Le letture liturgiche di questa domenica ci presentano Gesù che inaugura il regno di Dio con la sua vita, con i suoi gesti e le sue parole. Giovanni il Battista chiamava a sé le folle, mentre Gesù, Figlio di Dio, andando verso la Galilea, va loro incontro.
Nella prima lettura, il profeta Isaia descrive il giubilo dei salvati poiché si è instaurato il regno della libertà e della pace, dopo il periodo oscuro dell’occupazione assira. Il Signore è fedele alle sue promesse realizzando la promessa fatta secoli prima, mandando il suo Messia che porterà la luce alle nazioni, insieme con la gioia e la liberazione da ogni schiavitù.
Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Corinzi, che si erano divisi in gruppi che si richiamavano ad un maestro particolare, afferma che c’è un solo maestro: Gesù Cristo.
L’evangelista Matteo nel brano del suo Vangelo ci racconta di come Gesù, camminando lungo il mare di Galilea, inaugura la sua missione e lo fa scegliendo i suoi discepoli, persone incolte, umanamente non adatte, ma che Lui renderà capaci di tanto. E’ bastato solo che li guardasse e dicesse loro: “Seguitemi!” ed essi lasciarono cadere di mano le reti per imbarcarsi in un’avventura molto più misteriosa di quella che vivevano su quel lago. Nell’ultima sera della Sua vita terrena, nel Cenacolo, Gesù ricorderà loro: “Non siete stati voi a scegliere me, ma io ho scelto voi”. In ogni vocazione umana c’è alla radice una chiamata, una grazia, un amore, ma anche una risposta. Ricordiamo tutti l’espressione celebre di S.Agostino” Ci hai fatti per Te, Signore, e il nostro cuore non ha pace finché non riposi in Te e la colleghiamo alla ricerca di Dio che impegna tutto il percorso di una vita.
Dal libro del profeta Isaia
In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.
Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Mádian.
Is 8,23.9,1-3
Il profeta Isaia (Primo Isaia autore dei capitoli 1-39) iniziò la sua opera pubblica verso la fine del regno di Ozia, re di Giuda, attorno al 740 a.C, quando l'intera regione siro-palestinese era minacciata dall'espansionismo assiro. Isaia fu anche uno degli ispiratori della grande riforma religiosa avviata dal buon re Ezechia (715-687 a.C) che mise al bando le usanze idolatre e animiste che gli ebrei avevano adottato imitando i popoli vicini. Isaia si è sempre scagliato contro i sacrifici umani (prevalentemente di bambini o ragazzi), i simboli sessuali, gli idoli di ogni forma e materiale. Altro bersaglio della riforma, e delle invettive di Isaia, furono le forme cultuali puramente esteriori, ridotte quasi a pratiche magiche
In questo brano si fa riferimento alle regioni nord della Palestina per le quali si profetizza un avvenire glorioso in contrapposizione ad un passato di umiliazioni e rovine, esperimentato probabilmente con l’invasione assira in Galilea (V: 2 Re 15,29) e viene descritta la futura felicità con le immagini proprie di una vittoriosa liberazione. Si intravede così una gioia salvifica cominciando dalla terra di Zabulon e Neftali, la Galilea dei gentili, la regione semipagana odiata dai giudei fin dalla devastazione dell’anno 734 operata da Tiglat-Pilezer III.
Tanto più profonde sono le tenebre, tanto più abbagliante è la luce ; tanto più ignominiosa l’umiliazione, tanto più grande è la gioia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si esulta quando si divide la preda: la gioia è descritta con due immagini tradizionali: la mietitura del grano e la divisione del bottino dopo una battaglia vittoriosa.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva, la sbarra sulle sue spalle, e il bastone del suo aguzzino, come nel giorno di Mádian: sono spezzati i tre simboli della schiavitù : il giogo, la sbarra, il bastone, come nella vittoria di Gedeone sopra gli oppressori Madianiti (Giud 7,15-25).
Nel brano (nei versetti 5-6 non riportati nel testo) questa luce che porta la liberazione viene dal bambino che nascerà (l’Emanuele di Is 7,14). Nella liturgia di oggi (seguendo la citazione in Mt 4,14) il testo di Isaia si ferma al v. 3, non parlando della nascita del bambino, ma mostrando come la luce che porta la liberazione si manifesta con l’inizio del ministero di Gesù in Galilea.
Salmo 27 (26) Il Signore è mia luce e mia salvezza.
Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
Una cosa ho chiesto al Signore,questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore.
"Il Signore è mia luce”, dice il salmista. La luce è fonte di vita, fa vedere le cose, dona letizia e il salmista trova in Dio la sua luce, la sua sorgente di letizia, la sua conoscenza delle cose. E il Signore è pure sua salvezza assistendolo contro i nemici, che altrimenti prevarrebbero su di lui e gli strazierebbero la carne, tanto lo odiano. Ma col Signore non vede perché dovrebbe avere paura: “Di chi avrò timore;... di chi avrò paura?”.
E’ tanto sicuro nel Signore che se anche un esercito si accampasse contro di lui il suo cuore non temerebbe, e se si arrivasse alla battaglia e ne fosse nel folto anche allora avrebbe fiducia di vincere.
