celebrata dal salmista si è manifestata per mezzo di Gesù Cristo.
Il salmista si sente sicuro, compreso da Dio, che agisce sul suo popolo con la premura di un padre verso i figli. Un padre che “ricorda che noi siamo polvere”, e che perciò pur rilevando le colpe è pronto a perdonare pienamente: “Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno”.
L'alleanza osservata è fonte di bene, di unione con Dio. Egli effonde “la sua giustizia”, cioè la sua protezione dal male, sui “figli dei figli”.
Il salmista pieno di gioia conclude invitando tutti gli angeli a benedire Dio. Gli angeli non hanno bisogno di essere esortati a benedire Dio, ma certo possono essere invitati a rafforzare il nostro benedire Dio. Per una lode universale sono invitate a benedire Dio tutte le cose create (Cf. Ps 18,1s): “Benedite il Signore, voi tutte opere sue”.
Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo aspostolo ai Corinzi
Fratelli, non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente, perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio. Sta scritto infatti: «Egli fa cadere i sapienti per mezzo della loro astuzia». E ancora: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani».
Quindi nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
1Cor 3,16-23

Paolo continuando nella sua lettera ai Corinzi il tema della sapienza di Dio rivelatasi nella croce di Cristo, distingue e condanna ogni culto della personalità. Si preoccupa di difendere non le sue prerogative di fondatore della comunità di Corinto, ma il ruolo di Cristo, senza del quale la comunità non esisterebbe e non potrebbe sussistere.
Paolo conclude la sua riflessione sulla comunità come edificio con una domanda: non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? I corinzi devono ricordarsi che essi sono il “tempio di Dio” e che lo Spirito di Dio abita in loro: si passa così dal concetto generico della comunità come edificio a quello del luogo in cui, secondo la fede ebraica, abitava Dio stesso o il suo Spirito. Dopo la venuta di Gesù questo tempio non è più una costruzione materiale, ma il corpo stesso di Cristo risorto, che si identifica con la comunità, o con quello dei singoli credenti. L’Apostolo risponde alla sua domanda affermando con forza: Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.
Accanto ai predicatori che bene o male costruiscono su Cristo come fondamento, ve ne sono dunque altri che costruiscono su basi diverse, minando alla radice l’esistenza stessa della comunità, (ricordiamoci che nell’AT colui che profanava un oggetto santo veniva immediatamente colpito dall’ira tremenda di Dio (v.2Sam,6,6-7)) così chi distrugge la comunità va lui stesso incontro a una terribile condanna.
Dopo aver delineato il compito dei predicatori in rapporto a Dio e alla comunità, Paolo chiarisce il primato che spetta alla comunità nei loro confronti. Per evitare ogni equivoco Paolo fa quindi una premessa che si ispira al discorso precedente circa la vera e la falsa sapienza: “Nessuno si illuda. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente”.
Dopo aver messo in risalto la futilità della sapienza umana, alla quale rischiano di ispirarsi i corinzi, l’apostolo giunge al punto che gli sta a cuore: ...nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro”.
La più grande stoltezza per i cristiani è quella di considerare qualcuno, fosse pure un ottimo predicatore o un apostolo, al di sopra di sé, per poi trarne un motivo di vanto stabilendo con lui un legame di dipendenza. (Questa situazione è quanto mai attuale anche oggi) . Essi devono sapere che tutto appartiene a loro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.
Nel piano di Dio i credenti sono dunque veramente al primo posto. Nulla può imporre il suo dominio su di loro, non solo i ministri, ma neppure quelle realtà in cui è immersa l’esistenza umana e da cui essa è condizionata (mondo, vita, morte, presente e futuro). In altre parole è la comunità che dà un senso non solo ai suoi capi, ma anche alle realtà che la circondano. E questo non per una grandezza da essa acquisita, ma perché, mediante Cristo, appartiene ormai a Dio.

Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Mt 5,38-48

Anche questo brano del Vangelo Matteo segue il discorso della montagna e completa la serie delle antitesi che Gesù stabilisce tra la vecchia interpretazione riduttiva della Legge e la novità che Lui propone.
Queste due ultime antitesi riguardano la relazione col prossimo. Anche qui Gesù vuole dimostrare la sua fedeltà alla Legge, ma anche come si può trasformare l’antico precetto in cui era insito ciò che Lui ora afferma. Il primo caso considera quel principio noto come “legge del taglione”. C’è subito da chiarire che questo principio non era certo un invito alla vendetta, anzi era un rigoroso strumento di equilibrio giuridico consistente nell’infliggere all'offensore una pena uguale all'offesa ricevuta. La funzione di questa legge era di porre un limite alle vendette private, che spesso degeneravano in faide.
Gesù propone di superare la pura legge della giustizia per entrare in quella del perdono e della non-violenza. Fa anche degli esempi divenuti celebri: la guancia offerta allo schiaffo, il mantello ceduto oltre alla tunica, la marcia forzata.
Sulla stessa linea c’è l’antitesi sull’amore per i nemici. Gesù fa riferimento al libro del Levitico dal quale è desunta la famosa frase “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Il concetto di “prossimo “ era però allora definito attraverso una serie di cerchi che abbracciavano la famiglia, la tribù, il popolo in Israele. Fuori di questa cerchia non si andava. Anche i profeti ebrei, che erano aperti ad una maggiore benevolenza, l’idea di amare i propri nemici l’avrebbero considerata follia Il salmo 139, per es., recita così: Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei nemici.
Gesù anche qui propone qualcosa di sorprendente che spezza i rigidi legami convenzionali, spingendoci a considerare prossimo tutti gli uomini, compresi i nemici infatti dice: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Gesù propone uno sforzo che sembra andare contro natura, ma non si tratta di sopportare pazientemente le offese ricevute, ma di farsi parte attiva per ricercare il bene e l'affermazione di chi invece ci ha offesi. Si tratta di non farsi nemico di chi si è fatto nostro nemico, di conquistare con l'amore chi ci ha offeso, mettendolo a confronto con un nuovo e inaspettato comportamento: non più occhio per occhio e dente per dente, ma un'altra legge non meno ardua e sconcertante, perché esce dai limitati schemi e aspettative umani per raggiungere l'uomo nella sua parte più vera e profonda: amore, perdono, misericordia, compassione contro l'odio e l'offesa. Il male va vinto con il bene, attivando la parte migliore dell'uomo, che mira a redimerlo, riportandolo nella vita stessa di Dio.
Anche questo brano del Vangelo Matteo segue il discorso della montagna e completa la serie delle antitesi che Gesù stabilisce tra la vecchia interpretazione riduttiva della Legge e la novità che Lui propone.
Queste due ultime antitesi riguardano la relazione col prossimo. Anche qui Gesù vuole dimostrare la sua fedeltà alla Legge, ma anche come si può trasformare l’antico precetto in cui era insito ciò che Lui ora afferma. Il primo caso considera quel principio noto come “legge del taglione”. C’è subito da chiarire che questo principio non era certo un invito alla vendetta, anzi era un rigoroso strumento di equilibrio giuridico consistente nell’infliggere all'offensore una pena uguale all'offesa ricevuta. La funzione di questa legge era di porre un limite alle vendette private, che spesso degeneravano in faide.
Gesù propone di superare la pura legge della giustizia per entrare in quella del perdono e della non-violenza. Fa anche degli esempi divenuti celebri: la guancia offerta allo schiaffo, il mantello ceduto oltre alla tunica, la marcia forzata.
Sulla stessa linea c’è l’antitesi sull’amore per i nemici. Gesù fa riferimento al libro del Levitico dal quale è desunta la famosa frase “amerai il tuo prossimo come te stesso”. Il concetto di “prossimo “ era però allora definito attraverso una serie di cerchi che abbracciavano la famiglia, la tribù, il popolo in Israele. Fuori di questa cerchia non si andava. Anche i profeti ebrei, che erano aperti ad una maggiore benevolenza, l’idea di amare i propri nemici l’avrebbero considerata follia . Il salmo 139, per es., recita così: Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici? Li detesto con odio implacabile come se fossero miei nemici.
Gesù anche qui propone qualcosa di sorprendente che spezza i rigidi legami convenzionali, spingendoci a considerare prossimo tutti gli uomini, compresi i nemici infatti dice: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».
Gesù propone uno sforzo che sembra andare contro natura, ma non si tratta di sopportare pazientemente le offese ricevute, ma di farsi parte attiva per ricercare il bene e l'affermazione di chi invece ci ha offesi. Si tratta di non farsi nemico di chi si è fatto nostro nemico, di conquistare con l'amore chi ci ha offeso, mettendolo a confronto con un nuovo e inaspettato comportamento: non più occhio per occhio e dente per dente, ma un'altra legge non meno ardua e sconcertante, perché esce dai limitati schemi e aspettative umani per raggiungere l'uomo nella sua parte più vera e profonda: amore, perdono, misericordia, compassione contro l'odio e l'offesa. Il male va vinto con il bene, attivando la parte migliore dell'uomo, che mira a redimerlo, riportandolo nella vita stessa di Dio.