Egli non ha ambizioni di potere, di onori e ricchezze. Ha chiesto una sola cosa al Signore e questa sola cerca: “Abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita”. Noi chiediamo di vivere sempre centrati nell’Eucaristia, nella viva appartenenza alla Chiesa, in ammirazione della sua bellezza di pace, di carità, di fede, di speranza, di sacrificio, di testimonianza, di operosità instancabile.
“La casa del Signore” è per il salmista il luogo di rifugio offertogli dal Signore nel giorno della sventura, quando c’è la prova, la tribolazione. In essa si sente protetto, come nascosto, dalla turba degli uomini, e nello stesso tempo come posto su di una rupe inattaccabile.
Confortato nella casa del Signore non è pavido, ma in pieno sole rialza la testa da vincente; ha il coraggio di lottare certo della vittoria, che celebrerà nell’esultanza: “Immolerò nella sua tenda sacrifici di vittoria”. Noi non immoleremo tori o capri, bensì faremo offerte dei risultati del superamento del giorno in cui eravamo prossimi alla rovina, e faremo banchetti con i fratelli poveri.
Il salmista ritorna sulla sua situazione di dolore, trovando sempre conforto nella fede.
Umile, non può che presentarsi come reo di molti peccati davanti al Signore e chiede di non essere respinto con ira da Signore.
Egli ha un programma: “Cercare il volto del Signore”, per conoscerlo sempre di più e così sempre di più amarlo. E, ancora, cerca il volto del Signore per riceverne la volontà e la benevolenza. Il salmista mostra le sue ferite passate, la sua storia di dolore: “Mio padre e mia madre mi hanno abbandonato, ma il Signore mi ha raccolto”.
Ora è saldo e sicuro, ma insidiato da falsi testimoni che lo vogliono trascinare in giudizio e per questo diffondono negli animi violenza contro di lui. Ma anche se costoro avessero da prevalere egli è certo di “contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; nel cielo e poi un giorno nella risurrezione, nella creazione rinnovata.
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P. Paolo Berti
Dalla 1^ lettera di S.Paolo aspostolo ai Corinzi
Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.
Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: «Io sono di Paolo», «Io invece sono di Apollo», «Io invece di Cefa», «E io di Cristo».
È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo?
Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
1Cor 1,10-13.17
Continuando la sua lettera ai Corinzi, dopo l’introduzione e il ringraziamento, Paolo entra subito nel vivo del problema che agita la comunità: “Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, a essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e di sentire.” Egli si rivolge ai corinzi chiamandoli affettuosamente “fratelli” e dopo averli esortati, espone il motivo della sua esortazione all’unità: “Infatti a vostro riguardo, fratelli, mi è stato segnalato dai familiari di Cloe che tra voi vi sono discordie”. L’informazione era giunta a Paolo tramite i “familiari di Cloe” (non si sa di preciso chi fosse questa Cloe; probabilmente una commerciante, che aveva un organico di schiavi, di liberti e di uomini liberi) venuti a Efeso per affari. Le discordie segnalate provengono dal fatto che alcuni di loro affermavano: “Io sono di Paolo” altri , “Io invece sono di Apollo”, altri ancora “Io invece di Cefa”,altri infine dicono “E io di Cristo”. A Paolo dunque hanno riferito che si sono formati gruppetti ciascuno dei quali fa riferimento a uno dei personaggi che hanno svolto un certo ruolo nella comunità. Paolo, nominato per primo, aveva fondato la comunità. Del secondo, Apollo, sappiamo dagli Atti degli Apostoli che era un giudeo di Alessandria “uomo colto, versato nelle Scritture”, che era stato indirizzato a Corinto proprio da Aquila e Priscilla, amici di Paolo. In Alessandria, famosa città ellenistica, proprio allora fioriva la scuola di Filone, il quale interpretava le scritture in modo allegorico, alla luce della filosofia greca. Apollo non poteva ignorare l’insegnamento di questa scuola. Ciò che aveva attirato su di lui il consenso di una parte della comunità era quindi probabilmente la sua conoscenza delle Scritture e la capacità di interpretarle alla luce dei concetti filosofici largamente diffusi nella società di allora. Al tempo della stesura della lettera, Apollo si trova a Efeso con Paolo che vorrebbe rimandarlo a Corinto (1Cor 16,12): egli non è quindi un avversario, ma un suo collaboratore. Cefa (Pietro), il capo del gruppo dei Dodici, doveva essere ben noto a Corinto perché Paolo lo ricorda altre tre volte nel corso della lettera (1Cor 3,22; 9,5; 15,5). Non si sa invece se abbia visitato personalmente la città o se invece vi siano giunti missionari che si rifacevano alla sua predicazione. I suoi aderenti a Corinto potevano essere stati attratti dal suo insegnamento più tollerante e possibilista nei confronti degli usi giudaici (Gal 2,12).
Il fatto che alcuni dicessero: “E io di Cristo” ha avuto varie interpretazioni. È possibile che esistesse un gruppo di cristiani che affermavano, in contrasto con gli altri, di avere un rapporto più diretto e immediato con Cristo, ma si può anche pensare che l’espressione “E io di Cristo!” sia di Paolo che con essa intendeva distinguersi da qualsiasi partito schierandosi unicamente dalla parte di Cristo. In definitiva i gruppi veri e propri erano forse tre o perfino solo due, quello di Paolo e quello di Apollo, gli unici di cui si parlerà ancora in seguito: gli altri due Paolo probabilmente li può avere messi per non dare l’impressione che tutto si risolvesse in un contrasto tra lui e Apollo. Comunque si può anche pensare che sia stato proprio Apollo, con la sua predicazione ispirata all’oratoria greca e alle idee filosofiche, ad attrarre dietro di sé la parte più colta della comunità, mentre i più semplici avevano espresso la loro adesione incondizionata a Paolo.
Alla situazione della comunità Paolo reagisce con tre domande, alle quali non si può rispondere negativamente: È forse diviso il Cristo? Paolo è stato forse crocifisso per voi? O siete stati battezzati nel nome di Paolo? Come Cristo non può essere diviso, così non possono esserlo i suoi seguaci. È Cristo, e non Paolo (e quindi neppure gli altri predicatori), che è stato crocifisso per loro.
È nel nome di Cristo (At 10,48) e non di Paolo o di chiunque altro che sono stati battezzati. La salvezza viene quindi solo da Cristo, e non da coloro che hanno annunziato il Suo vangelo!
Nei versetti omessi nel brano liturgico (vv. 14-16), Paolo ringrazia Dio di non aver battezzato nessuno di loro, se non Crispo, il capo della sinagoga che si era convertito tra i primi (V.At 18,8), Gaio, da cui sarà ospite al momento di inviare la lettera ai Romani (V Rm 16,23) e la famiglia di Stefana, il responsabile della comunità che si trovava attualmente presso di lui (16,15-16): così nessuno potrà dire di essere stato battezzato nel suo nome. I corinzi non possono certo trarre motivo dalla pratica battesimale di Paolo per attribuire a lui o ad altri un ruolo salvifico che compete solo a Cristo. Il solo pensare che lui (paolo) o altri predicatori potessero aggiungere qualcosa di essenziale all’opera salvifica di Cristo e di conseguenza potessero creare un’aggregazione intorno alla loro persona, lo turba, fino a provocargli sofferenza.
Paolo conclude affermando: Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo.
Il fatto che Paolo abbia battezzato così poche persone a Corinto non è un caso: il compito a lui affidato non è quello di battezzare, ma di annunziare il vangelo, ma soprattutto è fondamentale che questo non sia presentato “con sapienza di parola”. Questa espressione indica tutto ciò che serve alla comunicazione di un messaggio e ciò affinché non “venga resa vana” la croce di Cristo.
L’errore in cui sono caduti i corinzi è stato quello di dare più importanza a interpretazioni, formule, dottrine, norme condizionate dal tempo e dalla cultura. Per Paolo ciò che conta non sono le modalità con cui il Vangelo viene comunicato, ma la croce di Cristo, che ne rappresenta il tema centrale. In altre parole egli indica la vera causa della crisi dei corinzi: nell’eccessiva importanza data al mezzo di comunicazione rispetto all’oggetto del messaggio, cioè nella pretesa di trovare ad ogni costo nel Vangelo un sistema filosofico conforme alle attese culturali di chi ascolta. Se vogliono superare il problema delle divisioni i corinzi devono dunque andare al di là dell’involucro in cui esso è contenuto per accogliere in profondità il dono che viene da Dio e spesso si oppone proprio alle aspettative umane. Solo accettando la pluralità delle interpretazioni, anche se questo può sembrare un paradosso, senza dividersi in base ad esse, si può raggiungere l’unanimità in ciò che è veramente essenziale.
Dal vangelo secondo Matteo
Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,
sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti!
Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.
Mt 4, 12-21
ooo
Questo passo del Vangelo di Matteo, che viene dopo il battesimo di Gesù e l’episodio della tentazione nel deserto, è l’introduzione generale al ministero di Gesù. Il brano inizia con Gesù, che saputo dell'arresto di Giovanni Battista, si ritira nella Galilea e lascia Nazareth. Matteo non dice il motivo per il quale Gesù lascia Nazareth, più tardi ci parlerà dell'incredulità trovata nella sua patria e nella sua casa. Ma in tutto ciò che accade, Matteo vede il compimento di ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia:“Terra di Zàbulon e terra di Nèftali, sulla via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti! Il popolo che abitava nelle tenebre vide una grande luce,…” le regioni menzionate, che erano state umiliate dal re dell'Assiria e che continuano a non godere di buona fama, diventano il luogo dell'esperienza della salvezza, coloro che erano considerati non-popolo, accolgono la presenza di Gesù affinché coloro che lo cercano lo possano trovare, non dentro gli spazi chiusi del sacro o del potere, ma nella Galilea, dove gli uomini vivono la loro vita quotidiana.