Il Vangelo di questa domenica fa parte ancora del cosiddetto “discorso della montagna”, la prima grande predicazione di Gesù. Oggi il tema è l’atteggiamento di Gesù rispetto alla Legge ebraica. Egli afferma: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» . Gesù dunque non vuole cancellare i comandamenti che il Signore ha dato per mezzo di Mosè, ma vuole portarli alla loro pienezza. E subito dopo aggiunge che questo “compimento” della Legge richiede una giustizia superiore, una osservanza più autentica. Dice infatti ai suoi discepoli: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli».
Ma che cosa significa questo «pieno compimento» della Legge? E questa giustizia superiore in che cosa consiste? Gesù stesso ci risponde con alcuni esempi. Gesù era pratico, parlava sempre con gli esempi per farsi capire. Inizia dal quinto comandamento del decalogo: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”; … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio» . Con questo, Gesù ci ricorda che anche le parole possono uccidere! Quando si dice di una persona che ha la lingua di serpente, cosa si vuol dire? Che le sue parole uccidono! Pertanto, non solo non bisogna attentare alla vita del prossimo, ma neppure riversare su di lui il veleno dell’ira e colpirlo con la calunnia. Neppure sparlare su di lui. Arriviamo alle chiacchiere: le chiacchiere, pure, possono uccidere, perché uccidono la fama delle persone! È tanto brutto chiacchierare! All’inizio può sembrare una cosa piacevole, anche divertente, come succhiare una caramella. Ma alla fine, ci riempie il cuore di amarezza, e avvelena anche noi. Vi dico la verità, sono convinto che se ognuno di noi facesse il proposito di evitare le chiacchiere, alla fine diventerebbe santo! È una bella strada! Vogliamo diventare santi? Sì o no? [Piazza: Si!] Vogliamo vivere attaccati alle chiacchiere come abitudine? Sì o no? [Piazza: No!] Allora siamo d’accordo: niente chiacchiere! Gesù propone a chi lo segue la perfezione dell’amore: un amore la cui unica misura è di non avere misura, di andare oltre ogni calcolo. L’amore al prossimo è un atteggiamento talmente fondamentale che Gesù arriva ad affermare che il nostro rapporto con Dio non può essere sincero se non vogliamo fare pace con il prossimo. E dice così: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello» .Perciò siamo chiamati a riconciliarci con i nostri fratelli prima di manifestare la nostra devozione al Signore nella preghiera.
Da tutto questo si capisce che Gesù non dà importanza semplicemente all’osservanza disciplinare e alla condotta esteriore. Egli va alla radice della Legge, puntando soprattutto sull’intenzione e quindi sul cuore dell’uomo, da dove prendono origine le nostre azioni buone o malvagie. Per ottenere comportamenti buoni e onesti non bastano le norme giuridiche, ma occorrono delle motivazioni profonde, espressione di una sapienza nascosta, la Sapienza di Dio, che può essere accolta grazie allo Spirito Santo. E noi, attraverso la fede in Cristo, possiamo aprirci all’azione dello Spirito, che ci rende capaci di vivere l’amore divino.
Alla luce di questo insegnamento, ogni precetto rivela il suo pieno significato come esigenza d’amore, e tutti si ricongiungono nel più grande comandamento: ama Dio con tutto il cuore e ama il prossimo come te stesso.
Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 16 febbraio 2014

 

Le letture che la Liturgia di questa domenica ci porta a meditare, hanno come filo conduttore la legge e il modo di applicarla: Gesù non è venuto ad abolire la legge antica , ma a portarla a compimento, per farla poi accettare come scelta interiore.

Nella prima lettura tratta dal libro del Siracide, davanti a noi Dio ha posto la via della vita e della morte. Il Signore lascia alla libertà dell’uomo la scelta tra il bene e il male, tra l’obbedienza alla sua legge e il suo rifiuto.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, li esorta a non confondere la sapienza degli uomini con la sapienza di Dio, e afferma che lo Spirito conosce le profondità di Dio e ce le rivela, consentendoci di contemplare qualche barlume della sua Sapienza e di lasciarci guidare sai suoi criteri

Nel Vangelo di Matteo troviamo ancora un altro brano tratto dal “Discorso della Montagna” e sulla scia della precedente domenica, si completa la serie delle antitesi, che Gesù stabilisce tra la vecchia interpretazione riduttiva della legge biblica e la novità della sua proposta. Le antitesi che oggi troviamo hanno un identico tema: la relazione col prossimo. Gesù anche qui vuole mostrare la sua fedeltà alla Legge, ma anche la trasformazione dell’antico precetto nella “pienezza” che esso conteneva solo in germe: “Non sono venuto per abolire ma per portare a compimento”. Gesù anche qui propone una scelta sorprendente che spezza i cerchi rigidi dei legami convenzionali, spingendoci a considerare prossimo tutti li uomini, compresi i nemici.

Dal libro del Siracide

Se vuoi osservare i suoi comandamenti;

essi ti custodiranno;

se hai fiducia in lui, anche tu vivrai.

Egli ti ha posto davanti fuoco e acqua:

là dove vuoi tendi la tua mano.

Davanti agli uomini stanno la vita e la morte:

a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà.

Grande infatti è la sapienza del Signore;

forte e potente, egli vede ogni cosa.

I suoi occhi sono su coloro che lo temono,

egli conosce ogni opera degli uomini.

A nessuno ha comandato di essere empio

e a nessuno ha dato il permesso di peccare.

Sir 15,16-21

Il libro del Siracide è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.

È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .

È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.

Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..

Questo brano anche dal versetto precedente non riportato dalla liturgia:“Egli da principio creò l’uomo e lo lasciò in balìa del suo proprio volere”costituisce una solenne affermazione della libertà umana. E’ la libertà dell’uomo che spiega il peccato: “A nessuno ha comandato di essere empio e a nessuno ha dato il permesso di peccare”. Scegliere il volere di Dio è scegliere la vita (Sal 32,13-19).; opporvisi è una scelta di morte: “Davanti agli uomini stanno la vita e la morte:a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà”.

Per Siracide la morte è inerente alla natura umana: Ogni corpo invecchia come un abito,è una legge da sempre: “Certo si muore!”(14,17) ma diventa castigo per chi si oppone a Dio . è un libro un po’ particolare perché fa parte della Bibbia cristiana, ma non figura nel canone ebraico. Si tratta di un testo deuterocanonico che, assieme ai libri di Rut, Tobia, Maccabei I e II, Giuditta, Sapienza e le parti greche del libro di Ester e di Daniele, è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, per cui è stato accolto dalla Chiesa Cattolica, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.

È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 196-175 a.C. da Yehoshua ben Sira (tradotto "Gesù figlio di Sirach", da qui il nome del libro "Siracide"), un giudeo di Gerusalemme, in seguito fu tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C. .

È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni, ed anche la saggezza popolare fa proprie alcune massime.

Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovava a soggiornare ad Alessandria d’Egitto, nel 38° anno del regno Tolomeo VIII, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 132 a.C..

In questo brano Siracide ricorda che Il Signore lascia ad ogni uomo la scelta tra il bene e il male, tra l’obbedienza alla sua legge e il suo rifiuto. Scegliere il volere di Dio è scegliere la vita, opporvisi è una scelta di morte.

Per Siracide la morte è inerente alla natura umana, ma diventa castigo per chi si oppone a Dio .

Dal Salmo 118 Beato chi cammina nella legge del Signore.
Beato chi è integro nella sua via
e cammina nella legge del Signore.
Beato chi custodisce i suoi insegnamenti
e lo cerca con tutto il cuore.

Tu hai promulgato i tuoi precetti
perché siano osservati interamente.
Siano stabili le mie vie
nel custodire i tuoi decreti.

Sii benevolo con il tuo servo e avrò vita,
osserverò la tua parola.
Aprimi gli occhi perché io consideri
le meraviglie della tua legge.

Insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti
e la custodirò sino alla fine.
Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge
e la osservi con tutto il cuore.

Questo salmo è il più lungo di tutto il salterio. E' un salmo alfabetico; ogni otto distici comincia con una delle 22 lettere dell'alfabeto, risultando così un totale di 176 distici. Come procedimento usa il metodo della variazione concettuale, cioè vengono usati diversi termini per designare la medesima cosa: la legge divina.

La legge per il salmista non sono solo i dieci comandamenti, ma tutte le grandi azioni di Dio per la liberazione del popolo dall'Egitto, la conquista della terra promessa, la liberazione da Babilonia ecc.: “i tuoi giudizi sono giusti".