Da quel momento dalla Galilea, da una regione che Gerusalemme giudicava terra di tenebra, dalla riva del mare, perché possa varcare ogni limite, comincia a risplendere la luce. E’ da quella regione che Gesù cominciò a predicare e a dire: "Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino! Come i giudei del suo tempo, Matteo evita di nominare Dio e dice semplicemente “i cieli”. Si può anche notare che Gesù sceglie di iniziare proprio dove il Battista ha lasciato, ma se per il Battista la conversione ha un senso morale, e la vicinanza del regno è l'annuncio dell'ormai prossimo intervento di Dio giudice per porre fine alla infedeltà del suo popolo, per Gesù la conversione è l'invito ad un radicale cambiamento nel modo di vedere Dio, che non guarda più all'uomo per condannarlo, ma che si abbassa per amarlo.
Poi viene presentata la chiamata dei primi quattro discepoli, quattro pescatori del lago di Tiberiade: Simone e suo fratello Andrea, Giacomo e suo fratello Giovanni. E' Gesù che prende l’iniziativa, è lui che passando li vede nella loro quotidianità, con la loro vita impostata, li chiama e dice loro :”Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini” e a quell’invito Matteo ci riporta la loro reazione: “Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono”. Si imbarcano così in un’avventura molto più misteriosa di quella che vivevano su quel lago spesso infido ma anche ricco di pesce.
Gli ultimi versetti descrivono Gesù che cammina, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo, rendendo così visibile il volto di un Dio che non condanna, non impone dei pesi, ma che compatisce, infonde serenità, nuova speranza e gioia.
Il Vangelo di questa domenica racconta gli inizi della vita pubblica di Gesù nelle città e nei villaggi della Galilea. La sua missione non parte da Gerusalemme, cioè dal centro religioso, centro anche sociale e politico, ma parte da una zona periferica, una zona disprezzata dai giudei più osservanti, a motivo della presenza in quella regione di diverse popolazioni straniere; per questo il profeta Isaia la indica come «Galilea delle genti» (Is 8,23).
E’ una terra di frontiera, una zona di transito dove si incontrano persone diverse per razza, cultura e religione. La Galilea diventa così il luogo simbolico per l’apertura del Vangelo a tutti i popoli. Da questo punto di vista, la Galilea assomiglia al mondo di oggi: compresenza di diverse culture, necessità di confronto e necessità di incontro. Anche noi siamo immersi ogni giorno in una “Galilea delle genti”, e in questo tipo di contesto possiamo spaventarci e cedere alla tentazione di costruire recinti per essere più sicuri, più protetti. Ma Gesù ci insegna che la Buona Novella, che Lui porta, non è riservata a una parte dell’umanità, è da comunicare a tutti. È un lieto annuncio destinato a quanti lo aspettano, ma anche a quanti forse non attendono più nulla e non hanno nemmeno la forza di cercare e di chiedere.
Partendo dalla Galilea, Gesù ci insegna che nessuno è escluso dalla salvezza di Dio, anzi, che Dio preferisce partire dalla periferia, dagli ultimi, per raggiungere tutti. Ci insegna un metodo, il suo metodo, che però esprime il contenuto, cioè la misericordia del Padre. «Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata. Uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (Esort. ap. Evangelii gaudium,20).
Gesù comincia la sua missione non solo da un luogo decentrato, ma anche da uomini che si direbbero, così si può dire, “di basso profilo”. Per scegliere i suoi primi discepoli e futuri apostoli, non si rivolge alle scuole degli scribi e dei dottori della Legge, ma alle persone umili e alle persone semplici, che si preparano con impegno alla venuta del Regno di Dio. Gesù va a chiamarli là dove lavorano, sulla riva del lago: sono pescatori. Li chiama, ed essi lo seguono, subito. Lasciano le reti e vanno con Lui: la loro vita diventerà un’avventura straordinaria e affascinante.
Cari amici e amiche, il Signore chiama anche oggi! Il Signore passa per le strade della nostra vita quotidiana. Anche oggi in questo momento, qui, il Signore passa per la piazza. Ci chiama ad andare con Lui, a lavorare con Lui per il Regno di Dio, nelle “Galilee” dei nostri tempi. Ognuno di voi pensi: il Signore passa oggi, il Signore mi guarda, mi sta guardando! Cosa mi dice il Signore? E se qualcuno di voi sente che il Signore gli dice “seguimi” sia coraggioso, vada con il Signore. Il Signore non delude mai. Sentite nel vostro cuore se il Signore vi chiama a seguirlo. Lasciamoci raggiungere dal suo sguardo, dalla sua voce, e seguiamolo! «Perché la gioia del Vangelo giunga sino ai confini della terra e nessuna periferia sia priva della sua luce» (ibid., 288).
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 26 gennaio 2014
PARROCCHIA SAN DAMASO
PARROCCHIA NOSTRA SIGNORA DE LA SALETTE
ITINERARIO DI PREPARAZIONE AL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO
Il prossimo itinerario di preparazione al matrimonio avrà inizio lunedì 27 febbraio 2017 presso i locali della Parrocchia Nostra Signora de La Salette, Piazza Madonna della Salette, 1 alle ore 21.00.