Il salmo è stato probabilmente scritto poco prima della deportazione a Babilonia.

Vi compare un giovane, che si trova esposto alla pressione di coloro che in Israele hanno aderito agli idoli e sono capeggiati dal re. Il pio giovane è combattuto per la sua fedeltà alla legge; viene calunniato ingiustamente, fatto oggetto di umiliazioni, di stenti, di insulti: “Gli orgogliosi mi insultano aspramente,ma io non mi allontano dalla tua legge.”; “Si vergognino gli orgogliosi che mi opprimono con menzogne”; “E' tempo che tu agisca, Signore, hanno infranto la tua legge”; “Uno zelo ardente mi consuma, perché i miei avversari dimenticano le tue parole”. I suoi persecutori sono giunti fin quasi ad eliminarlo: “Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra”. “Mi hanno scavato fosse gli orgogliosi” Egli, nel suo disagio continuo, si ritiene un forestiero, un pellegrino: “Forestiero sono qui sulla terra”; “nella dimora del mio esilio”. Tuttavia il giovane forte dell'osservanza della legge, che gli dà luce, sapienza, saggezza, non teme e spera che il Signore lo aiuterà: “Quelli che ti temono al vedermi avranno gioia”; “Davanti ai re parlerò dei tuoi insegnamenti e non dovrò vergognarmi”. I re sono, oltre il re di Gerusalemme, quelli dei popoli vicini, e in particolare quelli di Assiria e Babilonia, nonché del faraone. Tutto ciò fa intendere che il giovane doveva avere una certa autorità, e si potrebbe formulare un'identificazione con un sacerdote del tempio legato al movimento profetico.

Il giovane riconosce di essere stato lontano per il passato dalla parola di Dio: “Prima di essere umiliato andavo errando, ma ora osservo la tua promessa”.

Il giovane Giudeo intende, di fronte alla pressione di coloro che hanno abbandonato la legge e lo deridono, confermarsi saldamente nell'obbedienza alla legge, e intende testimoniarlo davanti a tutti; per questo chiede aiuto a Dio: “Mai dimenticherò i tuoi precetti, perché con essi tu mi fai vivere.”; “Ho giurato e lo confermo, di osservare i tuoi giusti giudizi”; “Rendi saldi i miei passi secondo la tua promessa”; “Mi venga in aiuto la tua mano, perché ho scelto i tuoi precetti". "Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”.

Il salmista presenta la ricchezza della parola di Dio, della sua legge, dei suoi precetti.

Il salmo nella Liturgia delle ore è presentato spezzato seguendo le lettere alfabetiche.

Il salmo è ricchissimo di sfaccettature luminose sul tema dell'osservanza della parola di Dio.

La recitazione cristiana vede la legge nel compimento attuato da Cristo (Mt 5,17).

Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo aspostolo ai Corinzi

Fratelli, tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla. Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria. Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria. Ma, come sta scritto:

Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì,

né mai entrarono in cuore di uomo,

Dio le ha preparate per coloro che lo amano.

Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito;

lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio.

1Cor 2,6-10

Continuando la sua prima lettera ai Corinzi, Paolo dopo aver affrontato il problema delle divisioni che si sono verificate nella comunità di Corinto, riprende il tema della sapienza,

In questo brano Paolo indica anzitutto che cosa non è questa sapienza: “tra coloro che sono perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo, che vengono ridotti al nulla”. Se i corinzi non si sono resi conto della sapienza di cui Paolo è maestro, ciò si deve al fatto che egli ne parla in termini conformi solo tra coloro che sono “perfetti” ossia maturi nella fede e sono in grado perciò di capire. Non servirebbe a niente illustrare questa sapienza a persone che non sono preparate a coglierne il significato profondo. La sapienza annunziata da Paolo non è di questo “mondo” e questo termine indica la realtà creata in quanto si oppone a Dio e rifiuta la salvezza portata da Cristo. Essa non è capita neppure dai “dominatori di questo mondo” ossia coloro che detengono il potere, di qualunque tipo esso sia: politico, religioso, militare, culturale.

Paolo passa poi a definire la sapienza che egli annunzia: “Parliamo invece della sapienza di Dio, che è nel mistero, che è rimasta nascosta e che Dio ha stabilito prima dei secoli per la nostra gloria.” Questa sapienza appartiene a Dio e in quanto tale è “misteriosa”, e Dio l’ha stabilita prima dei secoli e l’ha tenuta nascosta per rivelarla proprio ora “per la nostra gloria”. Paolo sottolinea ulteriormente il carattere nascosto di questa sapienza affermando che: “Nessuno dei dominatori di questo mondo l’ha conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria.”Dominatori di questo mondo” sono qui più espressamente i detentori del potere politico e religioso, tra i quali sono annoverate le autorità giudaiche e romane responsabili della morte di Gesù. La sapienza che Paolo insegna si identifica quindi con la persona di Gesù. Tutti i dominatori di questo mondo sono dunque quelli che hanno rifiutato la sapienza che Paolo comunica ai perfetti, perché attraverso la politica o la religione cercano la propria realizzazione umana, chiudendosi al dono di sé che Dio intende fare mediante la persona umiliata e sconfitta del Figlio.

Paolo caratterizza poi ulteriormente la sapienza da lui annunziata con una citazione biblica presa da diversi testi: sta scritto: Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo,Dio le ha preparate per coloro che lo amano.

Paolo poi conclude: Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; È solo per mezzo di una rivelazione che Paolo stesso è venuto a conoscenza delle cose di Dio, e questa rivelazione è opera dello Spirito. Lo Spirito non è una realtà estranea a Dio:lo Spirito infatti conosce bene ogni cosa, anche le profondità di Dio. L’apostolo prosegue poi attribuendo allo Spirito una conoscenza di Dio analoga alla conoscenza di sé che è propria dello spirito umano: nessuno può conoscere le cose di Dio senza un intervento speciale dello Spirito, che ai credenti è stato conferito mediante Gesù Cristo

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.

Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.

Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.

Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!

Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.

Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.

Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno.

Mt 5,17-37.

Anche questo brano del Vangelo segue il discorso della montagna che è il primo dei cinque grandi discorsi che formano la struttura del Vangelo di Matteo. E’ il discorso che si può definire delle sei antitesi che si apre con una piccola raccolta di detti dei quali almeno i primi due sono antichi, e sono anche riportati da Luca. L’evangelista, unificando questi detti li ha riformulati in modo tale da far loro esprimere l’atteggiamento di Gesù nei confronti della legge.

Il primo detto è così formulato: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”. Si può avere l’impressione che con questa frase Gesù voglia imporre ai discepoli una rigida osservanza della legge mosaica, ma qui si indica non tanto l’osservanza letterale della legge, quanto piuttosto quel nuovo modo di intendere e di praticare la legge che è conforme alla buona novella proclamata da Gesù.

Nel secondo detto riportato, Gesù dice: “In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto”. L’Antico Testamento resta parola di Dio anche per Gesù; il suo valore rimane inalterato, anche nel minimo dettaglio come può essere un iota” (la lettera più minuscola dell’alfabeto ebraico).

Il terzo detto è il seguente: “Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.” In questo versetto si affronta più direttamente il problema riguardante l’osservanza dei precetti contenuti nella legge: alcuni di essi sono considerati “grandi”, mentre altri, come le varie prescrizioni rituali e alimentari, sono chiaramente secondari ossia “minimi””

L’ultimo detto è : Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Nel linguaggio biblico la giustizia, già nominata da Matteo nelle beatitudini, indica la fedeltà a Dio che si esprime nell’obbedienza ai Suoi comandamenti. Per l’evangelista la giustizia del discepolo deve superare quella degli scribi e dei farisei non perché egli sia tenuto ad osservare precetti più rigidi di quelli insegnati da costoro (Mt 23,3), ma perché egli deve farlo con una mentalità e uno spirito nuovi.

Nell’introduzione alle antitesi Matteo ricompone dunque alcuni antichi detti di Gesù, dai quali fa emergere l’idea secondo cui la legge, mantiene sempre tutta la sua validità, a patto però che essa sia interpretata nell’ottica del compimento portato da Gesù.

La prima antitesi si apre con la citazione del precetto, contenuto nel decalogo, che vieta di uccidere: Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. In contrasto con questa prescrizione, intesa naturalmente in senso restrittivo, Gesù afferma: Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. In questo detto sono equiparati all’omicidio altri tre comportamenti: l’adirarsi con il proprio fratello, il dirgli “stupido”, e il dirgli “pazzo”. È chiaro che non si tratta qui solamente di reazioni naturali emotive, ma di un odio che reca molto male al fratello. Le sanzioni previste per questi peccati consistono nell’essere sottoposti al giudizio, al sinedrio e al fuoco della geenna: da questo crescendo appare che si tratta di peccati gravissimi, che alla fine portano alla rottura con Dio.