Le date dei successivi incontri sono le seguenti:
Ritiro “Nuova Vita” sabato 4 marzo (pomeriggio) e domenica 5 marzo (intera giornata)
Lunedì 6 marzo
Lunedì 13 marzo
Lunedì 20 marzo
Lunedì 27 marzo
Lunedì 3 aprile
Lunedì 10 aprile
Gli incontri del lunedì si terranno presso i locali della Parrocchia Nostra Signora de La Salette dalle ore 21.00 alle 22.30
Come nella precedente domenica del battesimo del Signore alle rive del Giordano, anche in questa domenica il protagonista è Giovanni il Battista, ma le sue parole profetiche puntano verso un’altra meta: Gesù Cristo, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo.
Nella prima lettura, il profeta Isaia parla della missione del servo del Signore a cui Dio dice: «È troppo poco che tu sia mio servo …per ricondurre i superstiti d’Israele.Io ti renderò luce delle nazioni,perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra». Il Servo è chiamato per condurre alla salvezza non solo Israele, ma tutti i popoli.
Nella seconda lettura, nella sua lettera ai corinzi, l’apostolo Paolo parla della propria vocazione all’apostolato, ricordando ai cristiani che anch’essi sono chiamati alla fede. Santificati in Cristo, sono convocati da Dio a costituire la Chiesa.
L’evangelista Giovanni, nel brano del suo Vangelo ci presenta il Battista, mandato da Dio a preparare la via a Gesù Messia e Salvatore, e lo indica come l’Agnello di Dio, la vittima che riscatta il mondo dal peccato. Per il credente, come per la Chiesa, il vero volto di Cristo si svela a poco a poco, nel corso di un cammino di fede compiuto con costanza e fermezza.
Dal libro del profeta Isaia
Il Signore mi ha detto:
«Mio servo tu sei, Israele,
sul quale manifesterò la mia gloria».
Ora ha parlato il Signore,
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno
per ricondurre a lui Giacobbe
e a lui riunire Israele
– poiché ero stato onorato dal Signore
e Dio era stato la mia forza –
e ha detto: «È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra».
Il libro del Deuteroisaia (probabilmente discepolo del primo Isaia che visse a Babilonia intorno al 550 a.C. insieme agli altri esiliati) si apre con il lieto annunzio del ritorno degli esuli a Gerusalemme (40,1-11) e termina con un poema sulla parola di Dio. Il libro contiene una raccolta di oracoli, alcuni composti prima della conquista di Babilonia da parte di Ciro (Is 41,12 - 48,22) e quelli che invece hanno visto la luce dopo questo evento (Is 49,1-54,17). Nell’introduzione del carme, omessa dalla liturgia, il Servo si rivolge alle isole, cioè, come appare dal parallelismo, alle nazioni lontane:, che ora vengono chiamate metaforicamente a dare un giudizio oggettivo su quanto è accaduto. Anzitutto il Servo si appella alla sua vocazione: “Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunziato il mio nome….” (49,1). Come Geremia, egli è stato scelto da Dio fin dal seno materno (Ger 1,5), cioè quando non poteva avere ancora alcun merito che motivasse la sua chiamata., e anche a lui, come ai profeti che lo hanno preceduto, è assegnato il compito di combattere contro i nemici di Dio.
Inizia qui il brano liturgico. Il Servo ricorda anzitutto a Dio le sue promesse: «Mio servo tu sei, Israele,sul quale manifesterò la mia gloria». Nel Servo e mediante la sua opera, Dio vuole manifestare la sua gloria, cioè il suo progetto di salvezza. Nella sua risposta, omessa nel brano, il Servo dice che, pur essendo stato scelto e preparato, è andato incontro a un fallimento: la sua fatica e il suo impegno non hanno portato i frutti sperati. Ciò è dovuto al fatto che il popolo non è preparato ad accettare la proposta di Dio riguardante il ritorno nella terra dei padri. Il Servo non ha colpa di tale insuccesso e il Signore non potrà non riconoscere la sua innocenza e gli conferirà la ricompensa promessa. Il Servo riferisce allora che Dio interviene una seconda volta e prima di riferire il suo messaggio, il Servo lo introduce con queste parole: “Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele – poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza”. In questa introduzione il Servo riprende per la seconda volta il tema della sua vocazione, e il suo compito specifico di riportare a Dio il popolo di Israele . Questo compito rappresenta per il lui un grande onore e gli garantisce l’assistenza divina. Dopo questa introduzione vengono riportate le parole di Dio “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra”. Nonostante il suo insuccesso, Dio lo ha tanto apprezzato e stimato da ritenere troppo piccolo per lui il compito di radunare Israele e di ricondurlo a lui. Il Signore vuole conferirgli una missione ancora più grande, che riguarda tutta l’umanità. Egli dovrà essere “luce delle nazioni”, cioè far risplendere anche su di loro la rivelazione della Sua gloria e far giungere così la salvezza “fino all’estremità della terra”.
Questa estensione della missione del Servo, non significa certo che egli dovrà svolgere un'attività missionaria presso i pagani, ma piuttosto che, dopo il suo momentaneo fallimento, porterà a termine la sua opera con tale successo da suscitare lo stupore e l'ammirazione anche delle altre nazioni, coinvolgendole nella salvezza offerta prima a Israele (45,14-25).
Is 49,3.5-6
Salmo 39/40 - Ecco, Signore, io vengo per fare la tua volontà!
Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato,
ha dato ascolto al mio grido.
Mi ha messo sulla bocca un canto nuovo
una lode al nostro Dio
Sacrificio e offerta non gradisci,
gli orecchi mi ha aperto,
Non hai chiesto olocauso nè sacrificio
per il peccato.
Allora ho detto: “Ecco, io vengo”
Ho annunciato la tua giustizia
nella grande assemblea;
vedi: non tengo chiuse le labbra,
Signore, tu lo sai.
Il salmo inizia con una lode a Dio per la liberazione da grandi difficoltà. E’ una lode piena di giubilo, di forza, di annuncio della bontà del Signore. Il salmista è giunto ad una grande intimità con Dio, e Dio gli ha posto “sulla bocca un canto nuovo”. Egli con uno sguardo lieto verso il futuro afferma che “molti vedranno e avranno timore e confideranno nel Signore”. Egli crede che tutta la terra conoscerà il tempo della pace.
Egli presenta la beatitudine dell’uomo che rimane col Signore e “e non si volge verso chi segue gli idoli”, di coloro che si credono autosufficienti e seguono così la menzogna. Il salmista nel suo giubilo ricorda le opere del Signore fatte a favore del suo popolo: “Quante meraviglie hai fatto, tu, Signore, mio Dio, quanti progetti in nostro favore”.
Egli afferma che il culto a Dio non è una semplice ritualità, ma deve scaturire dal cuore, da un vero amore a Dio, che si esprime nell’obbedienza alla sua parola. Egli ha capito - “gli orecchi mi hai aperto” - come il culto al tempio, senza l’obbedienza del cuore, disgusta Dio: “Sacrificio e offerta non gradisci”. “Gli orecchi mi hai aperto”, è traduzione che legge l’ebraico “karatta”, “forato”, come “aperto”. Questa lettura si collega a 1Samuele 9,15 e a Isaia 50,5 ed è stata promossa da autorevoli esegeti (Podechard e Dorme).
Ha capito perché ha ascoltato la Scrittura (Il rotolo del libro), e quindi ha obbedito alla Parola la quale lo ha illuminato sul vero culto da rendere a Dio. L’orecchio è organo dell’ascoltare, ma qui è pure simbolo dell’obbedire.
L’espressione “gli orecchi mi hai aperto”, si trova con versione diversa nella traduzione greca detta dei LXX : “un corpo invece mi hai preparato”. Questa versione è poi entrata nella lettera agli Ebrei (10,5), che dipende quanto a citazioni del Vecchio Testamento dalla traduzione dei LXX. La spiegazione di questa diversità va ricercata in una deficienza introdotta da un copista nel manoscritto, o più manoscritti di derivazione, a disposizione dei LXX, i quali dovettero superare l’incertezza letteraria con un pensiero teologico, affermando che nell’adorazione a Dio, nel vero culto a Dio, tutto l’uomo entra in gioco; il corpo deve essere sottomesso con decisa volontà ai comandamenti di Dio. I sacrifici, gli olocausti del tempio, sono un appello “al sacrificio, all’olocausto”, di dominio del proprio corpo. Sulla base di questo pensiero teologico i LXX fecero la loro traduzione; e questa è entrata nella lettera agli Ebrei riguardo l’Incarnazione.
Il salmista ha letto che nella Legge (Il rotolo del libro) è comandato di fare la volontà di Dio, che è amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze; dunque non un culto dove sia assente il cuore, dove il senso non sia dominato, dove non ci sia obbedienza alla Parola, e non amore verso i fratelli. Egli dice: “su di me è scritto”; poiché “Il rotolo del libro” non chiede solo l’adesione della collettività, ma innanzi tutto l’adesione personale.
Fare la volontà di Dio è il desiderio intimo del salmista.
Egli nel giubilo non si dimentica del dovere di annunciare agli altri quanto Dio ha fatto per lui: “Non ho celato il tuo amore e la tua fedeltà alla grande assemblea”.
E il suo giubilo scaturisce dall’umiltà; perciò non è euforia. Egli, umile, si dichiara colpevole davanti a Dio, e chiede a lui sostegno per sostenere e uscire dai mali che lo circondano: “La tua fedeltà e la tua grazia mi proteggano sempre, poiché mi circondano mali senza numero”.
Anche se “povero e bisognoso”, il salmista non dubita affatto che Dio ha cura di lui e perciò termina il salmo con un grande atto di fiducia: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore: mio Dio, non tardare”
Commento tratto da “Cantico dei Cantici” di P.Paolo Berti
Dalla prima lettera di S.Paolo apostolo ai Corinzi
Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è a Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
1^Cor1,1-3
La Prima lettera ai Corinzi, che Paolo scrisse da Efeso nel 53-54, è una delle più lunghe fra quelle scritte da Paolo, paragonabile a quella dei Romani, ambedue infatti sono suddivise in 16 capitoli. La lettera si contraddistingue per la molteplicità dei temi che Paolo vi affronta per chiarire dubbi o difficoltà della comunità e per correggere abusi e deviazioni. In essa l’apostolo dovrà prendere posizioni anche piuttosto critiche, che potrebbero compromettergli la simpatia dei destinatari. Per capire l’animo con cui affronta questo delicato compito pastorale e i rapporti che intende instaurare con la comunità, è significativo il ringraziamento che, come avviene solitamente nelle sue lettere, fa seguito al “prescritto” (mittente, destinatari e saluti).