Seguono poi due esempi pratici coi quali si spiega in modo positivo quale deve essere il comportamento abituale del discepolo. Nel primo di essi Gesù afferma che, se uno sta facendo la sua offerta nel tempio e si ricorda di avere un contrasto con un suo fratello, deve interrompere la sua azione e riprenderla solo dopo essersi riconciliato con lui.

La seconda antitesi riguarda il sesto comandamento: Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Anche qui Gesù si contrappone non al precetto in se stesso, ma a una sua interpretazione riduttiva, sottolineando come anche un semplice sguardo di desiderio rivolto a una donna debba già considerarsi come un adulterio: Dio vuole che l’obbedienza non si limiti agli atti esterni, ma parta dal cuore. A questa antitesi fa seguito un brano formulato anch’esso in forma antitetica:

Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

In contrasto con la norma che permette a un uomo di ripudiare la propria moglie scrivendo per lei un libello di ripudio (V. Dt 24,1), Gesù rifiuta il ripudio in se stesso, in quanto è occasione di adulterio: infatti egli considera come adultera non solo la donna ripudiata che contrae un nuovo matrimonio, ma anche l’uomo che la sposa.

Un’idea così radicale deve avere creato difficoltà notevoli alle coppie cristiane: perciò la tradizione successiva sottolinea come, in caso di separazione, ciascuno dei due coniugi commetta adulterio solo se si risposa (Lc 16,18; Mc 10,10-11; Mt 19,9).

Matteo però ritocca anche la direttiva originaria, in quanto afferma che essa non si applica nei casi di unione illegittima (V. clausola matteana).

La terza antitesi riguarda l’uso di chiamare Dio a testimone delle proprie affermazioni: Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Sì, sì”, “No, no”; il di più viene dal Maligno.

Il precetto che proibisce di giurare il falso è preso dal decalogo (Lv 19,12), mentre l’obbligo di adempiere i propri giuramenti si ispira ad altri passi dell’AT (Nm 30,3; Dt 23,22; Sal 50,14). Gesù invece proibisce qualsiasi forma di giuramento e ricorda infine che il sì e il no sono più che sufficienti per dar valore alla propria parola.

Per concludere Gesù condanna l’interpretazione riduttiva ed ipocrita fatta dagli scribi e dai farisei, è il loro atteggiamento che Gesù condanna, lo stesso che può avere anche il fedele cristiano oggi.

Questo atteggiamento purtroppo anche oggi nasce da una lettura presa alla lettera della parola di Dio, ma Gesù spezza questo schema che riguarda anche noi cristiani, che ci accontentiamo di confessare: Non ho ammazzato nessuno (senza pensare che abortire o procurare aborto vuol dire uccidere) , non ho rubato, non ho commesso adulterio, non ho ingannato nessuno. Gesù ci ripresenta il Decalogo nel suo vero significato: i comandamenti sono solo segni essenziali di un atteggiamento interiore, totale, che deve coinvolgere però tutte le scelte quotidiane. Non si è giusti solo in alcuni atteggiamenti superficiali, e magari in alcune ore del giorno, ma lo si è sempre e totalmente quando ci si consacra all’amore del prossimo rispettandolo e aiutandolo, all’amore matrimoniale in una piena donazione, e soprattutto all’amore per la verità e la giustizia anche nelle piccole cose, quelle che solo Dio conosce. In questa luce si comprende cosa Gesù vuol dire quando dice che è venuto a dare pieno compimento alla Legge e a tutto ciò che i profeti avevano annunciato.

Contro i 613 precetti della Legge numerati dai rabbini, Gesù ci ricorda che il comandamento è uno solo eppure abbraccia ogni atto e ogni istante della nostra vita: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. … Amerai il prossimo tuo come te stesso. E’ da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”.

Nella seconda Lettura di questa domenica, san Paolo afferma: «Nessuno ponga il suo vanto negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» . Perché dice questo l’Apostolo? Perché il problema che si trova di fronte è quello delle divisioni nella comunità di Corinto, dove si erano formati dei gruppi che si riferivano ai vari predicatori considerandoli loro capi; dicevano: «Io sono di Paolo, io sono di Apollo, io sono di Cefa…». San Paolo spiega che questo modo di pensare è sbagliato, perché la comunità non appartiene agli apostoli, ma sono loro - gli apostoli - ad appartenere alla comunità; però la comunità, tutta intera, appartiene a Cristo!

Da questa appartenenza deriva che nelle comunità cristiane – diocesi, parrocchie, associazioni, movimenti – le differenze non possono contraddire il fatto che tutti, per il Battesimo, abbiamo la stessa dignità: tutti, in Gesù Cristo, siamo figli di Dio. E questa è la nostra dignità: in Gesù Cristo siamo figli di Dio! Coloro che hanno ricevuto un ministero di guida, di predicazione, di amministrare i Sacramenti, non devono ritenersi proprietari di poteri speciali, padroni, ma porsi al servizio della comunità, aiutandola a percorrere con gioia il cammino della santità.

Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 23 febbraio 2014

Le letture che la Liturgia di questa domenica ci porta a meditare, sono impostate sulla luce, ma questa luce è quella dell’uomo: il giusto inondato dalla luce divina diventa a sua volta fiaccola che risplende e riscalda.

Nella prima lettura il Profeta Isaia, reagendo contro una religione fatta di puro formalismo spiega quali siano le pratiche religiose gradite a Dio. Solo in questo caso la gloria del Signore sarà con il suo fedele e questi sarà come luce nelle tenebre.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo continuando la sua lettera ai Corinzi, ricorda loro che la sua predicazione si ispira alla sapienza del Signore, che è la sola capace di condurre l’uomo alla conversione e alla salvezza. .

Il Vangelo di Matteo ci propone un brano tratto dal “Discorso della Montagna” in cui Gesù dice ai suoi discepoli, ed anche a noi oggi: “Voi siete il sale della terra…e luce del mondo”. E’ un invito, quello di Gesù, a non essere cristiani mascherati, in incognito, che passano la vita in mezzo agli altri senza farsi apostoli del suo credo. Che sale della terra sono se non hanno sapore? Che razza di lucerna sono se non illuminano? Senza nascondersi, senza mimetizzarsi, senza impigrirsi il cristiano deve essere esposto al sole di Dio come la città posta sui monti. E la luce ricevuta non deve racchiuderla nel “moggio” del suo gruppo, della sua famiglia , della sua parrocchia, ma disseminarla su tutti i fratelli e su tutte le creature di Dio.

Dal libro del profeta Isaìa

Così dice il Signore:

«Non consiste forse [il digiuno che voglio]

nel dividere il pane con l’affamato,

nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,

nel vestire uno che vedi nudo,

senza trascurare i tuoi parenti?

Allora la tua luce sorgerà come l’aurora,

la tua ferita si rimarginerà presto.

Davanti a te camminerà la tua giustizia,

la gloria del Signore ti seguirà.

Allora invocherai e il Signore ti risponderà,

implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”.

Se toglierai di mezzo a te l’oppressione,

il puntare il dito e il parlare empio,

se aprirai il tuo cuore all’affamato,

se sazierai l’afflitto di cuore,

allora brillerà fra le tenebre la tua luce,

la tua tenebra sarà come il meriggio».

Is 58,7-10

La terza parte del libro di Isaia (Is 56-66) contiene una raccolta di oracoli che, per lo stile e lo sfondo storico, sono attribuiti ad un anonimo profeta del postesilio, al quale perciò è stato dato il nome di Trito (Terzo) Isaia. Alcuni hanno ritenuto che egli fosse un discepolo del Deuteroisaia, mentre altri hanno pensato a un profeta vissuto più di un secolo dopo di lui. Il profeta si rivolge non più agli esiliati, ma ai giudei ritornati da Babilonia a Gerusalemme; il suo centro di interesse non è più il nuovo esodo, ma il ristabilimento delle istituzioni teocratiche, le quali sono minacciate non da agenti esterni, ma dalla infedeltà del popolo.

Il capitolo, da dove è tratto questo brano, si apre con un’aspra critica del digiuno così come veniva praticato in modo ipocrita dalla gente, il vero digiuno, gradito a Dio, consiste invece nell’impegno fattivo per la giustizia. Il capitolo continua con il brano riportato dalla liturgia: «Non consiste forse [il digiuno che voglio] nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto,nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Queste direttive si comprendono nel contesto del postesilio, nel quale non si erano verificate le speranze di un mondo rinnovato, ma invece erano ritornate tutte le discriminazioni che erano state condannate prima dai profeti. Il vero digiuno implica, oltre che l’eliminazione dei pesanti condizionamenti imposte dai ricchi alle classi più povere, una solidarietà efficace, che porta a condividere quanto si ha con gli affamati, con tutti coloro che sono privi del necessario per condurre una vita dignitosa. Il profeta sottolinea comunque che ciò non deve avvenire a discapito dei propri familiari perché hanno un maggiore diritto ad essere aiutati. Il testo prosegue poi con le beatitudini che derivano dal vero digiuno: «Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Il profeta immagina che da un comportamento giusto emani una grande luce, che si accompagna con la guarigione di tutte le piaghe da cui è afflitto il popolo. La pratica della giustizia infatti va di pari passo con la manifestazione della gloria di Dio. In altre parole la gloria di Dio cioè la sua presenza salvifica, si manifesta appunto nella giustizia sociale praticata dal popolo. Solo la pratica della giustizia sarà per il popolo una garanzia che la sua preghiera sarà ascoltata da Dio: «Allora invocherai e il Signore ti risponderà, implorerai aiuto ed egli dirà: “Eccomi!”».

Ritornando poi sul comportamento richiesto in tempo di digiuno, il profeta soggiunge: «Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio» .

Un comportamento improntato al rispetto dei diritti della persona e alla solidarietà, farà del popolo il portatore di una luce che le tenebre di questo mondo non potranno soffocare.

Il tema della luce è molto caro al Terzo Isaia, che vede in essa la manifestazione della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Seguendo questa luce, il popolo stesso diventa luce del mondo, cioè può testimoniare a tutta l’umanità la vera religione, basata non sul culto ma sulla giustizia sociale.

Salmo 111 - Il giusto risplende come luce.

Spunta nelle tenebre,

luce per gli uomini retti:

misericordioso, pietoso e giusto.

Felice l’uomo pietoso che dà in prestito,

amministra i suoi beni con giustizia.

Egli non vacillerà in eterno:

eterno sarà il ricordo del giusto.

Cattive notizie non avrà da temere,

saldo è il suo cuore, confida nel Signore.

Sicuro è il suo cuore, non teme,

egli dona largamente ai poveri,

la sua giustizia rimane per sempre,

la sua fronte s’innalza nella gloria.

E' un salmo stilisticamente gemello del 110. Tratta del giusto il quale è beato perché “teme il Signore”. Questo timore non gli dà paura, ma lo zelo nell'osservanza dei comandamenti, i quali donano pace e gioia: “nei suoi precetti trova grande gioia”.

Il giusto è gradito a Dio e “la discendenza dei giusti sarà benedetta”.

“La sua giustizia rimane per sempre”, perché deriva dall'osservanza della parola di Dio, la quale non guida l'uomo a passi falsi. Il giusto, per il suo esempio e la sua parola, è riconosciuto dai giusti come luce che fuga le tenebre: “Spunta nelle tenebre, luce per gli uomini retti”.

L' uomo che dà in prestito applica l'amore verso il prossimo e perciò “amministra i suoi beni con giustizia”, senza avarizia, senza egoismo; tuttavia non bisogna lasciarsi raggirare poiché (Sir 12,4): “Fà doni all'uomo pio e non dare aiuto al peccatore”.

“Eterno sarà il ricordo del giusto" perché è stato di esempio, di luce, e la sua memoria è dolce e ricca di stimoli al bene: “La sua giustizia rimane per sempre”.

“Saldo è il suo cuore, confida nel Signore”; la saldezza del cuore deriva non da durezza interiore, ma dalla confidenza in Dio, che non lascia mai il giusto senza aiuto di fronte all'empio: “Sicuro è il suo cuore, non teme, finché non vedrà la rovina dei suoi nemici”.

Non solo il giusto dà in prestito a chi è leale, ma “dona largamente ai poveri”.

“La sua fronte si innalza nella gloria”, cioè la sua capacità nella preghiera lo pone nella vittoria, nella gloria che accompagna la vittoria nelle aspre battaglie della vita. Ma di fronte alle vittorie sui suoi nemici egli rimane umile, “misericordioso, pietoso e giusto”. L'empio che lo invidia e lo insidia “digrigna i denti”, ma nulla può, e “si consuma” nella sua impotenza contro il giusto, poiché “il desiderio dei malvagi va in rovina”, anche se può prevalere sul giusto fino ad ucciderlo; ma non potrà vincerlo nel cuore (Cf. Mt 10,28).

Commento di P.Paolo Berti

Dalla 1^ lettera di S.Paolo aspostolo ai Corinzi

Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.

Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

1Cor 2,1-5

Continuando la sua prima lettera ai Corinzi, Paolo ricorda loro l’attività da lui svolta a Corinto: “Io, fratelli, quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza”.

Paolo ha annunziato questo mistero senza far leva su espedienti che, come l’eloquenza nel parlare o i ragionamenti filosofici, che sono espressione della sapienza umana, servono a determinare il successo personale.

Egli prosegue poi indicando quale è stato l’oggetto del suo annunzio:”ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso”. In altre parole, egli non ha fatto altro che proporre il nucleo centrale del Vangelo, ossia la persona di Cristo, proprio nel culmine della Sua debolezza e del Suo fallimento umano.

Paolo illustra poi le modalità con cui ha operato in Corinto: “La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza”

In altre parole, Paolo non ha voluto imporsi personalmente, sfoggiando doti o capacità personali, ma ha lasciato che fosse lo Spirito stesso a convincere i suoi ascoltatori. L’opera dello Spirito infatti non si manifesta in azioni straordinarie o miracoli, ma nella capacità che il vangelo dimostra di convincere chi lo ascolta e di coinvolgerlo nel cammino fatto da Gesù.

Infine l’Apostolo indica lo scopo per cui si è comportato in questo modo: “perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio”.

Egli non ha dunque voluto mettere se stesso in primo piano, perché la fede dei corinzi non fosse basata su di lui ma unicamente su Dio e sulla Sua potenza.

Il fatto che, nonostante la totale assenza di mezzi umani, i corinzi abbiano creduto in Cristo dimostra che l’azione di Dio è stata efficace e ci fa comprendere, almeno in parte, quale sia la forza che sprigiona per poter trasformare la vita di ognuno.

Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?

A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Mt 5,13-16

Questo brano del Vangelo di Matteo fa parte del discorso della montagna, in cui Gesù presenta le nove Beatitudini. Ora vengono riportate due piccole similitudini. La prima viene presa dal campo alimentare e comincia con un’affermazione:”Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? Poi Gesù pone una domanda :ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato?” E conclude: “A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente”. Il sale ha una grande importanza nella preparazione dei cibi ed è usato per dare loro sapore, rendendoli così commestibili.

Nell’Antico Testamento il sale, con il quale venivano cosparse le vittime sacrificali, era considerato come simbolo dell’alleanza (Lv 2,13; Col 4,6), e di conseguenza come sorgente di pace, non solo con Dio, ma anche fra tutti i membri del popolo.

Matteo, identificando i discepoli con il sale e mettendo questo in rapporto con la terra trasforma il detto in una direttiva riguardante i loro rapporti con quelli che si trovano all’esterno della comunità: verso di essi i discepoli devono essere testimoni credibili del messaggio di Gesù.

La seconda similitudine inizia con un’affermazione programmatica: Voi siete la luce del mondo; seguono poi due frasi esemplificative: non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Infine termina con un’applicazione: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.

La similitudine della lampada sul candeliere viene presa dalla vita quotidiana, in cui specialmente di notte è indispensabile scacciare le tenebre con una lucerna. Naturalmente la lucerna è utile solo se è messa sul lucerniere e non viene nascosta, per esempio sotto un moggio (recipiente per misurare i cereali) o sotto un letto.

Nell’Antico Testamento la luce simboleggia Dio, in quanto salvatore del Suo popolo (Is 9,1; Sal 27,1), e la Sua legge (Sal 119,105); in modo particolare il Servo del Signore è chiamato “luce del mondo” (Is 42,6; 49,6).

Senza nascondersi, senza mimetizzarsi, senza impigrirsi il cristiano autentico deve essere esposto al sole di Dio come la città posta sui monti. E la luce ricevuta non deve racchiuderla sotto il moggio del suo gruppo, della sua famiglia, della sua chiesa, ma disseminarla su tutti i fratelli e su tutte le creature di Dio.

Nietzsche, il famoso filosofo ateo tedesco, rimproverava così i cristiani: “Se la buona novella della vostra Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, voi non avreste bisogno di insistere perchè si creda all’autorità della Bibbia: le vostre opere dovrebbero rendere quasi superflua la Bibbia, perchè voi stessi dovreste costituire la Bibbia viva”.

Nel Vangelo di questa domenica, che viene subito dopo le Beatitudini, Gesù dice ai suoi discepoli: «Voi siete il sale della terra … Voi siete la luce del mondo». Questo ci stupisce un po’, se pensiamo a chi aveva davanti Gesù quando diceva queste parole. Chi erano quei discepoli? Erano pescatori, gente semplice … Ma Gesù li guarda con gli occhi di Dio, e la sua affermazione si capisce proprio come conseguenza delle Beatitudini. Egli vuole dire: se sarete poveri in spirito, se sarete miti, se sarete puri di cuore, se sarete misericordiosi … voi sarete il sale della terra e la luce del mondo!