Nel brano che riporta l’inizio della lettera, troviamo i saluti accorati ed incoraggianti di Paolo e Sostene, suo discepolo ed anche capo della sinagoga di Corinto.
Paolo chiamato ad essere apostolo si rivolge ai Corinti santificati mettendo in risalto che tale santificazione non appartiene solo a loro, ma a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore.
Poi Paolo continua augurando anzitutto, come in tutte le sue lettere: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!.
Questo saluto unisce quello tipico del mondo ebraico (shalôm, pace) a quello del mondo greco (chaire, salve), e mediante questa fusione di due diversi modi di salutare, Paolo esprime la pienezza dei doni messianici, che consistono nella grazia di Dio e nella pace personale e universale. Egli invoca questi doni anzitutto da parte di Dio Padre, e poi dal Signore Gesù Cristo: Dio è la fonte di ogni grazia che dispensa mediante suo Figlio.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!
Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Gv 1,29-34
ooo
L’evangelista Giovanni citava già la testimonianza di Giovanni il Battista nel prologo e in questo brano presenta Gesù come l’Agnello di Dio. Qui Gesù compare improvvisamente sulla scena infatti il brano inizia dicendo semplicemente: “Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”
L’espressione usata dal Battista per indicare Gesù è piuttosto strana in quanto non è chiaro perché a Gesù gli dia l’appellativo di “agnello di Dio” e perchè questo titolo ha la funzione di togliere il peccato del mondo. Però se l’espressione la si confronta con il quarto carme del Servo del Signore (Is 52,13-2,12), dove sono riportate espressioni simili, si può comprendere la ragione. L’idea fondamentale del carme di Isaia è quella del giusto che, inviato da Dio a radunare gli israeliti dispersi in esilio a causa dei loro peccati, stabilisce con essi un rapporto profondo di solidarietà, condividendo e quindi prendendo in qualche modo su di sé, in un atteggiamento di fedeltà totale a Dio, i loro mali e le loro sofferenze, e così li riconcilia tra di loro e con Dio.
Le espressioni usate dal Battista però sembrerebbero diverse da quelle del carme perché egli parla di “agnello” e non di “servo”, di “togliere” e non di “addossarsi”, di “peccato del mondo” e non di “affanni e di dolori”. Ma al di là delle differenze è chiaro che c’è corrispondenza nei due testi: anche in Isaia il Servo è paragonato a un agnello (era come agnello condotto al macello(v. 7), il suo addossarsi le iniquità di molti per poterle eliminare (v. 11), e infine il termine “molti” (moltitudine) richiama il termine “mondo” usato da Giovanni. È anche pensabile che Gesù sia detto “Agnello di Dio” e non “Servo del Signore” per mettere simbolicamente la Sua persona in rapporto con l’agnello pasquale, il cui sacrificio ricordava la liberazione del popolo dall’Egitto. Questa per l’evangelista è stata portata a compimento esattamente mediante la morte di Gesù, con la quale si è attuata la liberazione definitiva dal peccato.
La testimonianza del Battista prosegue con queste parole: “Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele”.
Gesù dunque è l’uomo di cui egli aveva detto che, pur venendo dopo di Lui lo avrebbe preceduto, perché era prima di Lui. Giovanni afferma poi che non lo conosceva, non nel senso di una conoscenza umana, ma perché non sapeva che proprio Lui fosse l’atteso. Da quanto egli poi aggiunge sembra che tutta la sua opera di battezzatore non avesse altro scopo che quella di far sì che Gesù fosse rivelato in Israele.
Il Battista accenna poi a un’esperienza da lui stesso fatta: “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui.“ È chiaro il riferimento al battesimo di Gesù come è narrato dai sinottici, con la differenza che in Marco e in Matteo è Gesù, e non il Battista, che vede lo Spirito, mentre Luca afferma che lo Spirito è disceso su di Lui “in forma corporea”, lasciando quindi intendere sia stato visto da tutti.
La discesa dello Spirito richiama alcuni importanti testi profetici, primo tra tutti l’investitura del Servo del Signore, che viene così descritta: Ecco il mio servo che io sostengo,il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui;egli porterà il diritto alle nazioni. (Is 42,1) C’è anche la consacrazione di una figura messianica e profetica descritta nel Terzo Isaia con queste parole: “Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri,” (Is 61,1). La colomba infine era simbolo di Israele e il fatto che qui lo Spirito prenda questa forma richiama con tutta probabilità l’idea del raduno escatologico del popolo di Dio e il suo rinnovamento interiore,che avverrà appunto mediante lo Spirito (Ez 36,27).
Giovanni poi prosegue mettendo in luce il compito assegnato a Gesù: Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. Giovanni dunque battezza solo con acqua; Gesù invece battezzerà con lo Spirito. Egli potrà farlo appunto perché lo Spirito non solo si posa, ma anche “rimane” su di Lui: questa espressione non si trova nei sinottici ma si riferisce ad un altro testo profetico: Su di lui si poserà lo spirito del Signore,spirito di sapienza e di intelligenza,spirito di consiglio e di fortezza,spirito di conoscenza e di timore del Signore. (Is11,2) È questa presenza duratura dello Spirito che darà a Gesù la possibilità di “battezzare con lo Spirito Santo”. Qui c’è un riferimento al battesimo cristiano, e in generale all’opera della Spirito nella comunità cristiana. Il battesimo di Giovanni non ha dunque altro scopo che quello di mettere in luce colui che amministrerà il vero battesimo.
Giovanni conclude la sua testimonianza in questo modo: “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio”. Nei sinottici è il Padre stesso che nel battesimo presenta Gesù come Suo Figlio, invece nel vangelo di Giovanni questa proclamazione è riservata al Battista, il quale è venuto proprio per rendergli questa testimonianza.
La discesa dello Spirito viene presentata dal vangelo di Giovanni come l’aspetto fondamentale della missione di Gesù e ciò significa che la Sua opera di riconciliazione è l’espressione più piena della lotta che Dio stesso conduce contro la potenza del male.
Anche l’immagine del Battista appare diversa da quella presentata dai sinottici. In alcuni tratti della sua figura e della sua predicazione non appare più come il predicatore che chiama alla penitenza in vista del giudizio finale, ma semplicemente come colui che ha preparato la venuta di Cristo. Questo è ciò che costituisce la sua vera grandezza. I suoi dubbi circa la persona di Gesù, ricordati nei sinottici, non sono menzionati in questo vangelo, egli appare come l’araldo dotato di una fede analoga a quella dei primi cristiani, che manda i propri discepoli da Gesù non per chiedere spiegazioni, ma per offrire loro l’occasione di diventare Suoi discepoli.
Con la festa del Battesimo del Signore, celebrata domenica scorsa, siamo entrati nel tempo liturgico chiamato “ordinario”. In questa seconda domenica, il Vangelo ci presenta la scena dell’incontro tra Gesù e Giovanni Battista, presso il fiume Giordano. Chi la racconta è il testimone oculare, Giovanni Evangelista, che prima di essere discepolo di Gesù era discepolo del Battista, insieme col fratello Giacomo, con Simone e Andrea, tutti della Galilea, tutti pescatori. Il Battista dunque vede Gesù che avanza tra la folla e, ispirato dall’alto, riconosce in Lui l’inviato di Dio, per questo lo indica con queste parole: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!»
Il verbo che viene tradotto con “toglie” significa letteralmente “sollevare”, “prendere su di sé”. Gesù è venuto nel mondo con una missione precisa: liberarlo dalla schiavitù del peccato, caricandosi le colpe dell’umanità. In che modo? Amando. Non c’è altro modo di vincere il male e il peccato se non con l’amore che spinge al dono della propria vita per gli altri. Nella testimonianza di Giovanni Battista, Gesù ha i tratti del Servo del Signore, che «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4), fino a morire sulla croce. Egli è il vero agnello pasquale, che si immerge nel fiume del nostro peccato, per purificarci.
Il Battista vede dinanzi a sé un uomo che si mette in fila con i peccatori per farsi battezzare, pur non avendone bisogno. Un uomo che Dio ha mandato nel mondo come agnello immolato. Nel Nuovo Testamento il termine “agnello” ricorre più volte e sempre in riferimento a Gesù. Questa immagine dell’agnello potrebbe stupire; infatti, un animale che non si caratterizza certo per forza e robustezza si carica sulle proprie spalle un peso così opprimente. La massa enorme del male viene tolta e portata via da una creatura debole e fragile, simbolo di obbedienza, docilità e di amore indifeso, che arriva fino al sacrificio di sé. L’agnello non è un dominatore, ma è docile; non è aggressivo, ma pacifico; non mostra gli artigli o i denti di fronte a qualsiasi attacco, ma sopporta ed è remissivo. E così è Gesù! Così è Gesù, come un agnello.
Che cosa significa per la Chiesa, per noi, oggi, essere discepoli di Gesù Agnello di Dio? Significa mettere al posto della malizia l’innocenza, al posto della forza l’amore, al posto della superbia l’umiltà, al posto del prestigio il servizio. È un buon lavoro! Noi cristiani dobbiamo fare questo: mettere al posto della malizia l’innocenza, al posto della forza l’amore, al posto della superbia l’umiltà, al posto del prestigio il servizio. Essere discepoli dell’Agnello significa non vivere come una “cittadella assediata”, ma come una città posta sul monte, aperta, accogliente, solidale. Vuol dire non assumere atteggiamenti di chiusura, ma proporre il Vangelo a tutti, testimoniando con la nostra vita che seguire Gesù ci rende più liberi e più gioiosi.
Papa Francesco
Parte dell’Angelus del 19 gennaio 2014
L'umanità è una grande e immensa famiglia ... Troviamo la dimostrazione di ciò da quello che ci sentiamo nei nostri cuori a Natale.
(Papa Giovanni XXIII)