Per comprendere meglio queste immagini, teniamo presente che la Legge ebraica prescriveva di mettere un po’ di sale sopra ogni offerta presentata a Dio, come segno di alleanza. La luce, poi, per Israele era il simbolo della rivelazione messianica che trionfa sulle tenebre del paganesimo. I cristiani, nuovo Israele, ricevono dunque una missione nei confronti di tutti gli uomini: con la fede e con la carità possono orientare, consacrare, rendere feconda l’umanità. Tutti noi battezzati siamo discepoli missionari e siamo chiamati a diventare nel mondo un vangelo vivente: con una vita santa daremo “sapore” ai diversi ambienti e li difenderemo dalla corruzione, come fa il sale; e porteremo la luce di Cristo con la testimonianza di una carità genuina. Ma se noi cristiani perdiamo sapore e spegniamo la nostra presenza di sale e di luce, perdiamo l’efficacia. Ma che bella è questa missione di dare luce al mondo! E’ una missione che noi abbiamo. E’ bella! E’ anche molto bello conservare la luce che abbiamo ricevuto da Gesù, custodirla, conservarla. Il cristiano dovrebbe essere una persona luminosa, che porta luce, che sempre dà luce! Una luce che non è sua, ma è il regalo di Dio, è il regalo di Gesù. E noi portiamo questa luce. Se il cristiano spegne questa luce, la sua vita non ha senso: è un cristiano di nome soltanto, che non porta la luce, una vita senza senso. Ma io vorrei domandarvi adesso, come volete vivere voi? Come una lampada accesa o come una lampada spenta? Accesa o spenta? Come volete vivere? [la gente risponde: Accesa!] Lampada accesa! E’ proprio Dio che ci dà questa luce e noi la diamo agli altri. Lampada accesa! Questa è la vocazione cristiana

Papa Francesco

Parte dell’Angelus del 9 febbraio 2014

Sabato, 28 Gennaio 2017 19:44

IV Domenica del Tempo Ordinario 29 Gennaio

 

  1. Giovedì, 2 febbraio, invitiamo tutte le comunità religiose che vivono in questo quartiere a condividere la gioia di celebrare la giornata della Vita Consacrata. Invitiamo tutte le persone consacrate alla Santa Messa celebrata il 2 febbraio alle ore 7,30 e seguita da un momento di preghiera comune.
  2. Giovedì 2 alle ore 19 ci sarà l’incontro mensile dei Laici Salettini dove continuando le riflessioni sul tema della Misericordia si parlerà del brano del Vangelo di Luca ( 10, 25-37 ) dal titolo “il grande comandamento.”
  3. Domenica prossima 5 febbraio celebriamo Giornata per la vita. Il senso spiega una citazione del messaggio del Consiglio Episcopale Italiano:

“I bambini “sono il futuro, sono la forza, quelli che portano avanti. Sono quelli in cui riponiamo la speranza”; i nonni “sono la memoria della famiglia. Sono quelli che ci hanno trasmesso la fede. Avere cura dei nonni e avere cura dei bambini è la prova di amore più promettente della famiglia, perché promette il futuro. Un popolo che non sa prendersi cura dei bambini e dei nonni è un popolo senza futuro, perché non ha la forza e non ha la memoria per andare avanti”.

Venerdì, 27 Gennaio 2017 11:56

IV Domenica – Anno A – 29 gennaio 2017

Questa domenica, in cui si celebra la giornata per i malati di lebbra, troviamo il brano delle Beatitudini, e Gesù annunciando che i poveri, i piccoli, i miti, i puri, sono i veri beati, realizza quello che avevano annunciato i profeti nell’Antico Testamento

Nella prima lettura il Profeta Sofonia, annuncia che il Signore costituirà un popolo umile e povero capace di confidare solo in Dio, che la salvezza è un dono di Dio, che solo chi è povero e umile può accogliere.

Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai corinzi, San Paolo afferma che rientra nella logica di Dio scegliere i piccoli per rivelare la Sua gloria, e solo la sapienza che ci è data in Cristo permette di valutare correttamente le cose terrene.

Nel Vangelo di Matteo, troviamo il brano celeberrimo delle Beatitudini. Gesù si rivolge ai suoi discepoli, a coloro che hanno già scelto di stare con lui, ed è presentato come il nuovo Mosè che istruisce il suo popolo con un a nuova Legge che non rinnega l’antica, ma la porta a compimento. La felicità non va cercata nella conquista dei beni della terra, ma nella ricchezza del cuore, nel percepire il bisogno di Dio.

Dal libro del profeta Sofonia

Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra,

che eseguite i suoi ordini,

cercate la giustizia, cercate l’umiltà;

forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore.

«Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero».

Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele.

Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna;

non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta.

Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.

Sof. 2,3;3,12-13

L’attività del profeta Sofonia si svolse intorno agli anni 640 a.C., un po’ prima di quella di Geremia. Il libro che porta il suo nome è stato scritto in ebraico presumibilmente tra il 630 ed il 609 a.C., come si può dedurre dai primi 4 versetti del libro, ove si dice che l'autore visse al tempo del re Giosia, il grande riformatore (648-609 a.C.) . È composto da 3 capitoli e contiene vari oracoli di restaurazione. Lo stile linguistico e i temi trattati richiamano le caratteristiche del profeta Geremia, che come lui avvertì il popolo, senza essere ascoltato, sul disastro morale e religioso che andava infiltrandosi in tutti gli ambiti della vita sociale, religiosa, politica.

Dopo il versetto iniziale, in cui Sofonia si presenta come “figlio dell’etiope” e contemporaneo del re Giosia (1,1), viene riportata una prima raccolta di oracoli (1,1-2,3) che hanno come tema centrale il “giorno del Signore”, nel quale la punizione di Dio si abbatterà su Giuda (1,2-18). La raccolta termina con un invito alla conversione mentre gli umili della terra, che eseguono i suoi ordini, sono esortati a cercare il Signore, la giustizia e l’umiltà (2,1-3). Segue una piccola raccolta di oracoli contro le nazioni (2,4-15). Un altro oracolo viene poi indirizzato a Gerusalemme, la città ribelle (3,1-8), mentre nell’ultima parte del libro (3,9-20) è descritta la Gerusalemme rinnovata, alla quale ritorneranno tutti i dispersi. Il testo liturgico è formato dalla conclusione della prima raccolta e dalla parte centrale dell’ultima.

L’invito pressante alla conversione rivolto agli empi è seguito da un’esortazione a coloro che invece sono fedeli al loro Dio:

”Cercate il Signore voi tutti, poveri della terra, che eseguite i suoi ordini, cercate la giustizia, cercate l’umiltà; forse potrete trovarvi al riparo nel giorno dell’ira del Signore.”

Questo versetto contiene il programma religioso di Sofonia. I “poveri” (anawîm, umili, miti) ai quali egli si rivolge sono persone prive di potere e di mezzi materiali, che vivono radicati sulla terra dalla quale ricavano i loro sostentamento. L’atteggiamento di questi poveri comporta dunque una vissuta adesione all’alleanza con il Signore e il rifiuto di ogni forma di violenza.

Proprio a loro il profeta esorta a “cercare il Signore”, cioè di impegnarsi sempre più non solo in una conoscenza spirituale di Dio, ma nell’approfondire sempre più il rapporto con Lui mediante un’esperienza personale e l’osservanza dei Suoi comandamenti. Così facendo essi saranno liberati dall’ “ira del Signore”, cioè da quel male, interpretato come un castigo di Dio, che gli empi fanno ricadere su se stessi.

Nella seconda parte del testo liturgico, il profeta riporta un oracolo del Signore:

“«Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero». Confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele. Non commetteranno più iniquità e non proferiranno menzogna; non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta. Potranno pascolare e riposare senza che alcuno li molesti.”

Fra coloro che sono ritornati dall’esilio, che era stato provocato anche dalle ingiustizie e dalla avidità della classe dirigente, vi sono coloro che sono umili e poveri, cioè che accettano la povertà materiale a motivo della loro mitezza. Sofonia intravede in essi il resto di Israele, cioè il vero Israele degli ultimi tempi. Essi non commetteranno più il male e non si serviranno della menzogna per frodare il proprio prossimo. La caratteristica più importante del popolo rinnovato è proprio l’impegno per la giustizia, perseguita mediante la non violenza attiva, praticata anche a costo di vivere nella povertà e nell’emarginazione. A coloro che vivono in questo modo il Signore promette, facendo ricorso all’immagine del gregge, quieti pascoli e sicurezza (V.Sal 23).

Facendo proprio il messaggio dei profeti e dei saggi, Sofonia afferma che chi cerca di raggiungere il bene non manca di nulla. Potranno esserci prove e sofferenze, a cui apparentemente il povero sembra soccombere, ma dalle quali invece egli uscirà indenne. Negli sconvolgimenti della vita politica e sociale riescono a sussistere solo quelli che hanno grandi valori su cui attingere. Anche l’eventualità di grandi sofferenze o della stessa morte non può smuoverli, anzi, molte volte per loro la morte rappresenta il segno più convincente della loro vittoria sul male.

Salmo 145. Beati i poveri in spirito

Il Signore rimane fedele per sempre

rende giustizia agli oppressi,

dà il pane agli affamati.

Il Signore libera i prigionieri.

Il Signore ridona la vista ai ciechi,

il Signore rialza chi è caduto,

il Signore ama i giusti,

il Signore protegge i forestieri.

Egli sostiene l’orfano e la vedova,

ma sconvolge le vie dei malvagi.

Il Signore regna per sempre,

il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

Il salmo è stato composto nel tardo postesilio come rivela la sua lingua aramaicizzante. Esso fa pensare a un tempo di pace, di normalità, quale si ebbe verso la fine dell'epoca persiana quando Giuda divenne uno stato teocratico autonomo con propria moneta fino alla persecuzione di Antioco IV Epifane (2Mac 4,1s).

Il salmista al proposito personale e di testimonianza di lodare il Signore per tutta la vita, fa seguire un'ammonizione basilare: “Non confidate nei potenti, in un uomo che non può salvare”. I potenti, che amano circondarsi di un alone di gloria, non sono dei semidei, sono uomini che come tutti moriranno: “Esala lo spirito e ritorna alla terra: in quel giorno svaniscono tutti i suoi disegni”. Il salmista tuttavia non fa accenno ai guai, alle rovine a cui si espone chi confida nell'uomo, ma, in positivo, dice che è beato, “chi ha per aiuto il Dio di Giacobbe”, cioè il Dio dei padri, il Dio delle promesse e dell'alleanza, riconoscendolo l'unico Dio, onnipotente creatore: “che ha fatto il cielo e la terra, il mare e quanto contiene".

“Egli è fedele per sempre”, mai manca alla sua parola, e il suo governo è giustizia e bontà: “Rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati”.

Poi il salmista con ritmo incalzante presenta a tutti cinque motivi di confidenza in Dio.

“Libera i prigionieri”; intendendo ciò in senso largo: deportati, carcerati ingiustamente, irretiti in trame di calunnia.

“Ridona la vista ai ciechi”, dove il cieco è colui che ha smarrito la via della verità (Dt 28,29; Gb 12,25; Is 29,18; 35,5).

“Rialza chi è caduto”, cioè chi è caduto nel peccato.

“Ama i giusti”, cioè li guida nel giusto cammino e protegge nei loro passi.

“Protegge i forestieri, egli sostiene l'orfano e la vedova”, cioè tre categorie di persone deboli, con scarsi punti di riferimento.

Poi una severa osservazione: “Ma sconvolge le vie dei malvagi”.

Dio è re, “regna per sempre”. Nessuno lo può contrastare, limitare il suo potere sovrano, nessuno può sperare di vincerlo; e il suo regnare è segnato dalla giustizia, dalla bontà e dalla misericordia.

“Il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione”; Dio che ha fatto alleanza con Sion. Ma l'alleanza è diventata nuova in Cristo; Sion ha rifiutato la nuova ed eterna alleanza, ma Cristo non rinuncia al popolo di Sion, ora tronco morto dell'unico popolo di Dio, il cui tronco vivo è la Chiesa, ma un giorno il tronco morto diventerà vivo, accogliendo Cristo e facendo parte della Chiesa (Rm 11,25).

Commento di P. Paolo Berti

Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi

Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili.

Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio.

Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore.

1Cor 1,26-31

Paolo continuando la sua lettera ai corinzi affronta il problema delle divisioni fra i cristiani di Corinto proponendo loro, come base della loro vita comunitaria, la sapienza di Dio che si è manifestata nella croce di Cristo. Nel brano che abbiamo l’apostolo inizia con queste parole: Considerate la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. L’efficacia straordinaria dell’intervento divino in Cristo crocifisso si manifesta in una realtà che è sotto gli occhi di tutti, cioè il loro essere comunità. I corinzi possono rendersene conto personalmente in quanto appartengono precisamente a quei chiamati per i quali Cristo è potenza e sapienza di Dio. Per loro è sufficiente pensare alla propria “chiamata”, cioè considerare se stessi in quanto oggetto della chiamata divina. Dopo aver posta questa considerazione Paolo conclude dicendo: “Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono …” Dio ha voluto scegliere proprio ciò che nel mondo è disprezzato, ”le cose che non sono” per ridurre al nulla “le cose che sono”: così facendo ha capovolto l’ottica di questo mondo e ha realizzato la salvezza dichiarando l’impotenza e il fallimento di tutti i progetti umani basati sull’esercizio del potere.

Dio ha agito in questo modo paradossale “perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio”. In questo contesto Paolo vuole affermare che, se Dio avesse scelto filosofi, dotti o persone di condizione sociale elevata, il merito avrebbe potuto essere attribuito alle loro doti, offuscando così il principio salvifico in forza del quale la salvezza non può venire se non da Dio. Avendo scelto invece persone di poco conto, Dio ha dimostrato che la salvezza è esclusivamente opera Sua.

Dalla premessa che ha posto circa la condizione dei cristiani di Corinto, Paolo trae questa conclusione: “Grazie a lui voi siete in Cristo Gesù, il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore”. Proprio per il dono gratuito di Dio i corinzi ora “sono in Cristo Gesù”, cioè non soltanto sono santificati “in Lui”, formando con Lui un unico spirito, ma hanno acquistato per mezzo Suo e in Lui un valore e un’importanza che prima non avevano. Egli infatti è diventato “per noi” ”sapienza, giustizia, santificazione e redenzione”.

Paolo sottolinea ulteriormente che una comunità fatta di povera gente, ma che per merito di Cristo si è resa cosciente della propria dignità e del proprio valore, è la migliore dimostrazione del ruolo che a lui è stato assegnato da Dio. In quanto “sapienza” Egli inserisce l’umanità nel progetto salvifico che Dio ha concepito prima della creazione; in quanto “giustizia” dà a tutti la possibilità di diventare giusti, cioè Suoi amici, capaci di compiere la Sua volontà (Rm 3,21-26); in quanto “santificazione”conferisce loro la possibilità di formare il popolo santo di Dio; in quanto “redenzione” Egli è colui che li riacquista a Dio come Suo possesso speciale (Rm 3,24).

Il brano termina con un’espressione cara a Paolo: “Chi si vanta, si vanti nel Signore” che è ricavata dal libro di Geremia, in cui il profeta pone sulla bocca di Dio queste parole:

“Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio”.(Ger 9,22-23).

Questo testo Paolo lo cita anche in 2Cor 10,17, e tutte le volte che egli parla del vanto nei rapporti con Dio (per es. Rm 4,2). Alludendo a questo brano l’apostolo sottolinea ancora una volta che la salvezza è un dono: nessuno può raggiungerla con mezzi umani, quindi nessuno può vantarsi di essa davanti a Dio; chi di fatto la raggiunge non può far altro che “vantarsi nel Signore”, cioè riconoscere che essa viene da Lui e porsi in sintonia con il Suo modo di agire nel mondo.

Paolo dunque ribadisce con forza un’idea che percorre tutta la Bibbia. Le scelte di Dio si può dire che sono “estrose”: egli non sceglie uomini di successo, sceglie i minori come Isacco, Giacobbe,Davide, gli impacciati come Mosè e Geremia, i contadini come Amos; i pescatori come gli apostoli, i poveri, la vedova, l’orfano e il forestiero sono i suoi protetti. Nella Sua lotta contro il male Dio non chiama guerrieri, nobili e potenti, ma sceglie chi nessun potente su questa terra sceglierebbe: i deboli, gli ignobili e i disprezzati.

Dal vangelo secondo Matteo

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:

«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Mt 5, 1-12a

Questo brano celeberrimo si potrebbe definire la Magna carta di coloro che fanno e faranno parte del regno di Dio. E’ conosciuto come “Il discorso sulle beatitudini” ed è il primo dei cinque grandi discorsi che formano la struttura del Vangelo di Matteo. E’ introdotto da una breve frase per indicare in quale occasione è stato pronunziato: “vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…

Sulla montagna c’è tanta gente, ma Gesù direttamente si rivolge ai suoi discepoli. Anche Luca lo introduce in modo simile ed è dunque chiaro per la tradizione che il discorso inaugurale di Gesù è rivolto innanzitutto ai discepoli, e con essi alla comunità cristiana, anche se indirettamente riguarda tutti. Matteo non cita il nome del monte, ma, designandolo con l’articolo determinativo, egli lascia immaginare che si tratti di un luogo ben preciso, da un punto di vista però non geografico, ma teologico: si tratta del nuovo Sinai, sul quale Gesù, come un tempo Mosè, rivela la legge di Dio ai suoi discepoli.

Prima beatitudine: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”.

L’espressione “in spirito” è per sottolineare che la povertà deve essere espressione di un’umile e fiduciosa sottomissione a Dio: per entrare nella beatitudine finale del regno dei cieli non conta la privazione dei beni materiali, bensì l’abbandono a Dio e l’impegno quotidiano per compiere la Sua volontà (V.At 2,42-48).

Seconda beatitudine: Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.

Ai cristiani che per essere fedeli a Dio vanno incontro a sofferenze e persecuzioni (Is 61,2), l’evangelista annunzia, come aveva fatto il Deuteroisaia con il popolo in esilio (Is 40,1), la consolazione promessa da Gesù. Questa però non consiste più nel possesso di una terra, ma del regno di Dio da Lui inaugurato.

Terza beatitudine:Beati i miti, perché avranno in eredità la terra:

Il termine “miti”, con cui i LXX traducono l’ebraico ‘anawim (povero) assume un significato più chiaramente spirituale, indica il comportamento di chi si abbandona totalmente alla volontà di Dio, rinunziando a qualsiasi forma di violenza. Da qui si può intravedere la figura del Servo del Signore (V.Is 42,2-3; 50,5-6), il giusto dei Salmi (Sal 36,7-11), il Messia umile (Zc 9,9) e lo stesso Gesù ( Mt 11,28-29). A coloro che si pongono su questa strada Matteo promette, in nome di Gesù, il possesso della terra: questa espressione, ispirata al Sal 36, non indica più la terra di Israele, ma i beni messianici in tutta la loro pienezza.

Quarta beatitudine:Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Viene qui esaltata la felicità di quelli che hanno fame e sete non tanto, come in Luca, di cibo materiale, quanto piuttosto di giustizia: anche qui Matteo, senza eliminare l’aspetto materiale della fame, ha letto soprattutto la ricerca della giustizia, che consiste nella fedeltà a Dio e ai suoi comandamenti.

Nelle quattro beatitudini successive sono proclamati felici i misericordiosi, cioè coloro che, come Dio stesso, sono capaci di perdonare, i puri di cuore, che aderiscono a Dio in un modo pieno e senza ripensamenti, gli operatori di pace e i perseguitati a causa della giustizia, i quali lottano e soffrono per un mondo nuovo, in cui regna la pace e la giustizia (Is 11,1-9; Sal 72,2-3.7).

Nella nona beatitudine si dice: Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. Essa si distacca dalle precedenti per la sua lunghezza e per l’uso della seconda persona “voi”. Anche questa è giunta a Matteo dalla tradizione (Lc 6,22-23), e diversamente dalle altre essa è rivolta direttamente ai cristiani che soffrono persecuzione a causa della loro fede in Gesù: ad essi è riservata nei cieli una grande ricompensa, che si identifica con la piena comunione con Dio (1Pt 4,13-16).

Matteo riportando il primo grande discorso di Gesù, presenta un catechismo di iniziazione cristiana, opposto all’ideale religioso giudaico. C’era la legge, cioè l’insieme delle esigenze morali, religiose, culturali, personali e collettive che valeva per tutto il popolo di Dio e tutto questo Mosè l’aveva ricevuto sul Sinai. D’ora in poi c’è la nuova legge che Gesù dà sulla montagna come su un nuovo Sinai.

Non toglie nulla alla legge di Mosè, ma la completa andando alla radice dei comportamenti umani. Gesù afferma che beati sono gli uomini e le donne poveri di spirito, beati i misericordiosi, gli afflitti, i miti, gli affamati di giustizia, i puri di cuore, i perseguitati a causa della giustizia ed anche coloro che sono insultati e perseguitati a causa del Suo nome.

Parole come queste non le aveva pronunciate mai nessuno e i discepoli certo non le avevano mai udite sino a quel momento. E anche noi che le ascoltiamo oggi sembrano davvero molto lontane, si ha come l’impressione di vedere il mondo alla rovescia, quasi agli antipodi di ciò che pensiamo, diciamo e facciamo.

Le beatitudini però non sono delle cose da fare, ma frutti di una scelta di vita che non è sforzo solo nostro, ma conseguenza dell’opera dello Spirito in noi. Solo lo Spirito ci può rendere miti, pacifici, puri di cuore, misericordiosi … Il nostro sforzo deve consistere nell’accogliere l’azione dello Spirito Santo in noi, di obbedire in tutto a Dio.

Quanto riusciremo ad accogliere e seguire lo Spirito che elargisce i Suoi doni (fortezza, scienza, sapienza, intelletto, consiglio, pietà, timor di Dio) tanto saremo capaci di vivere le beatitudini. Capiremo così che le beatitudini sono la vita stessa di Gesù, Lui le ha vissute tutte. Per questo, il nostro aderire ad esse ci inserisce nella vita di Cristo, ci unisce più che mai a Lui. Il premio delle beatitudini è Dio stesso: è Lui la beatitudine vera, la felicità che non avrà mai fine.

Commentando questo brano di Vangelo, Papa Francesco ha chiesto: «”Come si fa per diventare un buon cristiano?”, qui troviamo la risposta di Gesù che ci indica cose “tanto controcorrente” rispetto a quello che abitualmente “si fa nel mondo”. Beati i poveri in spirito. “Le ricchezze non ti assicurano niente. Di più: quando il cuore è ricco, è tanto soddisfatto di se stesso, che non ha posto per la Parola di Dio».

LA CONSOLAZIONE DI GESU’. Il Mondo ci propone alcune gioie: «La felicità, il divertimento», ma «ignora, guarda da un’altra parte, quando ci sono problemi di malattia, problemi di dolore nella famiglia. Il mondo non vuole piangere, preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle. Soltanto la persona che vede le cose come sono, e piange nel suo cuore, è felice e sarà consolata. La consolazione di Gesù, non quella del mondo. Beati i miti in questo mondo che dall’inizio è un mondo di guerre, un mondo dove dappertutto si litiga, dove dappertutto c’è l’odio. E Gesù dice: niente guerre, niente odio, pace, mitezza».

LE BEATITUDINI. La mitezza, oggi, ha proseguito Papa Francesco, è intesa come «stoltezza». Invece è il contrario perché «con questa mitezza avrai in eredità la Terra». Beati dunque quelli «che lottano per la giustizia, perché ci sia giustizia nel mondo. È tanto facile entrare nelle cricche della corruzione, quella politica quotidiana del do ut des. Tutto è affari. E quante ingiustizie. Quanta gente che soffre per queste ingiustizie». Ma Gesù dice: «Sono beati quelli che lottano contro queste ingiustizie». Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. I misericordiosi sono «quelli che perdonano, che capiscono gli errori degli altri, perché tutti noi siamo un esercito di perdonati! Tutti noi siamo stati perdonati. E per questo è beato quello che va per questa strada del perdono. Beati i puri di cuore, che hanno un cuore semplice, puro, senza sporcizie, un cuore che sa amare con quella purità tanto bella. Beati gli operatori di pace. Ma, è tanto comune da noi essere operatori di guerre o almeno operatori di malintesi! Quando io sento una cosa da questo e vado da quello e la dico e anche faccio una seconda edizione un po’ allargata e la riporto… Il mondo delle chiacchiere. Questa gente che chiacchiera, non fa pace, sono nemici della pace. Non sono beati».

PROGRAMMA DI VITA. Questo delle Beatitudini, ha detto il Papa, «è il programma di vita che ci propone Gesù. Se noi volessimo qualcosa di più, Gesù ci dà anche altre indicazioni, un protocollo sul quale noi saremo giudicati», che è contenuto nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: «Sono stato affamato e mi hai dato da mangiare, ero assetato e mi hai dato da bere, ero ammalato e mi hai visitato, ero in carcere e sei venuto a trovarmi». Così «si può vivere la vita cristiana a livello di santità. Poche parole, semplici parole, ma pratiche a tutti, perché il cristianesimo è una religione pratica: non è per pensarla, è per praticarla, per farla….. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio».

Papa Francesco

Parte dell’Omelia alla a casa S.Marta del 9 giugno 2014

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Pro Memoria

L'umanità è una grande e  immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)

Parrocchia Nostra Signora de La Salette
Piazza Madonna de La Salette 1 - 00152 ROMA
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Titolo presbiterale: Card. Polycarp PENGO
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